Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo II

Libro settimo - Capitolo II (1-12 ottobre 1562)

../Capitolo I ../Capitolo III IncludiIntestazione 18 dicembre 2021 75% Da definire

Libro settimo - Capitolo I Libro settimo - Capitolo III

[p. 21 modifica]

CAPITOLO II

(1-12 ottobre 1562).

[Memoriale dei legati al papa sulle richieste di riforma presentate al concilio. — Pio IV rifiuta all’ambasciatore francese di far differire la sessione. — Nelle congregazioni teologiche, dove discutesi a lungo l’articolo della superioritá dei vescovi sui preti, gli spagnoli risollevano anche la questione dell’istituzione dei vescovi de iure divino; i teologi pontifici la combattono. — I legati, indagati i propositi dei padri sulla riforma, e particolarmente sulla residenza, riferiscono a Roma per averne direttive. — Pio IV, preoccupato anche delle intenzioni dei francesi, pubblica una bolla di riforma di molti abusi. — Preoccupazioni causategli pure dal contegno degli spagnoli, dal prossimo invio d’un altro ambasciatore di quel re a Trento e dalla tendenza in molti padri a prolungare il concilio. — L’abate di Manne è inviato a Roma per annunziare il prossimo arrivo al concilio del cardinale di Lorena. — Istruzioni ai legati, formulate dalla congregazione conciliare in Roma, in previsione dell’atteggiamento di quel cardinale. — Ancora delle arti per impedirne l’andata o limitarne l’azione.]

Quantunque le congregazioni de’ teologi occupassero quasi tutto il tempo, nondimeno li prelati piú mettevano l’animo e tra loro parlavano della riforma (chi promovendola e chi declinandola) che delle materie dai teologi trattate: onde li frequenti e pubblici ragionamenti che per tutto Trento s’udivano, fomentati dalli ambasciatori cesarei e francesi, indussero li legati a reputar necessario il non mostrarsene alieni, massime atteso che avevano promesso alli ambasciatori di proporla dopo trattato dell’ordine, e intendevano esser ricevuto con grande applauso un discorso dell’ambasciator Lansac, fatto in certa adunanza di molti ambasciatori e prelati, dove concluse che se la riforma proposta e richiesta dall’imperatore era tanto temuta e aborrita, almeno si doveva trovar modo, senza far [p. 22 modifica] nove ordinazioni, di metter in osservanza le cose dagli antichi concili stabilite, levando gl’impedimenti che fomentano gli abusi. Fecero li legati metter insieme le proposte dalli cesarei, e tutte le instanze che sino a quel giorno gli erano state fatte in materia di riforma, e le risposte da loro date, insieme con un estratto delle cose statuite nell’assemblea di Francia e delle richieste da prelati spagnoli; le quali mandarono al pontefice, con dirgli che non pareva loro possibile il trattener piú in parole, ma con qualche effetto mostrare al mondo d’aver animo di trattar questa materia, e venendo a risoluzione, satisfare in qualche parte alli ambasciatori de’ prencipi, massime in quello che ricercano per interesse del loro paese, avendo però considerazione alla qualitá delle cose, che non portassero pregiudicio alla potestá pontificia e alle prerogative della chiesa romana.

Il pontefice, veduta l’instruzione del re di Francia, non potendo sentir cosa piú ingrata che di allongarsi il concilio, a che egli aveva concetto dover nella seguente sessione delli 12 novembre difinir tutto quello che rimaneva di trattare, e se qualche cosa fosse restata, al piú longo doversi finire, suspendere o dissolvere nel fine di quell’anno; all’ambasciator residente appresso di sé, che gli faceva instanza di differire la trattazione delli dogmi alla venuta de’ suoi prelati e tra tanto trattare di riforma, rispose: quanto all’aspettar li prelati, esser avvisato che il Cardinal di Lorena aveva risoluto di aspettar la presa di Bourges e poi accompagnar il re ad Orlians; cose che ben demostravano che la sua partita di Francia sarebbe stata molto tarda e forse anco mai sarebbe effettuata: che non era giusto sopra disegni cosí lontani trattenir tanti prelati in Trento; che le richieste di dilazione sono parole per tenerlo esso e li prelati in spese, non per volontá che francesi abbino d’andar al concilio; e se con le dilazioni lo constringeranno continuar a consumar il danaro, protestava che non averebbe potuto seguitare in dar aiuti al re. Fece gran riflesso, narrando che per diciotto mesi li francesi sono stati aspettati in Trento, trattenendo lui con varie e frivole scuse. Si dolse ancora della [p. 23 modifica] sua condizione; che se il concilio usa qualche rispetto verso lui (che lo fa ben in poche cose), li ambasciatori che sono lá si lamentano che il concilio non è libero; e con tutto ciò essi medesimi lo ricercano di ordinare dilazione, che è la cosa piú ingiusta e piú aborrita da’ padri d’ogn’altra. Concluse che, quando avesse certezza o verisimilitudine della loro andata, farebbe opera che fossero aspettati. Aggionse d’aver dato ordine d’esser avvisato per corrier espresso quando partirá il cardinale, e allora fará opera che sia aspettato; tra tanto non gli parer giusto fare che li padri stiano oziosi. E quanto alla riforma, esser piú necessario aspettarlo che per le materie de’ dogmi, le quali non toccano a lui, che è buon cattolico, ed è certo che non può dissentire dagli altri: ma ben nella riforma è giusto ascoltarlo, qual li appartiene, essendo un secondo papa con molti benefici e trecentomila scudi d’entrata de beni di Chiesa; dove esso pontefice non aveva piú che un beneficio solo, de qual si contentava. Che aveva con tutto ciò riformato se stesso e tutte le parti della sua corte, con danno e perdita di molti ufficiali di quella; e farebbe anco di piú, se non vedesse chiaro che, diminuendo le sue entrate, egli faceva il fatto delli avversari suoi, indebolendo le forze proprie e li nervi del suo stato, ed esponendolo, insieme con tutti li cattolici che sono nella sua protezione, alle ingiurie de’ suoi nemici. E per quello che aspetta alle regioni non soggette a lui in temporale, la destruzione della disciplina nasceva da loro medesmi e dalli re e principi, che con instanze indebite e importune lo constringono a provvisioni e dispense estraordinarie. Esser misera la sua condizione, ché se nega le richieste inconvenienti fattegli, ognuno di lui si duole e si tiene offeso e ingiuriato; se le concede, a lui viene ascritto tutto il male che per causa loro segue; e si parla di riforma, come li ambasciatori del re hanno fatto in Trento, con termini generali, senza che si possi intendere quello che vorrebbono. Vengano, disse, una volta all’individuo, e dicano quello che vogliono nel regno riformare, che in quattro giorni se gli sodisfará. Che li prelati in Poissi hanno regolato molte cose; che egli confermerá quegli ordini, se sará richiesto; [p. 24 modifica] ma il voler star sopra li universali e riprender tutto quello che si fa, non proponendo alcuna cosa, dimostra poca buona volontá.

Restava la quarta classe de’ teologi, li quali dovevano trattare della superioritá de’ vescovi a’ preti. Dalli primi fu seguita la dottrina di san Tomaso e Bonaventura, che dicono due potestá esser nel prete: l’una nel consecrar il corpo e sangue di Cristo, l’altra nel rimetter li peccati. Nella prima il sacerdote esser senza superiore, né il vescovo aver maggior autoritá che il semplice prete; ma nella seconda, ricercandosi non solo la potestá dell’ordine, ma anco della giurisdizione, rispetto a questa il vescovo esser superiore. Altri dopo aggionsero che piú eccellente azione è il dar autoritá di consecrare che il consecrare, e però anco in questa essere superiore il vescovo, ché non solo esso può farlo, ma ordinare li preti e dar loro autoritá. Ma essendo disputato di questo assai, e con l’occasione tornato a trattare li articoli della ierarchia, come un istesso con questo della superioritá, e parimente disputato se consiste nell’ordine, nella giurisdizione, o in ambedue, fra’ Antonio da Montalcino franciscano disse che l’articolo non si doveva intendere d’una superioritá immaginaria e consistente in preeminenza o perfezione di azione, ma d’una superioritá di governo, sí che possi far leggi e precetti e giudicar cause, cosí nel fòro della conscienzia come nell’esteriore. Che questa superioritá è negata dalli luterani, e di questa s’ha da trattare. Disse che nella Chiesa universale conveniva che ci fosse una tal autoritá per reggerla, altrimenti non averebbe potuto conservarsi in unitá. Lo provò con li esempi tratti dalle api e dalle grue; e in ciascuna chiesa particolare esser parimente necessario un’autoritá speciale per reggerla, e questa esser nei vescovi che hanno parte della cura, la totalitá della quale è nel papa, capo della Chiesa: che questa essendo potestá di giudicar, far processi e leggi, è potestá di giurisdizione. Che quanto all’ordine, il vescovo è di piú alto grado che il prete, avendo tutta la potestá di quello e due altre di piú; ma non si dice però superiore, sí come il suddiacono è quattro gradi piú alto [p. 25 modifica] dell’ostiario, non però si dice superiore. Provò questo suo parere per l’uso universale di tutta la Chiesa e di tutte le nazioni cristiane; portò diverse autoritá de’ Padri per confirmarlo, e finalmente si ridusse alla Scrittura divina, mostrando che questa sorte di autoritá è chiamata di pastore, adducendo molti luochi de’ profeti; e che quella universale fu data a san Pietro, quando Cristo disse: «Pasci le mie agnelle», e la particolare fu data da Pietro alli vescovi, quando disse loro: «Pascete il gregge che avete in custodia». Questa sentenza ebbe grand’applauso.

Ma prima che finissero di parlar questi della quarta classe, li prelati spagnoli, risoluti d’introdur la trattazione che i vescovi siano da Cristo instituiti, avendo insieme consultato, conclusero esser meglio che il primo moto fosse fatto nelle congregazioni de’ teologi, acciò in quelle de’ padri la materia fosse preparata, e potessero essi con maggior apparenza di ragioni, ripigliando le cose dette, discorrervi sopra e constringer gli altri a parlarne. Pertanto nella congregazione del primo ottobre Michele Orosciuspe, teologo del vescovo di Pampalona, al settimo disse che, disputando di qualificare o condannare una proposizione che riceva molti sensi, è necessario distinguerli, e poi ad uno ad uno considerarli: e tale gli pareva esser la proposta di quell’articolo, se li vescovi sono superiori alli preti, imperocché s’ha da distinguere se sono superiori de facto o de iure. Che de facto non si poteva dubitare, vedendosi di presente e leggendosi nelle istorie di molti secoli che li vescovi hanno esercitato superioritá e li preti obedienzia; però che in questo senso l’articolo non poteva venir in controversia: adunque restava discuterlo de iure. Ma anco qui cadeva un’altra ambiguitá, quo iure potendosi intendere iure pontificio o iure divino. Quando s’intenda al primo modo, esser cosa chiarissima che sono superiori, ritrovandosi tante decretali che espressamente lo dicono. Ma con tutto che ciò sia vero e certo, non sarebbono da condannar li luterani per questo rispetto come eretici, non potendosi aver per articolo di fede quello che non ha altro fondamento che in legge umana: meritano ben esser [p. 26 modifica] condannati, negando la superioritá de’ vescovi alli preti, quando quella sia de iure divino. Soggionse che egli ciò aveva per chiaro, e poteva evidentemente provarlo e risolvere ogni cosa in contrario; ma non doveva passar piú oltre, essendo proibito il parlarne. E qui passò a mostrare esser proprio del li vescovi il ministerio della confirmazione e della ordinazione. E parlato sopra l’ottavo capo in conformitá degli altri, finí il suo discorso.

Seguitò dopo lui a parlare Gioanni Fonseca, teologo di Granata, il qual entrò nella materia gagliardamente, e disse che non era né poteva esser proibito il parlarne, poiché, essendo proposto l’articolo per discutere se era eretico, è ben necessario che si tratti se è contra la fede, né contra quella può intendersi cosa che non repugni al ius divino; che egli non sapeva onde fosse derivata la voce che non si potesse parlarne, poiché anzi con la proposta dell’articolo era comandato che fosse discusso. E qui passò a trattare non solo della superioritá, ma dell’istituzione ancora, asserendo che li vescovi sono da Cristo instituiti, e per ordinazione sua divina superiori alli preti; allegando che se il pontefice è instituito da Cristo perché egli abbia detto a Pietro: «Ti darò le chiavi del mio regno» e: «Pasci le mie agnelle», parimente li vescovi sono da lui instituiti, perché ha detto a tutti gli apostoli: «Sará legato in cielo quello che legarete in terra», e: «Saranno rimessi li peccati a chi li rimetterete». Ed appresso di ciò gli disse: «Andate nel mondo universo, predicate l’Evangelio»; e, quel che piú di tutto importa, disse loro: «Sí come il Padre ha mandato me, cosí io mando voi». E se il pontefice è successor di san Pietro, li vescovi sono successori degli apostoli: e allegò un gran numero d’autoritá de’ Padri, che dicono li vescovi esser degli apostoli successori. E recitò particolarmente un longo discorso di san Bernardo in questa materia, nel secondo libro ad Eugenio papa: addusse ancora il luoco degli Atti apostolici, dove san Paulo disse alli efesi: «che erano posti dallo Spirito Santo vescovi a regger la Chiesa di Dio». Soggionse che l’esser confermati o creati dal papa non valeva per concludere che da Cristo non fossero instituiti e da lui non avessero autoritá. Sí come il papa è [p. 27 modifica] creato dalli cardinali e ha l’autoritá da Cristo, e li preti sono creati dal vescovo ordinatore, ma l’autoritá la ricevono da Dio, cosí li vescovi dal papa ricevono la diocesi, ma da Cristo l’autoritá. La superioritá alli preti de iure divino la provò con autoritá di molti Padri, che dicono li vescovi succeder agli apostoli e li preti alli settantadue discepoli. Disse poi sopra le altre particelle dell’articolo le stesse cose dagli altri dette. Il Cardinal Simonetta ascoltò con impazienza e con frequente rivoltarsi alli colleghi, e stava per interromper il discorso; ma per esser introdotto con tanta ragionevolezza e udito con tanta attenzione dalli prelati presenti, non se ne seppe risolvere.

Dopo questo segui fra’ Antonio di Grossuto dominicano, il qual dopo aver brevemente detto sopra gli altri articoli, si fermò in questo. Fece grand’insistenza sopra le parole di san Paulo dette agli efesi in Mileto, esortandoli alla cura del gregge per esser dallo Spirito santo preposti a reggerlo; e sopra questo fece piú osservazioni. Disse prima esser molto necessario il dechiarare che li vescovi non hanno la commissione del loro ufficio dagli uomini; che quando questo fosse, sarebbono mercenari, a’ quali le agnelle non appartengono; e sodisfatto l’uomo che gli ha dato la cura, non averebbono altro che pensare. Ma san Paulo dimostrò l’obbligo di regger il popolo cristiano esser divino e dato dallo Spirito santo, per concludere che non si potevano scusare sopra alcuna dispensazione umana. Allegò il celebre passo di Cipriano, che ogni vescovo è tenuto render conto a solo Cristo. Aggionse poi che i vescovi di Efeso non erano delli instituiti da Cristo nostro Signore mentre era in carne mortale, ma dal medesimo san Paulo, o altro apostolo o discepolo; e pur tuttavia non si fa menzione alcuna dell’ordinatore, ma il tutto allo Spirito santo s’attribuisce, che non solo abbia data l’autoritá di reggere, ma anco divisa la parte del gregge consigliatagli da pascere. E con questo fece invettiva contra quelli che li giorni inanzi detto avevano che il papa distribuisce il gregge, inculcando che non era ben detto, ed era un ritornar in uso quello che san Paulo detestò: «Io son di Paulo, e io di Apollo»: che il papa [p. 28 modifica] è capo ministeriale della Chiesa, per il quale Cristo, principal capo, opera, e a cui l’opera si deve ascrivere, dicendo conforme a san Paulo che lo Spirito Santo dá il gregge da reggere; che mai l’opera s’ascrive all’instrumento o al ministro, ma sempre all’agente principale; che dalli antichi è stata usata sempre questa forma di parlare: «che Dio e Cristo proveggono alle chiese de governatori»; la qual è presa da san Paulo, che alli medesimi efesi scrisse: «che Cristo asceso al cielo ha provvisto alla Chiesa apostoli, evangelisti, pastori e maestri», mostrando chiaro che dopo asceso in cielo provvede pastori; e non altrimenti a Cristo solo debbe esser ascritta l’instituzione delli pastori e maestri (in quali sono li vescovi) che delli apostoli ed evangelisti medesimi.

S’avvidde il teologo che dalli legati e da altri ancora non era gratamente udito; e temendo qualche incontro, come in altre occasioni era avvenuto, soggionse che era passato a quel discorso impremeditato, e portato dalla consequenza delle parole e dal fervor del ragionamento, non raccordandosi che fosse proibito il parlar di quel ponto. E rientrato ad esaminar li uffici propri de’ vescovi, e contradetto alli luterani che li reputano superflui, e mostrato che sono usitati da antichissimi tempi nella Chiesa e vengono dalla tradizione apostolica, finí.

S’avviddero li legati che questa era stata arte di Granata e altri spagnoli per dar campo alli prelati d’allargarsi in questa materia; però fu operato che la contraria sentenza fosse difesa da alcuno di quelli che (quattro solamente) per finir tutto il numero rimanevano il giorno seguente; sí come furono anco preparati per contradire alli vescovi spagnoli li pontifici soliti farlo, se nelle congregazioni avessero introdotta la materia.

Il seguente giorno, 2 ottobre, due teologi furono a provare che sí come la superioritá de’ vescovi era certa, cosí il cercar quo iure era cosa difficile a decidere; e quando fosse stata decisa, di nessun frutto, e però da tralasciare. Due altri sostennero che era de iure pontificio. E fra’ Adamanzio fiorentino, teologo di Seripando, portò il discorso conforme all’opinione di Gaetano e del Catarino in questa forma: che il vescovato è de iure [p. 29 modifica] divino instituito da Cristo per reggere la Chiesa; che la Maestá sua ha instituito vescovi tutti gli apostoli, quando gli ha detto: «e Io vi mando, sí come son io stato dal Padre mandato»: ma quella instituzione fu personale, e con ciascun di loro si doveva finire; e uno ne constituí, che perpetuamente dovesse durare nella Chiesa, che fu Pietro, quando disse, non a lui solo, ma a tutta la sua successione: «Pasci le mie agnelle». E cosí intese sant’Agostino, quandodisse che Pietro rappresentava tutta la Chiesa, il che da nessun degli apostoli fu mai detto. Anzi san Cipriano disse che san Pietro non solo è tipo e figura dell’unitá, ma che la unitá incomincia da lui. In questa potestá, a solo Pietro e successori data, si contiene la cura di reggere tutta la Chiesa e di ordinar altri rettori e pastori, non però come delegati, ma come ordinari, dividendo particolari provincie, cittá e chiese. Per il che, quando si addimanda se alcuno è vescovo de iure divino, s’ha da dire che sí, uno solo, il successor di Pietro: del resto il vescovato è ben de iure divino, sí che manco il papa può fare che non vi siano vescovi nella Chiesa, ma ciascuno d’essi vescovi sono de iure pontificio: di onde viene che egli può crearli, transferirli, restringerli e ampliarli la diocesi, darli maggior o minor autoritá, suspenderli anco e privarli: che non può in quello che è de iure divino, perché al sacerdote non può levar l’autoritá di consecrare, avendola da Cristo; e al vescovo può levare ogni giurisdizione, non per altro se non perché l’ha da lui. E a questo modo doversi intendere il celebre detto di Cipriano: «Il vescovato è uno, e ciascun vescovo ne tiene una parte in solido»: altrimenti dicendo, non si può defender che il governo della Chiesa sia il piú perfetto di tutti, cioè monarchico, e per necessitá si darebbe un governo oligarchico imperfettissimo, e dannato da tutti quelli che dei governi scrivono. Concluse che quo iure li vescovi sono instituiti, per il medesimo sono alli preti superiori, e quando s’abbia da descender alla dechiarazione, che cosí bisognerá dechiarare. Allegò san Tomaso, qual dice in molti luochi che ogni potestá spirituale depende da quella del papa, e ogni vescovo debbe dire: «Io ho ricevuto parte di quella [p. 30 modifica] pienezza»; né doversi guardare gli altri scolastici vecchi, perché nessuno ha trattato questa materia, ma li moderni, che, dopo nata l’eresia delli valdesi, avendo studiato la Scrittura e li Padri, hanno stabilita questa veritá.

L’ultimo teologo s’affaticò in contradire a questo, per quello che disse li apostoli esser da Cristo ordinati vescovi, dicendo che quando mandò gli apostoli, sí come egli fu dal Padre mandato, li mandò a predicare e battezzare, che non è cosa da vescovo, ma da prete; e che solo Pietro fu da Cristo ordinato vescovo, ed egli dopo l’Ascensione ordinò vescovi gli altri apostoli. E allegò il cardinale Turrecremata e diversi altri. Sopra le altre particole dell’articolo e del seguente furono tutti concordi nel sentire che fossero dannati; e cosí fu posto fine alle congregazioni de’ teologi.

Dopo le quali li legati, ritrovandosi in obbligo di proponer la riforma, finite le dispute, considerato che particolari si potessero propor non pregiudiciali e di sodisfazione, si trovarono molto impediti, poiché tutto quello che fosse grato agli ambasciatori sarebbe stato o dannoso alla corte o di disgusto alli vescovi; né si poteva metter mano a cosa grata ai vescovi, che non fosse o di pregiudicio a Roma o ai principi. Fu la loro risoluzione di espedir un corriero al papa e aspettar risposta, e fra tanto portar in longo col far parlar li prelati nella materia dell’ordine. In particolare alla Santitá sua diedero conto della contenzione che prevedevano sopra l’articolo della superioritá de’ vescovi, attesa la petizione delli prelati spagnoli e l’ingresso fatto da’loro teologi; e se ben non sapevano prevedere dove volessero capitare, nondimeno, osservando la veemenza dell’instanza, e sapendo quanto li spagnoli tengano le mire da lontano, non potevano se non sospettare. Li raccordarono esser il tempo che s’era promesso di parlar della residenza, e che giá se n’era sentito qualche motivo; e l’arcivescovo di Messina aveva ricercato quelli di Cipro e Zara per intender qual sarebbe stata la loro intenzione, quando fosse stata proposta; e molte pratiche si subodoravano, se ben non si poteva penetrar il fondo. Che essi avevano giá ordinato ad [p. 31 modifica] Otranto e al Ventimiglia di scoprir con destrezza come la sentivano li prelati, quando si fosse proposto di rimetter a Sua Santitá: che fatto accurato scandaglio, trovarono che sarebbono stati sessanta rigidamente contrari, con poca speranza che con uffici se ne potesse rimover alcuno: e se bene a loro instanza il secretario del marchese aveva fatto uffici efficaci con li spagnoli, non aveva riportato se non che non erano per opporsi con acerbitá, ma dir il voto loro piacevolmente e senza strepito; che sapevano la maggior parte, per depender da Roma, esser di contraria opinione, ma dovevano almeno sgravare la conscienzia loro; che ben sapevano non esser questo contrario a Sua Santitá, della cui ottima e santissima mente erano certi, ma bene alli vescovi che li stanno appresso. Aggionsero anco che li medesmi spagnoli, avendo presentito trattarsi di rimetter a Sua Santitá, dicevano essersi fatto il medesimo dell’uso del calice, ed esser vano far concilio per trattar quello che niente importa, e quello che merita provvisione rimetterlo. Avvisarono della promessa fatta alli ambasciatori di proponer riforma, e l’impossibilitá che era di portar piú in longo; e avendosi qualche avviso della venuta di Lorena e del li francesi, e insieme intendendosi che verranno pieni di concetti e disegni di novitá, concludevano potersi tener per fermo che si uniranno con li mal sodisfatti che trovaranno in Trento. Per il che, in tante ambiguitá di consegli non sapendo pigliar partito, avevano deliberato aspettar li comandamenti di Sua Santitá.

In questo medesimo tempo il pontefice, d’altrove avvisato delli pensieri di Lorena, e in particolar di voler riforma dell’elezione del pontificato, a fine che ne toccasse la sua parte anco alli oltramontani, ed essendone certificato, li penetrò altamente nell’animo. E risoluto di non aspettar il colpo, ma prevenire, diede conto di questo a tutti li principi italiani, mostrando quanta diminuzione sarebbe della nazione, quando ciò succedesse: che per sé non parlava, poiché a lui non poteva toccare, ma per li rispetti pubblici e per amore della patria comune. E sapendo che al re di Spagna non averebbe potuto mai esser grato un papa spagnolo, per li pensieri [p. 32 modifica] naturali che il clero di quella nazione ha di liberarsi dalle esazioni regie; meno gli sarebbe piaciuto un francese, per la inimicizia tra le nazioni, ma nell’Italia aveva grandissima parte de confidenti, scrisse al noncio suo che li comunicasse il disegno de’ francesi, inviato a voler un papa, per poter con quel mezzo occupar Napoli e Milano da loro pretenduti. E per non mancar dal canto suo a ciò che fosse levata parte delli fondamenti sopra quali quel cardinale poteva edificare (che erano li abusi per tempi passati di prossimo occorsi) fece una bolla in questa materia; la qual se bene non conteneva di piú che le provvisioni altre volte fatte da diversi pontefici, quali sono invecchiate senza effetto, s’averebbe nondimeno potuto dire non esservi bisogno d’altra riforma in quella parte, poiché la bolla rimediava a tutti gl’inconvenienti occorsi, o almeno gli levava la forza, sí che non si poteva pretender che fossero in vigore; e a chi volesse pronosticarli che sarebbe poco osservata, come altre precedenti, s’averebbe risposto che chi mal fa, mal pensa, ed esser ufficio della caritá cristiana aspettar il bene da ciascuno. Fu data questa bolla il dí 9 d’ottobre 1562.

Dopo questo li gionse avviso che in Spagna s’erano tenute molte congregazioni sopra la riforma universale, per dar commissione all’ambasciator che si manderebbe a Trento, a fine che li prelati spagnoli fossero uniti e operassero tutti ad uno scopo. Non gli fu grata la nova, e meno piacque alli legati che il re mandasse altro ambasciatore, perché il marchese di Pescara operava molto conforme alla mente del papa, e li ministri che egli adoperava in Trento erano milanesi affezionati alla persona di Sua Santitá e dei suoi parenti, e al cardinale Simonetta, che di loro s’era valuto a servizio del pontefice in ogni occorrenza. Ma il conte di Luna, che si disegnava mandare, stato con l’imperatore e re de’ romani, e molto grato a loro, era impresso dei concetti di quei principi; e tanto piú quanto era fama (ed è vero che cosí si deliberò, quantunque non si effettuasse) che doveva venir in nome ambasciator dell’imperatore, per evitar la differenza di precedenza con Francia, ma in fatti ambasciator del re. E al pontefice era sospetta la [p. 33 modifica] congiozione di quei prencipi per molti rispetti, e massime per il re di Boemia, che in molte cose s’era mostrato alieno da lui. Né meno sospetta gli era la destinazione del conte di Luna, il quale non poteva ritrovarvisi se non terminata la dieta di Francfort; la qual, perché almeno sarebbe durata sino in fine dell’anno, porgeva congettura che il re avesse animo di mandar il concilio molto in longo. Ma ricevuto l’ultimo avviso dalli legati, restò piú perplesso, vedendo anco li prelati, eziandio li suoi medesimi, come congiurati a prolongarlo per li intempestivi uffici, quantunque anco li loro interessi ricercassero l’ispedizione. Propose le lettere in congregazione dei cardinali, ordinando che si pensasse al modo piú di ovviare ad una infinitá d’imminenti difficoltá, che come levarsi la noia presente; poiché quanto il concilio piú procedeva inanzi, tanto era piú difficile da maneggiare; né si poteva da Roma per la lontananza dar ordine, che gionto lá non fosse intempestivo: cosa che, andando alla longa, averebbe causato qualche gran male. Si dolse che li oltramontani fossero uniti a prolongarlo per propri interessi: l’imperatore per gratificar li tedeschi, a fine di far elegger il figlio re de’ romani; Francia per potersene valer in caso di accordo con gli ugonotti; Spagna per li suoi rispetti di tener in speranza li Paesi Bassi. Raccontò tutte le difficoltá che nascevano per li vari interessi delli prelati in concilio, li fini che si scoprivano nelli spagnoli, e quello che si intendeva delli disegni de’ francesi che si aspettavano.

In questi medesimi giorni mandò il re di Francia l’abbate di Manna espresso a Roma, per dar conto al pontefice della risoluzione sua d’accettar li decreti del concilio, e dell’andata del Cardinal di Lorena, accompagnato da numero de vescovi, al concilio, per proponer li modi di riunir la religione nel suo regno, avendo giudicato il re e il suo conseglio che nessun fosse piú sufficiente a quel carico che lui, cosí per dottrina, come per esperienza. Il papa con molta ampiezza di parole mostrò di aggradir la risoluzione cosí del mandar il cardinale, come di dar intiera esecuzione ai decreti del concilio; promise che li legati e padri riceverebbono li prelati francesi con [p. 34 modifica] onori e favori, aspettando da loro aiuto nelle cose della religione, nella quale sono tanto interessati, massime il cardinale, che è la seconda persona ecclesiastica, poco minor d’un sommo pontefice. Disse che li vescovi avevano con prudenza trattato la riforma dell’adunanza di Poissi, offerendosi esso di far approvar la maggior parte dal concilio. Soggionse che era costretto di accelerarne il fine quanto prima, per la graní spesa che sosteneva, la qual se fosse durata, non potrebbe continuar li soccorsi che al re dava per la guerra: onde sperava che il re aiuterebbe a concluderlo. Per fine del suo ragionamento disse che egli in concilio non aveva altra autoritá se non di approvar o reprovar le determinazioni di quello, senza il che non sarebbono di alcun valore; e che disegnava, finito il concilio, trovarsi a Bologna, e farvi radunar tutti li padri, per conoscerli e ringraziarli e far l’approbazione. Diede anco al pontefice il messo venuto di Francia lettere del Cardinal di Lorena del tenor medesimo, con aggionta di offerte d’ogni opera e ufficio per conservar l’autoritá della santa sede. Interrogò il pontefice in particolare quello che il cardinale disegnava proponer; né avendo risposta se non generale, cioè li remedi necessari al regno di Francia, per dar al cardinale un avvertimento, rispose che tutto sarebbe ben maturato, decidendosi in concilio ogni cosa per la pluralitá delle voci.

Nella congregazione de’ cardinali fu deliberato di rispondere al li legati che facessero ogn’opera di dar resoluzione all’articolo della residenza inanzi l’arrivo de’ francesi, operando che fosse remesso al pontefice senza alcun decreto, se fosse possibile; quando no, almeno con decreto: il che quando non si potesse ottenere, fosse dechiarata con premi e pene, senza toccar il ponto se fosse o no de iure divino. Che l’articolo della instituzione de’ vescovi pareva arduo e di gran consequenza; però procurassero anco che quello fosse rimesso similmente; ma quando non si potesse, questo osservassero inviolabilmente: di non lasciar determinare che fosse de iure divino. Quanto alla riforma, che la Santitá sua era risoluta, per quello che toccava al pontificato e alla corte, di non [p. 35 modifica] voler che altri se n’intromettessero; che giá aveva fatto tante riforme, come a tutto il mondo era noto, che regolavano ogni disordine; e se alcuna cosa rimanesse, l’averebbe aggionta. Del resto dicessero apertamente a tutti che Sua Santitá rimetteva la riforma liberamente al concilio; ed essi proponessero, delle cose raccordate dalli imperiali e decretate dalli francesi in Poissi, quelle che giudicavano ispedienti, non venendo però a risoluzione senza avvisar prima.

La proposta di finir il concilio fu stimata dalla congregazione di maggior momento, non perché non avessero per evidente la necessitá di farlo, ma per non veder il modo, atteso che, restando tante materie da trattare, né potendosi indur li prelati alla brevitá del parlare e alla concordia del trattare (cose necessarie per una presta espedizione), era impossibile pensar di chiuderlo se non in longo tempo. Il suspenderlo senza consenso dei principi pareva cosa pericolosa e scandalosa, atteso massime l’avviso giá alcuni giorni avuto dalli legati che gli ambasciatori Ferrier e Cinquechiese avevano detto che, quando il concilio si suspendesse, non partirebbono da Trento né lascierebbono partir li prelati aderenti, senza aver prima commissione da’ loro principi. Il ricercarla portar molto tempo, perché indubitatamente averebbono voluto ciascuno d’essi, prima che risponder, saper la mente dell’altro. Per tanto in questo punto non seppero altro risolvere, se non che si sollecitassero li legati alla espedizione delle materie. La venuta di Lorena dava maggior pensiero, essendoci avvisi da diversi luochi che, oltra il negozio dell’elezione del papa, veniva con pensiero di proponer molte novitá sopra la collazione de’ vescovati, sopra la pluralitá de’ benefici e, quello che non meno importava, della comunione del calice, del matrimonio de’ preti e della messa in lingua volgare. E presupponendo che egli non partisse di Francia prima che aver risposta dall’abbate di Manna espedito dal re e da lui, consegliarono che si richiamasse il Cardinal di Ferrara e si offerisse a Lorena la legazione di quel regno (cosa che si poteva sperare che dovesse fermarlo, come desideroso di comandar [p. 36 modifica] a quel clero, tanto che per i tempi passati non s’era potuto contener di macchinar per farsi patriarca in Francia); ma, quando venisse, doversi mandar ancora altri prelati a Trento e qualche cardinali per contrapporsi a lui. Furono anco nominati il Cardinal della Bordisiera e Navagero; ma questo fu differito di risolvere, dubitando che dovesse porger a Lorena occasione di sdegno e farli concepir animo di far peggio, e per non esser tanto noto che il valor di questi bastasse per una tanta opposizione, e anco per aver prima il parer di quelli che erano in Trento, acciò non restassero disgustati. Si ebbe anco considerazione alla spesa che s’accrescerebbe, cosa da non fare senza grande utilitá. Fu però risoluto di scrivere alli legati che non permettessero in modo alcuno che s’introducesse minimo ragionamento della elezione del pontificato, e quando non vi potessero ovviare, non vi prestassero manco la permissione, ma piú tosto se ne tornassero a Roma, per non pregiudicar al collegio de’ cardinali e all’Italia.