Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo X
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CAPITOLO X
(febbraio-marzo 1547).
[L’imperatore depone l’arcivescovo elettore di Colonia. — Morte di Enrico VIII.— Il decreto di riforma viene discusso in congregazione.— Obbiezioni alla clausola: «salva in tutto l’autoritá apostolica».— Dispute sulle qualitá dei vescovi e curati, sulla residenza, sull’includere nel decreto i cardinali. — Sessione settima: canoni dei sacramenti, del battesimo e della confermazione. — Decreto di riforma degli abusi. — Ricevute segrete istruzioni da Roma per la traslazione, i legati, approfittando di un’epidemia scoppiata a Trento, propongono al concilio che si deliberi il trasferimento. — Vivace opposizione dei prelati imperiali, disposti soltanto ad una sospensione. — Sessione ottava: si vota la traslazione a Bologna. — I dissidenti rimangono a Trento. — Morte di Francesco I.]
Ma in Germania essendo accomodate con Cesare gran parte delle cittá attorno il Reno, e avendo anco l’elettore palatino fatti desistere li ministri, da lui introdotti, dal passar piú oltre, vedendo l’imperator occasione di poter escludere l’arcivescovo di Colonia, mandò doi commissari, facendo ridur tutti gli ordini acciocché l’abbandonassero e ricevessero per vescovo e principe Adolfo coadiutore, e li rendessero obedienzia e giurassero fedeltá. Gli ecclesiastici furono pronti a farlo, per le cause altre volte dette. La nobiltá e li ambasciatori delle cittá ricusarono, con dire di non poter abbandonare il principe a cui avevano giurato. Il duca di Cleve, avendo li suoi stati vicini, si interpose; mandò all’arcivescovo, e fece che vi andassero anco i primi della nobiltá, per pregarlo di trovar modo come tutto lo stato non fosse dissoluto, con danno estremo delli populi vicini. L’arcivescovo mosso a compassione, per non metter una guerra in quel dominio, e acciò il populo innocente non patisse, generosamente renonciò lo stato e assolvè li sudditi dal giuramento; e cosí fu ricevuto Adolfo per suo successore, il quale egli aveva sempre amato da fratello, e participatoli tutte le cose che faceva per riforma della Chiesa; e ora si vedeva di altro parere, o perché fosse mutato, o per altra causa.
In Trento nel mezzo di febbraro andò avviso della morte del re d’Inghilterra, successa nel mese inanzi, di che li padri resero grazie a Dio, e andarono quasi tutti a visitar il vescovo di Vorcestre, congratulandosi con esso lui che il regno ed egli medesimo fossero (dicevano) liberati dalla tirannide d’un acerbo persecutore, attribuendo anco a miracolo che fosse passato di questa vita lasciando un figlio in etá di nove anni, acciò non potesse imitare le vestigia paterne. E veramente non le imitò in tutto, perché Enrico, se ben aveva levato a fatto l’autoritá del pontefice sopra quel regno e imposto pena capitale a chi gli aderisse, nondimeno ritenne sempre costantemente nel resto la dottrina della chiesa romana. Ma Edoardo (che cosí era il nome del figlio), governato dal duca di Somerset suo zio materno, inclinato alla dottrina de’ protestanti, mutò la religione, come a suo luoco si dirá.
Gionte le lettere del pontefice, il Cardinal Santa Croce era di parere che si ammollisse l’animo delli prelati congionti, concedendo alcuna delle petizioni che da Roma erano permesse, ché facilmente con quella determinazione si sarebbono acquietati. In contrario il cardinale del Monte diceva che il condescendere all’inferiore (e alla moltitudine massime) non era altro che dar pretensione d’aver sodisfazione maggiore; che voleva prima tentar l’animo degli amorevoli, e quando s’avesse trovato fortificato di numero maggiore, esser disposto a non ritirarsi pur un passo; quando avesse trovato altramente, averebbe usato la prudenza. Dopo molti discorsi, come avviene tra colleghi, Santa Croce cedette al Monte, che camminava con affetto maggiore. Ebbero avviso che li prelati assenti si sarebbono ritrovati in Trento inanzi il fine di febbraro, e, tentati gli animi di diversi, si ritrovarono aderenti alle cose del pontefice: quali confermati con le speranze, e tiratone anco altri con la medesima esca che il pontefice averebbe riconosciuti i meriti di ciascuno, fecero formar il decreto con quindici capi, e quello proposero in congregazione.
Sopra che furono maggiori difficoltá di prima: nel proemio, per una eccezione qual diceva: «salva sempre in tutte le cose l’autoritá apostolica». Da ogni stolido sarebbe stato conosciuto dove mirava, ché non inferiva se non una pertinace ostinazione negli abusi, mentre si trattava rimediarli, conservando le cause. Però nessun ardí opporsegli, se non il vescovo di Badajoz, il qual disse che aveva bisogno di dechiarazione, perché il concilio non doveva né poteva intaccar l’autoritá di alcuno, non che della sede apostolica, riconosciuta per capo da tutti li veri cattolici; ma che le parole poste in quel luoco pareva significassero che in Roma si dovesse procedere in quelle materie al modo di prima, e che la regolazione non avesse rigore sopra le despense e altri modi, con quali è stata sempre enervata l’autoritá delli canoni vecchi. In difesa della eccettiva era detto che le leggi delli concili non sono come la naturale, dove il rigore e l’equitá sono una medesima cosa; che elle sono soggette al defetto comune di tutte le leggi, che per la universalitá conviene siano dall’equitá regolate nei casi non preveduti, e dove l’esequirle sarebbe ingiusto. Ma non essendovi sempre concilio, al quale si possi per questo ricorrere, né meno, quando ben vi è, avendo modo di attendere a questo, esser necessaria l’autoritá pontificia. Ma si replicava che, avendo tutte le leggi il defetto dell’universalitá, nondimeno tutte si promulgano senza metterci dentro eccezione; che cosí si debbe anco al presente fare, perché il porvela non è altro se non un dire che per l’ordinario, e non nelli casi rarissimi e impreveduti, il papa possi dispensare in contrario.
Questo parere non fu approvato in parole da tutti quei da chi fu tenuto in conscienzia, onde il legato Monte fortificatosi diceva che questa era sottilitá per non deferire alla sede apostolica quanto erano tenuti, e fece tacer tutti. Dimandò il vescovo di Badajoz che in quel proemio si dovesse far menzione che l’articolo della residenza non era tralasciato, ma differito. A che risposero li legati che ciò era un diffidare delle promesse loro, anzi del pontefice, e un obbligarsi vanamente a cosa che sempre è in potestá: con tutto ciò, per dare sodisfazione in cosí intenso desiderio, si sarebbe aggiorno nel proemio che tutto si decretava proseguendo l’incominciato negozio della residenza, con che si mostrerebbe che non fu finito nell’altra sessione, e ne rimane anco parte da trattare.
Sopra li capi delle qualitá de’ vescovi e altri curati, disse l’arcivescovo Torre che quelli non solo non davano rimedio alle corruttele introdotte, anzi snervavano li remedi vecchi, perché con termini cosí universali di etá, costumi, scienzia, abilitá e valore si poteva canonizzar ognuno per abile; e l’allegar decreti di Alessandro esser un annullar tutti gli altri canoni che prescrivono altre condizioni, poiché sempre nominato uno e studiosamente taciuti gli altri, pare che se gli abbia derogato. Che sarebbe necessario dir una volta chiaro qual è questa gravitá di costumi, questa scienzia di lettere; il che se fosse fatto per l’una e l’altra qualitá, sarebbe escluso per sempre ogni cortegiano. Li costumi ricercati esser molto ben raccontati da san Paulo, e tuttavia a quelli non s’attende. La perizia e dottorato che san Paulo ricerca, esser cognizione della dottrina cristiana e delle littere sacre; e non esser da imitar Onorio III, quale privò un vescovo della Sassonia inferiore per non aver imparato grammatica né letto mai il Donato, perché (dice la glosa) egli non poteva insegnare grammatica al populo; quasi che la materia della predica debbia esser le regole grammaticali e non l’Evangelio.
Aggionse a questo il vescovo di Huesca che non li piaceva il rimettersi o vero allegare decreti o constituzioni, perché o si fa per dar autoritá maggiore a quelle, o per riceverla da loro, o vero per far un aggregato di forza maggiore di quelle con questa sinodo; e a tutti i modi esser cosa poco convenevole, e diminuir l’autoritá di ambedue. Esser ben cosa ragionevole farlo dove la lunghezza d’una constituzione non comportasse che fosse riferita; ma quando non contiene se non l’istesso, non esserci causa di farlo, e dar occasioni di liti inestricabili, disputando se quelle constituzioni siano approvate come la lettera semplicemente suona, o pur con limitazioni e ampliazioni dette dalli dottori, e con le varie intelligenzie, che è un confonder il mondo. Esservi bisogno di decreti che mettano pace, caritá e seria riformazione nella Chiesa, non che diano occasioni di litigi e nuovi inconvenienti. A che poteva servire nei tempi presenti dar agli ordinari le pene del canone Grave nimis, l’esecuzione de quali è commessa alli concili provinciali che sono desusati, se prima non è preso modo come ritornarli in uso? Poi, essendo il numero de’ benefici conferiti dagli ordinari, per diverse riserve, minore d’una decima parte, a che buono provveder a questa minima, e lasciar correre l’abuso nelli nove decimi che la corte conferisce? Similmente, volendo rimediare la pluralitá, l’approvar la constituzione De multa non esser altro che un stabilirla maggiormente, poiché in quella le dispense sono permesse.
Longhissima disputa fu sopra gli articoli, dove li spagnoli instavano che li cardinali fossero specificati; dicendosi per l’altra parte che non conveniva per la grandezza di quell’ordine, primo nella Chiesa, pieno d’uomini di singoiar merito, mostrare cosí apertamente che in quello vi fossero corruttele degne di emendazione, ed essi stessi non emandassero se medesimi; ma bastava bene farl’istesso effetto con parole generali che includessero anco loro, come il comandare ad ogni persona di qual si voglia dignitá, grado e preminenzia. Dicevano in contrario gli altri che li canonisti hanno giá dechiarato sotto nessun termine generale comprendersi li cardinali, se non sono nominatamente espressi; però non restare altra via di provvedere al cattivo esempio che il mondo riceve, se non con riformar loro particolarmente; esserci poco bisogno di riforma nel clero minuto, le corruttele del quale sono leggieri, ed egli necessitato a seguir li maggiori; doversi nel curar un corpo infermo attender alli mali gravi e alle parti principali; le altre (sanate quelle) o da sé guariscono, o con leggier rimedi. All’abuso delle unioni perpetue dicevano che ben pareva provvisto assai a bastanza col rimetter ai vescovi di esaminar le giá fatte, e presumer surrettizie quelle che non si trovassero fondate sopra cause ragionevoli; ma tutto era destrutto con la modificazione seguente, cioè se altramente non sará giudicato dalla sede apostolica, il che era un stabilirle, anzi metter il vescovo in liti e spese. Fu anco di novo richiesto che fossero vietate le unioni a vita e annullate le giá fatte.
Ma il numero maggiore approvò li decreti come furono proposti, parte per propria inclinazione alle cose romane, e parte per esser stati praticati; e alcuni buoni anco, a’ quali era fatta promessa che il papa con una sua bolla averebbe levato e quelli e molti altri disordeni; ma esser dovere che per riputazione di quella santa sede lo facesse egli medesimo, e non paresse che la sinodo l’avesse costretto contra suo volere a ricever leggi. E questi posti insieme ascendevano alli tre quarti di tutto il numero della sinodo.
Instando il tempo della sessione, e reietti gli anatematismi, da qualcuno fu ricercato che si aggiongesse la dottrina, da altri fu richiesto perché non si risolveva il decreto degli abusi. Quanto a questo, furono fermati con dire che non era bene discusso, e che era luoco più opportuno portarli dopo tutti li sacramenti, rimediando insieme alli abusi occorrenti nel ministerio di ciascuno e alli universali in tutti. Per render ragione dell’ommissione della dottrina, il piú concludente argomento fu che cosí s’era fatto nella sessione del peccato originale, e che la dechiarazione per modo di dottrina è necessaria quando senza quella li anatematismi non possono esser intesi; però nel decreto di iustificazione essere stata di necessitá, ma in questo delli sacramenti li anatematismi da sé esser tanto chiari che servono anco per dottrina. Il tempo instante e il consenso del numero maggiore fece che si risolvesse per questa opinione, e fossero costretti tacer quelli che dimandavano la dottrina e riforma delli abusi sopra detti.
Accomodati li decreti, se ben con le difficoltá narrate, e venuto il 3 marzo, e col solito ordine ridotti li prelati in chiesa per celebrar il consesso, fu cantata la messa da Giacomo Coco, arcivescovo di Corfú. Doveva far il sermone Coriolano Martirano, vescovo di San Marco, il qual per li disgusti ricevuti nella congregazione, non parendo che fosse decoro d’intervenirvi e non persistere nella medesma opinione, né essendo sicuro il contradire nel pubblico consesso, elesse di finger indisposizione e rimanersene, onde si restò per quella mattina senza sermone, come se nel numero di sessanta vescovi e trenta frati teologi esercitati nel predicare non vi fosse uno atto a dir quattro parole con premeditazione di quattro ore. E negli atti fu notato che sermone non fu fatto, per esser rauco il vescovo di San Marco a ciò deputato; e cosí si mandò anco in stampa: il che sí come non si debbe attribuire se non ad una maniera dolce del secretario che scrisse, cosí è fermo documento che allora non si pensava dover venir tempo quando si stimasse che tutte le azioni di quell’adunanza fossero pari a quelle degli apostoli, quando erano congregati aspettando la venuta dello Spirito Santo.
Ma finita la messa e le altre ceremonie, li due decreti furono letti. Il primo, appartenente alla fede, conteneva in sustanza che, per complemento della dottrina difinita nella precedente sessione, conveniva trattar dei sacramenti, e, a fine di estirpar le eresie eccitate, la sinodo per ora vuol statuire li seguenti canoni, per aggionger poi li altri al suo tempo.
Erano li canoni o vero anatematismi delli sacramenti in comune tredici:
I. Contra chi dice che li sacramenti della legge nova non siano stati tutti instituiti da Cristo, o vero esser piú o meno di sette, o alcun di loro non esser vera e propriamente sacramento.
II. E che non sono differenti da quelli della vecchia legge, se non nelle cerimonie e riti.
III. E che alcun di loro in nessun rispetto sia piú degno dell’altro.
IV. Che non sono necessari alla salute, e che la grazia di Dio si può acquistare per la sola fede, senza quelli o senza il proposito di riceverli.
V. Che siano ordinati solo per nudrir la fede.
VI. Che non contengono in loro la grazia significata, o non la danno a chi non vi fa repugnanzia, ma siano segni esterni della giustizia e caratteri della professione cristiana, per discernere li fedeli dagl’infedeli.
VII. Che non sempre e non a tutti sia data la grazia per li sacramenti, quanto s’aspetta dalla parte di Dio, purché siano legittimamente ricevuti.
VIII. Che per li sacramenti non è data la grazia in virtú dell’amministrazione di quelli, chiamata opus operatum, ma che basti la sola fede alla divina promessa.
IX. Che nel battesmo, confirmazione e ordine non sia impresso nell’anima un carattere spirituale che non si può scancellare; per il che non si possono ricever, salvo che una volta.
X. Che tutti li cristiani hanno potestá di amministrar la parola e tutti i sacramenti.
XI. Che nel ministrar li sacramenti non sia necessaria nel ministro l’intenzione, almeno di far quello che fa la Chiesa.
XII. Che il ministro in peccato mortale non dia il vero sacramento, se ben osserva tutte le cose necessarie.
XIII. Che li riti approvati dalla Chiesa e soliti possino esser sprezzati o tralasciati da ogni pastor, o vero mutati in altri.
Del battesmo erano anatematismi quattordici:
I. Contra chi dice che il battesmo di Gioanni avesse la stessa virtú con quello di Cristo.
II. Che l’acqua vera e naturale non sia necessaria al battesmo.
III. Che nella chiesa romana, madre e maestra di tutte le chiese, non è la vera dottrina del battesmo.
IV. Che il battesmo, dato dagli eretici nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo con intenzione di far quello che la Chiesa fa, non sia vero.
V. Che il battesmo sia libero e non necessario alla salute.
VI. Che il battezzato non può perder la grazia, se ben pecca, pur che non resti di credere.
VII. Che li battezzati sono debitori di creder solamente, e non di servar la legge di Cristo.
VIII. Che non sono tenuti a servar li precetti della Chiesa.
IX. Che per la memoria del battesmo tutti li voti dopo fatti si conoscono per nulli, come deroganti alla fede e professione battesmale.
X. Che li peccati dopo il battesmo commessi, per la fede e memoria di esso, sono rimessi o fatti veniali.
XI. Che si debbe rinnovar il battesmo a quello che averà negato la fede.
XII. Che nessun debbe esser battezzato, se non nell’etá di Cristo o nel tempo della morte.
XIII. Chi non mette in numero delli fedeli i putti battezzati, o dice che convien rebattezzarli negli anni della discrezione, o che sia meglio tralasciar il battesmo loro.
XIV. Che li battezzati in puerizia, venuti in etá, debbino esser ricercati di ratificar la promessa per nome loro fatta; e non volendo, lasciarli nel loro arbitrio, non costringendoli alla vita cristiana, se non con la proibizione degli altri sacramenti.
Della confirmazione i canoni furono tre:
I. Contra chi dice che è ceremonia oziosa, non sacramento propriamente, o vero che giá era, a fine che li putti dassero conto in pubblico della loro fede.
II. Che il dar virtú al cresma sia far ingiuria allo Spirito Santo.
III. Che ogni semplice sacerdote sia ministro ordinario della confirmazione, e non il solo vescovo.
Fu letto dopo il decreto della riforma, dandogli negli atti titolo: Canone sopra la residenza; e conteneva in sustanza:
I. Che nessuno sia creato vescovo, se non di legittimo matrimonio, di etá matura, scienza di lettere e gravitá di costumi.
II. Che nessun possi ricever o ritener piú vescovati in titolo o commenda, o con qualonque altro nome; e chi al presente ne ha piú, retenutone uno ad elezione, lasci gli altri fra sei mesi, se sono di libera collazione del papa; altramente fra un anno: il che non facendo, s’abbiano per vacanti tutti, eccetto l’ultimo.
III. Che gli altri benefici, e massime curati, siano dati a persone degne che possino esercitar la cura d’anime; altramente il collatore ordinario sia punito.
IV. Che qualonque per l’avvenire riceverá piú benefici incompatibili, per via di unione a vita, commenda perpetua o altramente, o ritenerá li ricevuti contra li canoni, resti privato de tutti.
V. Che agli ordinari siano mostrate le dispense di quelli che hanno piú benefici curati o incompatibili, provvedendo appresso alla cura d’anime e altri obblighi.
VI. Che le unioni perpetue fatte da quaranta anni in qua possino esser riviste dagli ordinari come delegati, e annullate le indebite; e quelle che non sono effettuate, o che per l’avvenire s’averanno da fare, si presumino surrettizie, se non saranno fatte per cause ragionevoli e con citazione degl’interessati, e dalla sede apostolica altro non sará dechiarato.
VII. Che li benefici curati uniti siano visitati ogni anno dalli ordinari, e li siano assegnati vicari perpetui o temporali, con quella porzione de frutti che parerá loro, senza riguardo d’appellazioni o esenzioni.
VIII. Che gli ordinari visitino ogni anno con autoritá apostolica le chiese esenti, provvedendo alla cura d’anime e agli altri debiti servizi, senza rispetto di appellazioni, privilegi e consuetudini prescritte.
IX. Che li vescovi creati siano consecrati nel tempo ordinato dalla legge, e le allongazioni del termine piú di sei mesi non vaglino.
X. Che li capitoli delle chiese, vacante il vescovato, non possino conceder dimissorie agli ordini, se non a chi sará obbligato per causa di beneficio.
XI. Che le licenzie di poter esser promosso da qual si voglia vescovo non vagliano, se non sará espressa la causa legittima per quale non possino esser promossi dal suo; e in quel caso siano ordinati dal vescovo residente nella sua diocesi.
XII. Che le facoltá di non recever li debiti ordini non servino se non per un anno, salvo nei casi dalla legge espressi.
XIII. Che li presentati alli benefici da qual si voglia persone ecclesiastiche non siano instituiti, se non esaminati dagli ordinari, eccetto li nominati dalle universitá o collegi di studi generali.
XIV. Che nelle cause de esenti si osservi certa forma, e dove si tratta di mercede e de miserabili persone, anco li esenti che hanno giudice deputato possino esser convenuti inanzi l’ordinario; ma quelli che non l’hanno, in tutte le sorti di cause.
XV. Che li vescovi abbiano cura sopra li ospitali, per vedere che siano ben governati dagli amministratori, eziandio esenti, servata la forma.
Li prelati che nelle congregazioni s’erano opposti, fecero l’istesso nella sessione, ma con parole piú modeste, ricercando che fossero espressi li gradi delle persone comprese, e che oltre le provvisioni a’ mali futuri s’aggiongessero li rimedi alli presenti, che sono di maggior danno e pericolo. Ma li legati, ascoltate le parole come voce di chi non poteva far piú che esalar l’animo, diedero fine alla sessione, con ordinare la seguente per il 21 aprile.
L’istesso giorno il messo del pontefice, che si era tenuto secreto ancor dalli legati, comparve, ed espose loro la sua credenza; e non si fermò in Trento, ma passò immediate in Ispruch. Il cardinale Santa Croce restò confuso; ma il Monte intrepido disse aver conosciuto il pontefice per principe sempre savio, e allora aver veduto in lui il colmo del giudicio: che era necessario cosí fare, volendo salva l’autoritá della sede apostolica; e però conveniva servire la Santitá sua con fedeltá, secretezza ed accuratezza. Erano opportunamente molti delle famiglie de’ prelati ammalati, o per li disordeni del carnevale, o per l’aria molto umida che per molti giorni prossimi era stata. Sottomesse il Monte alcuni de’ suoi, che dimandassero alli medici se vi era pericolo che quelle infirmitá fossero contagiose. Li medici, che sempre nel prognostico dicono piú mal che possono (perché, succedendo, paiono dotti per averli previsti, e non riuscendo, molto piú, perché abbiano saputo rimediarli o prevenirli) dissero qualche parola ambigua, la qual studiosamente disseminata e dalli leggieri creduta, passò anco alla credulitá delli mediocri e quelli che, desiderando partire, averebbono voluto che fosse stato vero. E opportunamente in quei di dopo la sessione era morto un vescovo che, funerato con esequie di tutto il concilio, fece la cosa molto cospicua; onde s’empí Trento che vi era male contagioso, e la fama andò anco alli luochi circonvicini.
Tra tanto li legati, mostrando di non aver parte nella fama sparsa, il dí dopo la sessione tennero congregazione generale per disponere quello che si dovesse discutere intorno il sacramento dell’eucaristia, e la settimana seguente incominciarono le congregazioni de’ teologi. E poiché la fama fu aumentata, quando parve, il Cardinal Monte ordinò ad Ercole Severolo procurator del concilio che facesse processo sopra la pestifera infirmitá. Furono esaminati li medici, e fra gli altri Geromino Fracastoro, che aveva titolo di medico del concilio, e altre persone. Fu presa relazione che li luochi circonvicini si preparavano per levar il commercio alla cittá. Questo moto fu causa che molti delli prelati domandarono licenza di partire, o per timore, o per desiderio di uscire di lá in ogni modo. Il Monte ad alcuni la diede, acciò potesse metter tra le cause la partita dei padri; altri piú seco congionti confortò ad aspettare; in suo secreto, per non privarsi a fatto di aderenti nel fare la proposizione di transferire il concilio; ma in apparenza, per non mostrare che lo lasciasse dissolvere: e però disse che nelle congregazioni protestassero, acciò si pigliasse ispediente. Si segui il processo sino al di 8, quando venne nova, o vera o finta, che Verona era per levar il commercio, cosa che turbò ognuno, perché sarebbe stato un tenerli tutti pregioni.
Per il che il dí 9 si tenne congregazione generale sopra questo. In quella fu letto il processo, e proposto che rimedio si potesse trovare per non restar lá dentro restretti, col male in casa e privati di soccorsi di vettovaglie e d’altre cose necessarie. Da molti fu protestato di voler partire, e non poter esser tenuti; e molte cose essendo dette, il Monte propose di trasferir il concilio, dicendo aver di ciò giá sino dal principio autoritá apostolica: e fece leggere la bolla del papa diretta alli tre legati Monte, Santa Croce e Polo: dove, narrato d’aver stabilito il concilio in Trento e d’averli mandati per legati e angeli di pace in quello, acciò cosí santa opera, per l’incomoditá del luoco, non fosse impedita, dá autoritá a due di loro, in assenza dell’altro, di trasferirlo in altra cittá piú comoda, piú opportuna e piú sicura: e comandar sotto censure e pene alli prelati di non proceder piú oltre in Trento, ma continuar il concilio nella cittá a quale lo muteranno, e chiamar in quella li prelati e altre persone del concilio di Trento, sotto pena di pergiurio e di altre censure nelle lettere della convocazione, dovendo egli aver rato tutto quello che faranno, non ostante cosa alcuna in contrario. Fu dalli prelati imperiali immediate risposto che il male e li pericoli non erano cosí grandi; che si poteva licenziar li timidi, sinché passasse quell’opinione, e con l’aiuto di Dio presto sarebbe svanita; e quando bene si differisse la sessione, non era cosa importante, poiché l’anno inanzi per li sospetti di guerra similmente molti partirono, e la sessione si differí sei mesi e piú; cosí si facesse anco adesso, se fosse bisogno: e altre tal ragioni furono addotte. Si disputò assai sopra questo. Li imperiali, partiti di congregazione e conferito tra loro, si diedero ad investigar sottilmente quello che non avevano curato di saper piú che tanto, e odorarono che non vi fosse male, ma pretesto.
Il giorno seguente si fece congregazione sopra la stessa materia. Si trovò che undeci prelati erano partiti, e si passò a parlar del loco dove andare. Dentro in Germania tutti abborrivano; nello stato d’alcun principe non si poteva, non avendo prima trattato. Restava il solo stato della Chiesa. Proposero li legati Bologna, che piacque a tutti quelli che sentivano la translazione. Fu in quella congregazione anco contradetto dagl’imperiali, e da alcuni passato a quasi proteste; ma la maggior parte acconsentí. Dubitarono bene alcuni che il papa dovesse sentir la translazione in male, facendosi senza sua saputa; ma diceva il Monte li casi repentini e li pericoli della vita esser esenti da questi rispetti, e che pigliava la carica sopra di sé che il pontefice sentirebbe tutto in bene. Si ebbe anco considerazione all’imperatore e altri principi, e concluso che, facendo menzione di loro nel decreto, si sarebbe sodisfatto alla debita riverenza; e per dar anco qualche sodisfazione a chi non sentiva la translazione, far qualche menzione di tornare. Fu formato il decreto, concepito in forma di partito deliberativo. «Vi piace di dechiarare che consti di questo morbo, per le predette e altre allegate cose, cosí notoriamente, che li prelati senza pericolo della vita non possino fermarsi in questa cittá, né possino esser tenuti contra loro volere? E attesa la partita di molti e protestazioni d’altri, per la partita de’ quali si dissolverebbe il concilio, e altre cause allegate dalli padri, notoriamente vere e legittime, vi piace a dechiarar che per la sicurezza della vita dei prelati e per proseguir il concilio, quello si debbi transferire in Bologna, e si transferisca di presente; e doversi celebrar lá la sessione intimata a’ 21 aprile, e procedere inanzi, sin che parerá al papa e ad esso concilio di ridurlo in questo o in altro luoco, col conseglio di Cesare, del Cristianissimo e delli altri re e principi cristiani?»
Il dí seguente fu fatta sessione. E letto il decreto, trentacinque vescovi e tre generali assentirono; e il cardinale Paceco con altri diciassette vescovi diedero il voto in contrario. Nel numero delli consenzienti non fu alcuno delli sudditi imperiali, se non Michiel Saraceno napolitano, arcivescovo di Matera. Ma nel numero delli diciotto dissenzienti vi fu Claudio della Guische vescovo di Mirepois, e il Martelli vescovo di Fiesole, e Marco Viguerio vescovo di Sinigaglia; del quale vi è memoria che, rinfacciandogli il cardinale del Monte d’ingratitudine, ché, tirato il zio da infimo stato all’altezza del cardinalato (da che era venuta la grandezza di casa sua e il vescovato in lui) rendesse tal merito alla sede apostolica, rispose in latino con le parole di san Paolo: «Non si debbe burlar con Dio». Partirono li legati con la croce levata e accompagnati dalli vescovi del loro partito con cerimonie e preghiere.
Gli imperiali ebbero comandamento dall’ambasciatore dell’imperatore di non partire finché Sua Maestá, ragguagliata, non dasse ordine. In Roma la corte sentí in bene di esser liberata dalle suspicioni; perché ormai vi era gran confusione o nondinazione de’ possessori di pluralitá de benefici, che trattavano scaricarsi, in modo però che non scemasse punto l’utile. Il pontefice diceva che, avendo dato alli legati suoi l’autoritá di trasferir il concilio e promesso d’aver rato quello che da loro fosse deliberato, e di farlo esequire, e avendo essi giudicata la causa dell’infezione d’aria legittima, e tanto piú essendoci concorso l’assenso della maggior parte de’ prelati, non poteva se non approbarla.
Non era però alcun tanto semplice che non credesse il tutto esser fatto per comandamento, essendo certo che nessuna cosa, per minima, si trattava in concilio, senza aver ordine prima da Roma; al qual effetto ogni settimana correndo lettere, e alcune volte due dispacci spedendosi, non si poteva credere che una cosa d’importanza tanto somma fosse stata deliberata di capo delli legati: oltre che il solo introdur tanto numero di persone in una cittá gelosa, come Bologna, senza saputa del principe dominante, pareva cosa che mai li legati averebbono tentato. Credevano anco molti che la bolla non fosse col vero dato, ma fatta di novo sotto dato vecchio, e col nome del cardinale Polo, per dar maggior credito; altramente pareva quella clausola, nella quale è data autoritá della translazione a due di loro assente l’altro, una specie di profezia che Polo dovesse un anno dopo partire; e quella libertá di transferire a qual cittá fosse piaciuto era tenuta per troppo ampia e inverisimile, atteso il sospetto sempre fisso nell’animo de’ pontefici che concilio non si celebri in cittá diffidente, mostrato piú che mai da papa Paolo nel convocarlo; onde non si poteva credere che s’avesse esposto alla discrezione altrui senza bisogno, in cosa di tanto momento. Con tutto ciò io, seguendo le note che ho vedute, che al suo luoco ho detto, tengo per fermo che fu fabbricata due anni e mandata diciotto mesi inanzi questo tempo. Ma quello che non si poteva in modo alcuno ascondere, e che scandaleggiava ognuno, era che per quella bolla si vedeva chiara la servitú del concilio. Perché se doi legati potevano comandar a tutti li prelati insieme di partirsi da Trento, e constringerli con pene e censure, dica chi lo sa e lo può che libertá era quella che avevano.
L’imperator, udita la nuova, sentí dispiacer grande: prima, perché li pareva esser sprezzato; e poi, perché si vedeva levato di mano un modo, quale maneggiando secondo l’opportunitá, pensava pacificar la religione in Germania, e per quel mezzo metterla sotto la sua obedienza.
Al re di Francia la nuova non pervenne, ché egli il 21 dell’istesso mese passò a miglior vita.
fine del primo volume