Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo IX
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CAPITOLO IX
(gennaio-febbraio 1547).
[Delle qualitá e condizioni dei vescovi. — Dispute sulla pluralitá dei benefici. — Sguardo all’origine e progressi di questo abuso. — Rimedi proposti. — I legati, per istruzioni avute da Roma, cercano di limitare l’azione riformativa del concilio, a difesa della supremazia papale. — Malcontento dei prelati spagnoli per la limitata libertá conciliare. — Essi presentano undici articoli di riforma sui benefici. — I legati, preoccupati, referiscono a Roma, dove vengono esaminati e corretti i suddetti articoli. — Istruzioni ai legati per la sessione. — Preoccupato del contegno indipendente del concilio, pericoloso all’autoritá papale, e della potenza e ostilitá dell’imperatore, Paolo III pensa alla traslazione di quello a Bologna, e dá segrete disposizioni ai legati.]
Di tutte le cose deliberate, e delle difficoltá rimanenti cosí nella materia di fede come di riforma degli abusi, li legati mandarono copia a Roma, richiedendo ordine di quello che dovessero risolversi, tra tanto non tralasciando di reesaminare le medesme materie, ma trattando però piú seriamente la materia della pluralitá de’ benefici, giá, come si è detto, proposta, e parte in questo tempo medesmo ventilata. Della quale, per narrarla continuatamente, ho portato il tutto in questo luoco.
Nella congregazione delli 15 gennaro, quando furono dati fuori gli articoli delli sacramenti, continuandosi la materia incominciata il giorno inanzi, alla pluralitá s’aggionse di trattar le qualitá e condizioni delli vescovi, poiché assai non risedono per non esser atti ad esercitar il carico: e molte cose furono dette, preso principio da quello che san Paulo ricerca nelli vescovi e diaconi, facendo gran riflesso sopra le parole «irreprensibile, dedito all’ospitalitá, non avaro, non nuovo nella religione, e stimato anco dagli esteri». Appresso furono portate altre condizioni requisite da molti canoni; né in questo occorse alcuna contenzione, declamando tutti concordamente contra li vizi e defetti de’ prelati e dell’ordine ecclesiastico; il che non dispiaceva alli legati, vedendo volentieri li prelati a trattenersi con questa immagine di libertá. Ma nel fervore del parlare, Gioanni Salazar vescovo di Lanciano attribuí l’origine del male alla corte romana, la quale nella distribuzione de’ vescovati avesse mira non alla sufficienza delle persone, ma alli servizi ricevuti. A che replicò con molto senso il vescovo di Bitonto, che poco dopo lui parlò, dicendo che immeritamente a quella corte era attribuito quello che veniva per colpa altrui, poiché in Germania ancora li vescovati si danno per elezione; in Francia, Spagna e Ongaria per nominazione regia; in Italia molti sono de iure patronatus, ed anco nelli liberi li principi vogliono sodisfazione, e con le raccomandazioni, che sono preghiere a quali non si può dar la negativa, levano la libertá al pontefice; e chi vorrá non correr dietro all’opinione né lasciarsi trasportar da affetti, ma con sincero giudicio risguardar, vederá che li vescovi fatti liberamente a Roma sono forse li migliori di tutta Europa. Che la pluralitá de’ benefici, male incognito all’antichitá prima, non è stato introdotto dalla corte di Roma, ma dalli vescovi e principi, inanzi che li pontefici assumessero il carico di regolare la materia beneficiale in tutta cristianitá, senza le provvisioni de’ quali, che si vedono nel Corpo canonico, il disordine sarebbe gionto al colmo. Fu udita questa contenzione con piacere e dispiacere, secondo li affetti: ma ben ognuno scopriva che tal materia non si poteva maneggiare senza pericolo, come mostrarono le trattazioni delle seguenti congregazioni.
Ma perché questo particolare merita esser ben inteso, sará cosa giovevole narrar l’origine dell’abuso, e come sia pervenuto a questo colmo. Tralasciato di parlar di quei felici tempi quando il nome di Chiesa era comune a tutta l’adunanza de’ fedeli, alla quale ancora apparteneva l’uso e il dominio delli beni che si chiamano ecclesiastici, quando da una massa comune era preso il vitto e vestito delli poveri e delli ministri, anzi si provvedeva piú principalmente alli bisogni di quelli che di questi; né facendo menzione di quando per la imperfezione si smontò un grado, e si fece di una massa quattro parti, ponendo nell’infimo luoco quella de’ poveri, che secondo l’uso dinanzi doveva esser nel primo; ma pigliando principio dopo che, escluso dal nome di Chiesa il populo di Cristo e appropriatolo alli soli chierici per appropriarli insieme l’uso e il dominio delli beni, fu a pochi applicato quello che di tutti era, e alli opulenti quello che prima serviva agl’indigenti: nel principio, dico, di quei tempi, avendo li chierici partito tra loro tutte l’entrate della Chiesa, li carichi che prima erano chiamati ministeri e uffici della cura spirituale ebbero per principale il temporale, e furono nominati benefici. E per allora, vivendo tuttavia li canoni antichi che uno non fosse a doi titoli ordinato, nessun poteva aver se non un beneficio. Ma succedendo per guerre o inondazioni la diminuzione dell’entrate, sí che non restassero sufficienti per il vitto, era quel beneficio conferito a chi un altro ne teneva, ad un tale però che potesse attendere ad ambidua; il che s’introdusse fare non a favor del beneficiato, ma della Chiesa, la qual non potendo aver un proprio ministro, avesse almeno qualche altro servizio che li potesse esser prestato. Sotto pretesto che un beneficio non fosse sufficiente al vitto e non si trovasse chi li servisse, s’allargò a concederne piú ad uno, quantonque non apparisse necessario per servizio delle chiese; e pian piano levata la maschera, non s’ebbe per vergogna far l’istesso a favor del beneficiato, di che ricevendo il mondo scandalo, convenne moderare e onestare l’introduzione. Laonde, poiché si vedeva accettata la distinzione di ubbligati alla residenza e non ubbligati, della quale di sopra s’è detto, in conseguenza fu aggionta un’altra de compatibili e incompatibili, chiamando incompatibili tra loro quelli di residenza, e compatibili gli altri con questi e tra loro; sempre però al color dell’onestá era reservato il primo luoco con la glossa de’ canonisti: che piú benefici non siano dati se non quando uno non basta per vivere. Ma questa sufficienza la tagliavano molto larga, proporzionandola non alla persona, ma anco alla qualitá; non avendo per sufficiente ad un prete dozzenale se non fosse bastante per sé, per la fameglia de’ parenti, per tre servitori e un cavallo; ma se fosse nobile o vero litterato, tanto piú. Per un vescovo è maraviglia quanto l’allargano, per il decoro che li convien tenere. Delli cardinali basta considerare il volgar detto della corte, che s’uguagliano alli re; dal che concludono che nessuna entrata sia eccessiva in loro, se non è soprabbondante alla condicione regale. Introdotta la consuetudine, e non potendo il mondo né l’equitá resistere, li pontefici romani riservarono a sé soli il poter dispensare degl’incompatibili, e dell’averne piú de doi degli altri.
Ma per trovar modo di metter in pratica, che avesse del colorato, si diede mano alle commende, cosa anticamente ben instituita e poi adoperata solo a questo fine. Giá quando, per qualche rispetto di guerre, pesti e altre cause tali, non si poteva cosí presto far l’elezione o provvisione, il superiore raccomandava la chiesa vacante a qualche persona di bontá e valore, che oltra la cura della propria governasse anco la vacante, sinché fosse provvisto di rettore proprio e titulario: questo allora non aveva facoltá sopra le entrate, se non di governarle e consegnarle. In progresso li commendatari, sotto vari pretesti di necessitá e onestá, si valsero de’ frutti, e per goderli piú longamente attraversavano vari impedimenti alla provvisione; onde per rimedio fu preso ordine che la commenda non potesse durar piú di sei mesi. Ma li papi, con l’autoritá loro di plenipotenza, passarono a commendare per piú longo tempo, e finalmente anco a vita del commendatario, e con facoltá di usar per sé li frutti oltre le spese necessarie. Questa buona invenzione cosí degenerata si usò nelli tempi corrotti per palliare la pluralitá al possessore d’un beneficio, commendandone un altro o piú; cosí servando le parole della legge, di non darne ad una persona salvo che uno, ma fraudando il senso, poiché il commendatario a vita in esistenza e realtá non è differente dal titolarlo. Erano commesse gravi esorbitanze nel numero de’ benefici commendati, tanto che in questo secolo, dopo nati li moti luterani, e mentre tutto il mondo dimandava riforma, non ebbe rispetto né vergogna papa Clemente VII, nel 1534, di commendare ad Ippolito cardinale de’ Medici, suo nepote, tutti li benefici di tutto il mondo, secolari e regolari, dignitá e personati, semplici e curati vacanti, per sei mesi dal dí che ne avesse presa la possessione, con facoltá di disponer e convertir in suo uso tutti li frutti: la qual esorbitanza sí come fu il colmo, cosí nelli tempi inanzi non ardiva la corte valersi di questo, dando in commenda ad uno numero molto grande.
Però fu inventato di valersi, per palliar la pluralitá, d’un altro uso antico, trovato per buon fine, che è l’unione. Questa era usata prima, quando una chiesa era destrutta o vero le entrate occupate, che si transferiva quel poco rimanente al vicino, insieme con il carico, facendo tutto un solo beneficio. L’industria del cortegiano trovò che anco fuor di questi rispetti s’unissero piú benefici ad uno, sí che con collazione di quello la pluralitá si copriva affatto, quantonque a favore di qualche cardinale o gran personaggio fossero uniti insieme trenta e quaranta benefici posti in diversi luochi della cristianitá. Nasceva però un inconveniente, che si diminuiva il numero de’ benefici, e la grazia fatta ad uno era poi fatta a’ molti che succedevano, senza che la meritassero e impetrassero, con gran danno della corte e della cancelleria; e in questo fu rimediato con sottile e argutissima invenzione, di unire quanti benefici al papa piaceva in una massa, durante solamente la vita di quello a cui era conferita; per la morte del quale l’unione s’intendesse ipso facto dissoluta, e li benefici ritornati nel loro stato primiero. Con questa maniera si venne all’apice delle belle trovate, potendosi cosí conferir un beneficio in apparenza, che in esistenza ne tirava molti, e confessarsi come quello, che disse aver rubato una briglia da cavallo, tacendo che fosse con quella imbrigliato l’animale.
Per rimediare alla pluralitá era necessario levar l’uso di questi tre pretesti, il che era molto ben conosciuto dalli prelati prudenti: onde alla prima proposta fu uniforme il parere di tutti, che fosse vietato, e nessun, di qualonque condizione si voglia, potesse ottener numero maggiore che di tre benefici. Alcuni anco aggionsero, quando doi di quelli non ascendono alla somma di quattrocento ducati d’oro d’entrata, volendo che qualonque persona, quantonque sublime e graduata, fosse soggetta alla regola di non poter aver piú che uno, quando ascende a quella somma, o di due, se quelli vi giongono; in fine non piú di tre, o arrivino o non arrivino: sopra che vi fu assai a disputare. Ma molto piú quando Alvise Lippomano, vescovo di Verona, aggionse che questo decreto fosse esteso a quelli che di presente allora possedevano numero maggiore, li quali, non eccettuato alcuno di qual si voglia grado ed eminenzia, fossero constretti, ritenendone tre, rinonciar li altri, essendo in Italia fra sei mesi, e fuori d’Italia fra nove: il che non facendo, fossero senz’altra dechiarazione privati, e questo non ostante che li benefici fossero uniti, o vero commendati, o con qualonque altro titolo possessi. Il vescovo di Feltre aderí all’istessa opinione, moderandola però con distinguere le dispense, commende e unioni, altre fatte per utilitá delle chiese e altre per favore del beneficiato; volendo che le prime di quanti si voglia benefici dovessero restar valide, ma le fatte per privata utilitá de’ beneficiati fossero regolate. Non admesse questa distinzione il vescovo di Lanciano, con dire che, volendo fare legge durabile, convien non darli eccezioni in corpo, attesoché la malizia umana sempre è pronta a trovare finti pretesti di mettersi nel caso dell’eccezione e liberarsi dalla regola. Il vescovo d’Albenga con longa orazione mostrò che le buone leggi danno forma alli futuri negozi solamente, e non risguardando li passati; e quelli che, uscendo delli ragionevoli termini, vogliono emendare anco il preterito, eccitano sempre tumulti, e in luoco di riformar disformano maggiormente: esser una gran cosa voler privar del suo quelli che l’hanno posseduto per molti anni, e credere di persuaderli a contentarsene. Soggionse che, facendosi tal decreto, prevedeva che non sarebbe ricevuto; e se pur lo fosse, da quello ne nascerebbono resignazioni palliate e simoniache e altri mali, peggiori che il ritener piú benefici. Quanto anco all’avvenire, parerli la provvisione superflua, perché non ricevendo alcuno piú benefici, se non con dispensa del papa, basta assai che egli si risolva di non concederla.
In quella congregazione, tra le molte esclamazioni tragiche che da diversi furono fatte, Bernardo Diaz vescovo di Calaorra disse che la chiesa di Vicenza, essendo trascorsa in molti disordini, come era notissimo a tutti, ricercherebbe un apostolo per vescovo; tassando il Cardinal Ridolfi, che oltre tanti altri benefici godeva quel vescovato senza averne alcun governo, senza l’ordine episcopale, senza vederlo mai, non curando né sapendo se non le rendite dell’affitto, e motteggiando ciascuno la grande inconvenienza che era, che nobilissime chiese non vedessero mai il suo vescovo, per esser occupato o in altri vescovati o in dignitá piú fruttuose. Molti dicevano che il solo pontefice potrebbe a questo provvedere, e alcuni cominciavano ad entrare nella opinione di Albenga, che il pontefice facesse quella riforma da sé: cosa che alli legati piaceva, cosí per dignitá del papa, come per liberarsi da gran travaglio di questa materia, che dalle varie opinioni e interessi giudicavano di difficile digestione; sperando anco che, quando s’avesse fatto il passo di lasciare questa riforma al papa, facilmente si ottenesse di lasciarli anco il capo della residenza, piú duro ancora a smaltire per esser populare, e tirarsi appresso la recuperazione dell’autoritá e giurisdizione episcopale.
Entrati adonque li legati in speranza che questo si potesse ottenere, massime se si fosse proposto come cosa fatta e non come da fare, diedero immediate conto al pontefice, a cui la nova riusci molto grata, perché ormai tutta la corte ed egli medesimo stava in pensiero dove avessero a terminare li tentativi e disegni dei prelati. E parendoli di non differir a batter il ferro mentre era caldo, fece il passo piú longo della estesa significatagli dalli legati, e spedí una bolla, per la quale avocava a sé tutta la materia della riforma. Ma, mentre in Trento s’aspettava la risposta da Roma, non fu però intermessa l’incominciata trattazione. Si fece una minuta di decreto, che nessun potesse aver piú che un vescovato; e chi piú ne aveva, ne ritenesse un solo; che all’avvenire chi ottenirá piú benefici inferiori incompatibili, sia privato senz’altra dechiarazione; e chi giá ne possedè piú d’uno, mostri le sue dispense all’ordinario, che procedi secondo la decretale d’Innocenzo IV, Ordinarii. Nel dir li voti sopra questi capi molti fecero instanza che si aggiongesse che all’avvenire dispense non fossero concesse. E a pochi piacque il mostrar le giá concedute, e procedere secondo il decreto d’Innocenzo, dicendo che era un farle approvar tutte e far il mal maggiore, attese le condizioni poste da Innocenzo, dove dice che, trovate le dispense buone, siano admesse, e se vi sará dubbio, s’abbia ricorso a Roma; non potendosi dubitare che ogni negozio almeno non si risolvesse in dubbio, il quale a Roma avesse dechiarazione conforme alla concessione. Che mentre passavano cosí, le persone stavano con timor della provvisione, quando fossero esaminate; e approbate (ché tutte sarebbono senza dubbio), l’abuso sarebbe confermato. Molti erano di parere che si vietassero a fatto le dispense; repugnando altri, con la ragione che la dispensa è stata sempre nella Chiesa ed è necessaria: il tutto sta in ben usarla.
Marco Vigerio, vescovo di Sinigaglia, uscí con una opinione che, se fosse stata ricevuta e creduta, averebbe facilmente riformato tutto l’ordine clericale. Diceva egli potersi ad ogni inconveniente rimediare dalla sinodo con fare una dechiarazione, che per la dispensa sia necessaria una legittima causa; e chi senza quella la concede, pecca, e non può esser assoluto se non revocandola; e chi l’ottiene, non è sicuro in conscienzia, se ben ha la dispensa, e sempre sta in peccato, sin che non depone li benefici cosí ottenuti. Ebbe l’opinione contradittori, perché si levarono alcuni con dire che chi concede licenza di pluritá senza causa legittima, pecca, ma però la dispensa vale; e chi l’ottiene è sicuro in conscienzia, se ben conscio dell’illegittimitá della causa. E piú giorni si contese, dicendo questi che era un levar tutta l’autoritá al papa, e quelli che l’autoritá pontificia non s’estendeva a far che il male non fosse male. Da questo s’entrò in un altro dubbio, se la pluralitá de’ benefici fosse vietata per legge divina o vero umana. E da quei della residenza de iure divino era detto che per divina, e però il papa non poteva dispensare; li altri dicevano che per legge canonica solamente. E con difficoltá fu la contradizione sopita dalli legati, essendo da loro tenuta per pericolosa, cosí per rimetter in campo la residenza, come perché toccava l’autoritá del papa, se ben non era nominato; e maggiormente perché quella sottile discussione del valor delle dispense le metteva tutte in compromesso. Essendo molta confusione, Diego di Alaba, vescovo di Astorga, disse che, non potendo convenire sopra le dispense, proibissero le commende e le unioni, quali sono li pretesti per palliare l’abuso; e contra l’uno e l’altro parlò assai. Disse le unioni e le commende ad vitam esser piene d’assurditá, perché apertamente si confessava con quelle di non aver risguardo al beneficio della Chiesa, ma della persona; che erano di gravissimo scandalo al mondo, inventate giá poco tempo per saziare l’avarizia e ambizione; che era una grande indegnitá il mantenere un abuso cosí pernicioso e tanto notorio. Però li vescovi italiani, che in gran parte erano interessati in uno di questi, non sentivano volontieri proposizioni cosí assolute, lodando che si facesse qualche provvisione, ma non tale che le togliesse via a fatto.
In principio di febbraro arrivò da Roma la risposta e la bolla pontificia, che fu dalli legati stimata troppo ampia: pur tuttavia, per tentare di valersene, proposero di novo la materia, facendo replicare dalli suoi la medesima sentenzia, che, attese le difficoltá e diverse opinioni, era bene liberarsi e rimetter il tutto al pontefice. Li imperiali, anco quelli medesimi che per il passato non si erano mostrati alieni, ripigliarono gagliardamente, dicendo che non sarebbe stato onor del concilio. E a questo parere s’accostò la maggior parte, ritornando sulle medesime cose dette, anzi confondendo le cose sempre piú; sí che viddero li legati non esser occasione di valersi della bolla mandata, e rescrissero non potersi sperare che fosse rimessa tutta la riforma a Sua Santitá, ma ben avevano per fattibile dividerla, sí che il pontefice facesse quella parte che è piú propria a lui, come sarebbe la moderazione delle dispense e delli privilegi, aggiongendovi la reformazione delli cardinali; il che quando Sua Santitá si risolvesse di fare, sarebbe ben valersi della prevenzione, pubblicando in Roma una bolla sotto nome di reformazione della corte. Perché nessuno potrebbe dire che il papa non potesse reformare da sé la corte sua e quello che tocca a lui; la qual bolla non sarebbe necessario pubblicar in concilio; e alla sinodo si potrebbe, avendo da trattar il rimanente che alla corte non tocca, dare ogni sodisfazione; avvertendo però la Santitá sua che il concilio non si quieterá mai per sola provvisione all’avvenire, ma ricercherá sempre che si provveda alle concessioni scandalose anco presenti.
Finita quella congregazione, li prelati spagnoli con altri che li seguivano, capo di tutti fattosi il Cardinal Paceco, ridotti al numero di venti e ragionato insieme, conclusero che nella maniera introdotta nelle congregazioni non si poteva venir mai a risoluzione che valesse, perché quel di buono che era detto, era dissimulato da chi reggeva le azioni, o vero con le contenzioni oscurato: però esser necessario mutar modo, e dar in scritto le dimande, che cosí si venirá a conclusione. E fecero una censura sopra i capi proposti, e la posero in scritto, presentandola alli legati nella congregazione che si tenne il 3 febbraro.
La censura conteneva undeci articoli.
I. Che tra le qualitá de’ vescovi e parrochi siano poste tutte le condizioni statuite nel concilio lateranense ultimo, parendo che nel modo tenuto si apra troppo la strada alle dispensazioni, le quali al tempo d’oggi, per le eresie che causano e per li scandali che danno al mondo, è necessario levar a fatto, facendo una piú stretta reformazione.
II. Che si specifichi apertamente che i cardinali siano tenuti resedere nei loro vescovati almeno sei mesi dell’anno, come agli altri vescovi è comandato nella sessione passata.
III. Che inanzi ogni altra cosa si dechiari la residenza de’ prelati esser de iure divino.
IV. Che si dechiarasse la pluralitá delle chiese cattedrali esser abuso grandissimo, e si ammonisse ciascuno, specificando etiam i cardinali, a restar con una sola e lasciar le altre infra certo termine breve, e prima che finisca il concilio.
V. Che si togliesse la pluralitá delle chiese minori con proibirla non solo per l’avvenire, ma ancora per il passato, revocando tutte le dispense concesse, senza eccezione de cardinali o altri, se non per giuste e ragionevoli cause da esser prodotte e provate inanzi l’ordinario.
VI. Che le unioni ad vitam, eziandio le giá fatte, si revocassero tutte, come indottive della pluralitá.
VII. Che ognuno che ha beneficio curato e altri benefici che ricercano residenza, non risedendo, incorra nella privazione, e nessuna dispensazione abbia da suffragare, se non in casi dalla legge permessi.
VIII. Che qualonque ha beneficio curato potesse esser esaminato dal vescovo; e trovato illitterato, vizioso o per altra causa inabile, fosse privato, e il beneficio dato ad un degno per rigoroso esame, e non a volontá degli ordinari.
IX. Che nell’avvenire i benefici curati non si dassero, se non con esamine e inquisizione precedente.
X. Che nessun si promovesse a chiesa cattedrale senza processo, il qual si facesse in partibus, almeno sopra li natali, vita e costumi.
XI. Che nessun vescovo potesse ordinare nella diocesi dell’altro senza licenza dell’ordinario, e persone di quella diocesi solamente.
Li legati si turbarono, non tanto vedendo posti a campo molti articoli, e tutti con mira di ristringere l’autoritá pontificia e aggrandire l’episcopale, quanto per l’importanza del principio di dar in scritto le petizioni e unirsi molti insieme in una dimanda; e senza mostrar qual fosse il pensiero loro, solo allegando l’importanza della proposta, presero tempo a pensarvi sopra, dicendo che tra tanto non si starebbe in ozio, essendo da stabilire altri capi di riforma; e diedero minuto conto al pontefice di tutte le cose passate, aggiongendo che li prelati ogni giorno pigliavano libertá maggiore, che non si astenevano di parlare dei cardinali senza rispetto e dir palesamente che è necessario regolarli; e della Santitá sua ancora con poca riverenza parlavano, che non dá se non parole, e che usa il concilio per trattener il mondo in speranze, e non per far vera riforma. Aggionsero che per l’avvenire sarebbe difficile tenerli in regola, che facevano spesse adunanze e congregazioni tra loro. Misero in considerazione che sarebbe bene far qualche riforma in Roma con effetto, e pubblicarla inanzi la sessione. Mandarono anco le censure delli spagnoli, ponderando quanto importasse il tentativo loro, e dove all’avvenire potesse arrivare, non essendo verisimile che tanto ardissero senza l’appoggio e fomento, e forse anco incitamento di qualche gran principe; facendo instanza di ricever comandamento di quello che dovevano fare, e dicendo che sarebbe parer loro di persistere e non cedere in parte alcuna, cosí per l’importanza delle cose, come per non lasciar aprire questo passo, che possino li prelati per sedizione e forza ottener quello che non li è concesso spontaneamente, ché sarebbe un dependere dalla mercé loro e incorrer pericolo di qualche sinistro accidente: che per quanto doverá passar nelle deputazioni non erano per lasciarsi superare. Ma in fine dopo le disputazioni, se li contrari non vorranno cedere, sará forza venire al piú e manco voti, li quali nel concludere non si ponderano, ma si numerano; però, non convenendo mettersi ad alcun rischio, ma ben certificarsi di restar superiori nel giorno della sessione, sarebbe necessario comandar strettamente a quelli che sono andati a Venezia sotto pretesto di fare il principio di quaresima nelle loro chiese, ma con intenzione forse di non tornar piú, che tornassero subito e senza replica; perché nella sessione seguente stará quasi tutta l’importanza della riforma, massime in quella parte che è tra il pontefice e li vescovi, e secondo che succederá questa volta alli ammutinati, cosí o piglieranno animo di opporsi nelle altre occasioni, o si renderanno quieti e ubidienti.
Ispedito l’avviso a Roma, nelle seguenti congregazioni proposero li legati di reformar diversi abusi. Il primo fu di quelli che, ricevuto un beneficio e titolo, non pigliano l’ordine sacro o la consecrazione rispondente a quello. Tutti detestarono l’abuso, laudarono che si rimediasse. Ma il cardinale Paceco disse che ogni rimedio sarebbe deluso, se non si levavano le commende e unioni, essendo chiaro che una cattedrale può esser commendata anco ad un diacono; e chi vorrá una parrocchiale senza ordinarsi in sacris, la fará unir ad un beneficio semplice che non ricerca ordine, e cosí la tenirá in consequenza di quello, senza esser consecrato. Le altre riforme furono sopra a diverse esenzioni dalle visite episcopali, dalli esamini loro, dalla cognizione delle cause civili, e dalla revisione del governo de ospitali, nel che credevano li legati acquistar la grazia dei vescovi allargando la loro autoritá; ma, come avviene a chi pretende ragione nel tutto, che resta offeso per la restituzione della metá, pareva (alli spagnoli massime) che li fosse fatto torto maggiore con rimediare ad alcune. Ma crescendo il numero di italiani che alli legati aderivano, li spagnoli si restrinsero a parlar piú riservatamente, tanto piú aspettando risposta da Roma sopra le proposizioni loro, essendosi scoperto che lá erano state remesse.
Il pontefice, ricevuto l’avviso, immediate scrisse a Venezia lettere efficacissime, ma insieme amorevolissime, al noncio suo per far ritornar li prelati, quali erano ancora quasi tutti in quella cittá; e dal noncio l’ufficio fu fatto con tal modo, che tutti ebbero per favore il far il viaggio, poiché si trattava tanto servizio del pontefice. Messe in consultazione con li deputati la censura de’ spagnoli, e il rimanente, che piú importava, ponendolo insieme con le altre cose prima avvisategli, riserbò alla deliberazione propria.
La congregazione delli deputati, ripensato lo stato delle cose, considerò che il partito proposto dalli legati era piú onorevole e, riuscendo, il piú utile; ma se non fosse riuscito, era il piú pernicioso: e in cose di tanto momento non esser prudenza correre sí gran rischi; esser ugualmente pericoloso negar tutto, come tutto cedere; concludendo che, se li legati non erano piú che certi di superare, potevano concedere o parte o tutte le infrascritte modificazioni, secondo che il negozio stesso sul fatto consultasse: le quali erano digeste in forma di risposta ad articolo per articolo della censura spagnola. Al primo, d’innovare il concilio lateranense nelli due capi, par che si possa satisfare alli prelati, purché nel resto li canoni che si faranno siano ragionevoli. Al secondo, d’obbligare i cardinali alla residenzia, per quelli che stanno in Roma e che servono actu la Chiesa universale, la dimanda non è conveniente; e agli altri Sua Santitá provvederá, come è detto nella lettera. Al terzo, di statuire che la residenzia sia de iure divino, prima, il decreto forse non sarebbe vero, applicato alle chiese particolari; dopo, quanto all’effetto, non può servire se non a maggior confusione, repugnando massime che il decreto si faccia, e insieme si permetta, almeno tacitamente, il contrario per la metá dell’anno. Al quarto, di dechiarare abuso la pluralitá delle chiese, si può dire il medesimo che al terzo: e quanto alii cardinali, che Sua Santitá provvederá per se stessa, come è detto di sopra. Al quinto, della pluralitá delle chiese minori, la provvisione proposta dalli legati pare che doverebbe esser bastante; e nondimeno quando circa il passato sia giudicato bene farla piú severamente, Sua Santitá se ne rimette, avvertendo che il troppo rigore in questa parte può causare effetto contrario, per la resistenza che si ha da presumere che sará fatta da quelli che possedono; e considerando insieme che il lasciar semplicemente il giudicio nelle dispensazioni agli ordinari può esser mal usato, e senza partorire altro effetto che accrescere loro autoritá. Al sesto, di revocare le unioni a vita, non ostante che la Santitá sua abbia pensiero di farci conveniente provvisione, nondimeno, quando si desideri levarle, etiam in tutto, si può concederlo, purché si dia spacio onesto a chi possede li benefici di poter dispor di quelli. Al settimo, che la non residenzia de’ benefici curati porti seco precisamente la privazione, e che nessuno si dispensi se non in casi dalla legge permessi, è troppo rigore, e tale che, quando bene si determinasse, mal si potrebbe osservare. All’ottavo, che chi ha beneficio curato e si trova illitterato o vizioso possa esser privato dall’ordinario, intendendosi di tal inabilitade che de iure lo meriti, questa pena si può concedere; altrimenti non è dimanda onesta, perché non sarebbe altro che lasciar il tutto all’arbitrio degli ordinari. Al nono, che li benefici curati non si diano se non per diligente esamine precedente, essendo necessario lasciar il modo e qualitá dell’esame alla conscienza di chi ha da conferire i benefici, pare che l’aggiongere sopra questo altro decreto sia o superfluo o inutile. Al decimo, di far il processo in partibus di quelli che si promovono alle chiese cattedrali, non si vede né il modo né il frutto di questa diligenza, essendo cosí facile trovar chi deponga il falso in partibus come in Roma. Dove quando si possa aver, come quasi si può sempre, tanta notizia che basti, è superfluo cercar altro. All’undecimo, che nessuno si ordini se non dal suo vescovo, pare che il rimedio della bolla possi bastare, e tanto piú, quanto che per essa si provvede per piú d’un modo alli inconvenienti che si pretendono circa questo capo.
Spedí il pontefice immediate la risposta a Trento, con rimettere alla prudenza delli legati che, ben consegliati con li amorevoli, risolvessero, come meglio avessero giudicato sul fatto, di conceder o parte o tutte le cose richieste, dentro però delli termini consultati dalli deputati in Roma; rimettendo parimente a loro il negare ogni cosa, se si fossero veduti in stato di poterlo fare. Li avvisò dell’ufficio fatto con quelli che erano in Venezia, soggiongendo che tenessero la sessione al debito tempo, tralasciando a fatto li capi di dottrina dei sacramenti, e pubblicando li soli anatematismi, in quali tutti sono convenuti, poiché quella dottrina non si può esplicare senza qualche pericolo; che tralasciassero a fatto il decreto degli abusi dei sacramenti del battesmo e confermazione, non essendo possibile toccar quella materia senza offender tutto l’ordine de’ poveri preti e frati e dar troppo gran presa agli eretici, confessando d’aver approvato per li passati tempi notabili assurditá. Aggionse in fine che del rimanente operassero sí che la sessione riuscisse piú quieta che si potesse, ma con dignitá della sede apostolica.
Poi ruminando il papa gli avvisi avuti da Trento e dal noncio suo di Germania fra se stesso con li suoi intimi, restò pieno di sospetto che il concilio non dovesse partorir qualche gran mostruositá a pregiudicio di lui e dell’autoritá pontificia. Considerava le fazioni tra’ teologi, massime dominicani e franciscani, antichi emuli e contrari di dottrina, che in concilio avevano preso animo di trapassar il segno delle contenzioni, dalli prudenti con difficoltá composte; fra quali essendo delle differenze non minori di quelle che si hanno con luterani, ed essi assai arditi nel tassarsi l’un l’altro, li quali se non si stará sempre nell’accordarli, esservi pericolo che non succedesse qualche grave inconveniente. Faceva gran riflesso sopra la disputa della residenza, se è de iure divino, e sopra l’audacia di fra’ Bartolomeo Carranza, il qual, fomentato da molti, era passato a chiamare l’opinione contraria dottrina diabolica. Vedeva quanto facilmente potesse nascer un altro male simile a quello di Lutero, e che se si fosse fatto della residenza un articolo di fede, il papato era ridotto a niente. Considerava che tutte le riforme miravano a restringere l’autoritá del papa e ampliare quella de’ vescovi; avvertí quanto poco fosse stata l’autoritá sua stimata, avendo il concilio dato speranza di rimetter a lui la riforma (di che anco aveva formato la bolla, avocandola tutta a sé), e poi senza rispetto di lui s’aveva trattata piú acremente. Ebbe gran sospetto dello spirito e animositá de’ spagnoli; considerava le qualitá della nazione, avveduta e che non opera a caso, mostra maggior riverenza che non porta, sta unita in se stessa, e non fa un passo senza aver la mira a cento più inanzi; li parve gran cosa l’aver preso a ridursi insieme e l’aver formato una censura per comune; li pareva verisimile che ciò fosse ardito per fomento dell’imperatore, essendoci un suo ambasciatore che trattava quotidianamente con loro. Aveva anco per altro suspetto Cesare, considerando la prosperitá della fortuna che in quel tempo correva, la qual suol indur gli uomini a non saper metter fine alli disegni: faceva reflesso sopra il permettere la religione per convinienza, attribuendo che fosse a fine di acquistar la grazia de’ luterani. Considerava le querimonie usate non solo dall’imperatore, ma anco dalli ministri al partir delle genti italiane; l’aversi doluto d’esser abbandonato nel bisogno: dubitava di lui, sapendo che attribuiva al duca di Piacenza suo figlio la sedizione di Genoa; sopra tutto ponderava le parole dette al noncio, di non aver maggior nimico del papa. Temeva che, se li fosse venuto fatto di stabilir in Germania un’autoritá assoluta, fosse poi entrato in pensiero di far l’istesso in Italia, adoperando il concilio per opprimere il pontificato. Vedeva che restava come arbitro, attesa l’incurabile indisposizione del re di Francia e la prossima morte che si prevedeva; del dolfino non sapeva quanto potersi promettere, come di giovane non ancora esperto. Teneva per fermo che li prelati, quali sino allora aderivano alla corte romana, quando l’imperator avesse fatto la scoperta, s’averebbono dechiarato per lui, o per timore della maggior potenza, o vero per emulazione che tutti hanno alla grandezza pontificia, la qual scoprirebbono, quando vedessero aperta strada sicura di moderarla.
Questi rispetti lo fecero risolvere a sicurarsi del concilio in qualche maniera: il finirlo non pareva cosa fattibile, attesa la moltiplicitá delle cose che restavano da trattare; la sospensione ricercar qualche gran causa, e nondimeno esser una provvisione leggiera, perché sarebbe immediate ricercato di levarla. La translazione in luoco dove egli avesse autoritá assoluta pareva il miglior conseglio. E poiché questo si aveva a fare, farlo in maniera che rimediasse a tutti li pericoli; che non poteva avvenire se non celebrandosi nelle terre sue. A queste pensando, non giudicò bene trattar di Roma, per non far tanto parlare alla Germania. Bologna li parve ottima, come la piú vicina a chi viene di lá dai monti, fertile e capace. Al modo pensando, risolvette di asconder in questo la persona sua, e operare che fosse fatto dalli legati come da loro, per l’autoritá che gli aveva data per la bolla data il 22 febbraro e mandatagli nell’agosto 1545. Che cosí facendo, se sopra la translazione fosse nata qualche opposizione, sarebbe addossata alli legati, ed egli come non interessato averebbe piú facilitá a mantenerla; e quando per qualche accidente occorresse mutar pensiero, lo potrebbe far con intiera sua dignitá. Adonque risoluto di tanto, spedí un privato gentiluomo familiare del Cardinal del Monte con lettere di credenza, a fare ad ambi li legati quest’ambasciata, ordinandoli che non giongesse in quella cittá inanzi il tempo della sessione, e li commettesse di trasferire il concilio a Bologna, facendo nascere qualche apparente causa, o vero valendosi d’alcuna che fosse in essere; ma venendo all’esecuzione tanto presto che, dopo data la prima mossa all’impresa, si venisse al fine prima che d’altrove potesse esser frapposto alcun impedimento.