Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo IV
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CAPITOLO IV
(dicembre 1559-luglio 1560).
[Elezione di papa Pio IV. — Riconosce subito la rinunzia di Carlo V al trono e la successione di Ferdinando. — In concistoro ed agli ambasciatori annunzia il proposito di convocare il concilio. — I valdesi: Emanuele Filiberto propone un convegno religioso per essi, avversato dal papa, che consiglia la maniera forte. — Cattolici e ugonotti in Francia; la congiura d’Amboise. — Il consiglio reale decide la convocazione d’un sinodo nazionale. — Il papa, avvertitone, si oppone, in vista del concilio generale, e suggerisce un accordo di Francia, Spagna e Savoia per debellare Ginevra, covo dell’eresia. — Emanuele Filiberto e il re di Spagna accampano difficoltá. — Filippo II sconsiglia a Francesco II il sinodo nazionale. — Anche il re di Francia è contrario all’impresa di Ginevra: deciso invece al concilio nazionale, chiede per esso un legato al papa. — Pio IV crede bene d’affrettare il concilio generale, e decide per Trento. — Invio del Tournon in Francia. — Nuovi motivi spingono il papa alla celebrazione del concilio: la difficile situazione dei cattolici in Scozia e le tendenze luterane di Massimiliano re di Boemia. — Solenne dichiarazione del papa agli ambasciatori sulla ripresa del concilio a Trento, ed istruzioni ai nunzi. — Filippo II favorevole ad essa, Francesco II contrario alla sede di Trento ed alla «continuazione», Ferdinando accampa pretese e difficoltá ancor piú gravi. — Ferme intenzioni del papa.]
Ma in Roma, dopo varie contenzioni e pratiche per crear papa Mantoa, Ferrara, Carpi o Puteo, finalmente la notte seguente il 24 decembre fu creato pontefice Giovanni Angelo cardinale de’ Medici, che si chiamò Pio IV. Il quale, quietati li tumulti della cittá e assicurati gli animi di tutti con un generai perdono delle cose commesse in sedizione, voltò l’animo subito alli due capi giurati, concernenti le cose piú comuni. E il 30 dello stesso mese, congregati tredici cardinali, e con loro consultato sopra la reiezione dell’ambasciaria di Ferdinando e la deliberazione di Paolo di non riconoscerlo per imperatore, fu comun parere che gli fosse stato fatto torto. Ma trattando longamente come rimediare all’inconveniente, e dopo molte cose proposte e discusse non trovando come introdur negozio senza pericolo di maggior incontri, quando li elettori fossero intromessi in questa meschia (come sarebbe stato impossibile tenerli fuori), fu comun parer che ogni negoziazione fosse da fuggire, come quella che terminerebbe con qualche indignitá del pontefice, e che meglio era non aspettar che l’imperatore facesse alcuna richiesta. Fu approvato il parere dal pontefice, parendogli che era prudenza donare quello che non si poteva né vender né ritenere; e mandò immediate a chiamar Francesco dalla Torre ministro dell’imperatore, che era in Roma, e gli disse che egli approvava la rinoncia di Carlo e la successione di Ferdinando all’Imperio, e che gli averebbe scritto con li titoli consueti, e che di ciò dovesse avvisare.
Applicò l’animo dopo questo alle cose del concilio, certo in se stesso che gliene sarebbe fatto instanza da diverse parti. Molte difficoltá gli andavano per l’animo (sí come esso diceva conferendo col Cardinal Morone, in cui confidava per la prudenza e amicizia): se era bene per la sede apostolica far il concilio o no: e se non, quello che fosse meglio: negarlo assolutamente e opporsi alla libera a chi lo chiedeva, o mostrar di volerlo, mettendogli impedimenti oltra quelli che il negozio da sé porterebbe; e se il celebrarlo era utile, quello che fosse meglio: aspettar d’esser richiesto, o pur prevenire e richiedere. Se gli rappresentavano alla mente le cause perché Paulo III sotto colore di transazione lo disciolse, e li pericoli scorsi da Giulio, se la buona ventura non l’avesse aiutato; non esservi giá un Carlo imperatore al presente, del quale si possi tanto temere; ma quanto li principi sono piú deboli, tanto li vescovi esser piú gagliardi; e doversi aver maggior avvertenza a questi, che non possono alzarsi se non sopra le ruine del pontificato. L’opporsi a chi dimanderá concilio all’aperta esser cosa piena di scandolo per il nome specioso, e per l’opinione che il mondo ha, se ben vana, che ne debbia seguir frutto; e perché ognuno è persuaso che per l’aborrimento della riforma venga ricusato il concilio, esser cosa di tanto maggior scandolo; e se poi per necessitá si venga a conceder quello che assolutamente sia negato, esser una total perdita di reputazione; oltra che incita il mondo a procurar l’abbassamento di chi s’è opposto. In queste perplessitá teneva il pontefice per cosa chiara non potersi far concilio con frutto alcuno della Chiesa e delli regni divisi, e senza metter in pericolo l’autoritá ponteficia, e che di questa veritá il mondo era incapace; per il che non poteva opporsi all’aperta. Ma restava incerto se, ricercandolo li re o li regni, le congionture delle cose future potessero divenir tali che gl’impedimenti occulti avessero effetto. Tutto pensato, concluse in ogni evento esser bene mostrarsi pronto, anzi desideroso, e prevenir li desideri degli altri, per restar piú nascosto nell’attraversarli e per aver maggior credito in rappresentare le difficoltá contrarie, rimettendo alle cause superiori quella deliberazione alla quale il giudicio umano non può giongere.
Cosí risoluto di questo tanto, e non piú oltre, fatta la coronazione all’Epifania, il dí 11 del mese tenne una numerosa congregazione de cardinali, nella quale con longhe parole manifestò l’animo suo esser di reformar la corte e di congregar il concilio generale, imponendo a tutti che pensassero le cose degne di riforma, e il luoco, tempo e altri preparatorii, per convocar una sinodo che non riuscisse col frutto di quella che giá due volte fu congregata. E dopo questo nelli privati ragionamenti, cosí con cardinali come con ambasciatori, in ogni occasione parlava di questa sua intenzione: non però operava cosa che la dimostrasse piú chiaramente.
Andò l’avviso all’imperatore a Vienna di quello che il papa aveva al suo ministro intimato: il qual immediate deputò ambasciatore; e inanzi la partita di quello, scrisse al pontefice rallegrandosi dell’assonzione sua e ringraziandolo che paterna e saviamente aveva posto fine alla difficoltá promossagli da Paulo IV contra ragione ed equitá, dandoli conto dell’ambasciator destinato. Questi fu Scipione conte di Arco, che a’ 10 febbraro gionse in Roma; e nel principio riscontrò in gran difficoltá, avendo commissione dall’imperatore di render al papa solo riverenza, ed essendo il papa risoluto che li rendesse obedienzia, mostrando che li altri ambasciatori cesarei cosí avevano usato verso li precessori suoi, parlando risolutamente che in altra maniera non era per ammetterlo. L’ambasciator di Spagna e il Cardinal Paceco lo consigliavano a non trapassar le commissioni avute; in contrario lo inducevano il Cardinal Morone e Trento; il parer de’ quali fu seguito dal conte, perché l’imperator gli aveva commesso che con quelli cardinali consegnasse tutte le cose sue. Spedita in consistoro la ceremonia con sodisfazione del papa, nella prima audienza privata, dovendo l’ambasciator per nome di Cesare pregarlo a convocar il concilio per componer li dissidi di Germania, fu dal papa prevenuto, con molto contento dell’ambasciatore, quale credendo dover trattar col papa di cosa dispiacevole, s’era preparato di rappresentarla con molta dolcezza per farla ascoltare piú facilmente. Gli disse il papa che, essendo in conclavi tra li cardinali, s’era trattato di rimetter il concilio, nel che egli era stato parte molto principale; e fatto pontefice, era maggiormente confermato nella stessa deliberazione, non volendo però camminar in questo alla cieca, ma in modo che non s’incontri difficoltá, come le altre volte è avvenuto; ma prima siano premesse le disposizioni necessarie, acciò ne succeda il frutto desiderato. Trattò l’istesso dopo con li ambasciatori di Francia e Spagna, e scrisse alli nonci suoi di rappresentar l’istesso alli loro re. Ne parlò anco con gli ambasciatori di Portogallo e delli principi italiani che erano in Roma.
Doppoi questi uffici il duca di Savoia mandò persona espressa a ricercare il pontefice di far con sua buona grazia un colloquio di religione per istruir li popoli delle sue valli, che generalmente tutti erano alienati dalla religione antica. L’occasione fu perché di quelli che giá circa quattrocento anni si ritirarono dalla chiesa romana, chiamati valdensi, e per le persecuzioni passarono in Polonia, Germania, in Puglia e in Provenza, una parte anco si ricoverò nelle valli del Moncenis, Lucerna, Angrogna, Perosa e San Martino. Questi, avendosi sempre conservati separati, con certi loro ministri che addimandavano «pastori», quando la dottrina di Zuinglio si piantò in Genéva, si unirono immediate con quelli, come conformi nelli dogmi e riti principali; e mentre che il Piemonte fu sotto francesi, quantunque dal senato di Turino fossero proibiti d’esercitar la religione elvetica sotto pena capitale, nondimeno pian piano l’introdussero pubblica; in maniera che, quando il paese fu restituito al duca di Savoia, l’esercizio era come libero. Il duca si deliberò di farli recever la religione cattolica, onde molti ne furono abbruggiati e in altro modo fatti morire, e maggior numero condannati alla galera, adoperandosi massime fra’ Tomaso Giacomello, dominicano inquisitore. Il che fu causa di farli metter in disputa se fosse lecito defendersi con le arme; nel che li loro ministri non erano d’accordo. Dicevano alcuni che non era lecito opponersi con le arme al suo principe, manco per difesa della vita propria, ma che portando via il suo avere (che potevano), si ritirassero nei monti vicini. Altri dicevano che era lecito in tanta disperazione valersi della forza, massime che non si usava contra il principe, ma contra il papa, che abusava dell’autoritá del principe. Una gran parte di essi seguí il primo parere, l’altra si mise su la difesa; laonde il duca, conoscendo che veramente non erano mossi da pensieri di rebellione e che instrutti sarebbe facil guadagnarli, ricevette il conseglio datogli d’instituire a questo effetto un colloquio. Ma non volendo alienarsi il pontefice, giudicò necessario non far cosa senza di lui: mandò a darli conto del tutto e chiederne il suo consenso. Il pontefice senti molestia grande della dimanda, la qual altro non inferiva se non che in Italia, e sotto gli occhi suoi, fosse posta in difficoltá e si dovesse metter in disputa l’autoritá sua. Rispose che non era per consentir in modo alcuno; ma se quei populi avevano bisogno distruzione, egli manderebbe un legato con autoritá di assolvere quelli che volessero convertirsi, accompagnato da teologi che gli insegnassero la veritá. Soggionse però che poca speranza aveva di conversione, perchè gli eretici sono pertinaci, e quello che si fa per esortarli a riconoscenza, interpretano che sia mancamento di forze per costringerli. Che mai ci era memoria di profitto fatto con questa moderazione, ma ben l’esperienza passata aver insegnato che quanto prima si viene contra loro al rimedio della giustizia e, quando quella non basti, alla forza delle armi, tanto meglio riesce. Che quando si risolvesse di far questo, li presterebbe aiuto. Ma se non li paresse opportuno, si poteva differire sino al concilio generale che era per convocar presto. Al duca non piacque il partito della legazione, come quello che averebbe inasprito maggiormente, e averebbe posto lui in necessitá di proceder secondo li interessi d’altri, e non li propri: meglio esser usar la via delle armi, la quale anco il papa lodava piú, e si offeriva dar aiuto. Seguí per questo una guerra in quelle valli tutto questo anno e parte del seguente, della quale si parlerá al tempo che quella ebbe fine.
Ma in Francia in molte parti del regno fu eccitata una gran congiura, nella quale entrarono molti, e la maggior parte per causa di religione, sdegnati che tutto il giorno si vedesse per ogni parte lacerare e abbruggiare li miseri, che di nessuna altra cosa erano colpevoli, se non che mossi da zelo dell’onor divino e salute dell’anima propria. A questi s’aggionsero altri che, riputando li Ghisi esser causa di tutti li disordini del regno, avevano per opera eroica liberarlo dalla oppressione con levar a quelli l’amministrazione delle cose pubbliche: vi erano anco li ambiziosi e desiderosi di novitá, che non potevano far li fatti loro se non in mezzo delle turbe. Ma cosí questi mal intenzionati, come gli altri desiderosi del bene del regno, per aver il seguito si coprivano col manto della religione; e per fermar tanto meglio gli animi, fecero metter in scritto il parere alli principali giurisconsulti di Germania e Francia e alli teologi protestanti piú nominati che, salva la conscienzia e senza violar la maestá del re e la degnitá del legittimo magistrato, era lecito prender le armi per opporsi alla violenta dominazione di quelli di Ghisa, offensori della vera religione e della legittima giustizia, che tenevano il re come prigione. Prepararono li congiurati una gran moltitudine, che disarmati comparissero inanzi al re a dimandar che la severitá delli giudici fosse mitigata e concessa libertá per la conscienzia, con disegno che fossero seguiti da gentiluomini, che supplicassero contra l’amministrazione de’ Ghisi. La congiura fu scoperta, e la corte regia per sicurezza si ritirò da Bles, luoco aperto e opportuno ad una tal esecuzione, ad Ambuosa, fortezza ristretta: e perciò li concerti furono turbati. E mentre che li congiurati trattano novo modo, di essi molti furono trovati in arme e combattuti e morti, altri ancora presi e giustiziati; e per quietar il tumulto, a’ 18 marzo, per editto regio, fu concesso venia a quelli che per simplicitá, mossi da zelo di religione, s’erano conspirati, purché fra ventiquattro ore deponessero le armi. E poi fece il re anco un editto di perdono a tutti li riformati mentre che tornassero alla Chiesa; proibí tutte le radunanze di religione, e diede la cognizione delle cause di eresia alli vescovi; la qual cosa al cancellier non piaceva, ma li acconsentí, per timore che non s’introducesse l’inquisizione alla spagnola, come li Ghisi procuravano.
Per il supplicio preso de’ congiurati e per li perdoni pubblicati non si acquietarono li umori mossi, né furono deposte le speranze concepite d’aver libertá di religione; anzi furono eccitati maggiori tumulti populari in Provenza, Linguadoca e Poitú; nelle qual provincie furono chiamati e concorsero anco da sé predicatori da Genéva, per le concioni de’ quali cresceva anco il numero delli seguaci della nova riforma. Il qual concerto tanto universale e repentino fece venir in resoluzione quelli che avevano il governo del regno, che vi fosse bisogno di rimedio ecclesiastico, e ben presto; e da tutto ’l conseglio era proposto un concilio nazionale. Il Cardinal d’Arinignac diceva che niente era da farsi senza il papa; che egli solo bastava per far ogni provvisione; che [si] scrivesse a Roma e aspettasse di lá resposta. Al qual parere alcuni pochi prelati aderivano. Ma il vescovo di Valenza in contrario diceva che non si poteva aspettar dal papa rimedio presto per la lontananza; né appropriato, per non esser informato delle particolar necessitá del regno; né caritativo, per esser lui occupato nell’aggrandire li nepoti suoi: che Dio aveva a tutti li regni dato i modi necessari per governar lo stato proprio; che la Francia aveva li propri prelati per regolar le cose della religione; che essi meglio sanno li bisogni del regno; che sarebbe una gran assurditá veder abbruggiar Parisi avendo la Senna e la Marna pieni d’acqua, e creder che bisognasse aspettar a condurne dal Tevere per estinguer l’incendio. La risoluzione del conseglio fu che, vedendosi bisogno d’un presto e gagliardo rimedio, si facesse un’adunanza delli prelati del regno, per ritrovar modo di fermar il corso a tanti mali. E nel dí 11 aprile fu intimata per li 10 settembre prossimo.
Ma acciò non fosse ricevuta in male dal pontefice, fu spedito un corriero a Roma per darli conto della deliberazione, e significarli il bisogno di quel rimedio, e pregarlo a ricever la deliberazione in bene. E l’ambasciator rappresentò al papa il male e li pericoli, con la speranza che il re aveva di qualche buon rimedio con una generale convocazione delli prelati, senza la quale non si vedeva mezzo di provvisione efficace. Per il che era stato constretto, non differendo piú longamente né aspettando rimedi da luochi lontani, e in tempi incerti, e per necessitá longhi, valersi di quello che era in sua mano, prossimo di luoco e di tempo, soggiongendo che nessuna risoluzione di quel convento sarebbe eseguita né tenuta per valida, se non fosse prima da Sua Santitá approvata. Il papa per converso si dolse gravemente che il re avesse pubblicato perdono degli errori commessi contra la religione, eziandio a quelli che non lo dimandavano, cosa in che nessuno ha potestá, salvo che il pontefice romano. E chi è il re, diceva, che pensa di poter perdonare li delitti contra Dio? Che non è maraviglia se per giusta ira divina tanti tumulti sono in quel regno, dove li sacri canoni sono vilipesi e usurpata l’autoritá pontificia. Passò poi a dire che l’adunanza de’ prelati non averebbe fatto alcun buon effetto, anzi causato maggior divisione; che aveva giá proposto il concilio generale, unico rimedio; il difetto che sino allora non fosse ridotto, da loro nasceva, che non lo volevano; con tutto ciò egli era risoluto celebrarlo, se bene da niuno era richiesto; ma adunanza de prelati non voleva acconsentire in modo alcuno né in Francia né in altra parte; che mai ciò era stato dalla sede apostolica sopportato; che se ogni principe celebrasse concili da sé, seguirebbe una confusione e separazione dalla Chiesa. Si querelò poi gravissimamente che prima il convento fosse intimato e poi fosse ricercato il suo consenso, cosa che non si poteva interpretare se non con poco rispetto al capo della Chiesa, al quale conviene riferire tutte le cose ecclesiastiche, non per darli conto del fatto, ma per ricevere da lui l’autoritá di farle. Che li editti pubblicati introducevano una manifesta apostasia dalla sede apostolica in quel regno; alla quale volendo ovviare, averebbe per noncio espresso fatta intendere la sua volontá al re.
Destinò per tanto in Francia il vescovo di Viterbo, con instruzione di mostrare al re che il concilio nazionale di quel regno sarebbe una specie di scisma dalla Chiesa universale, darebbe cattivo esempio alle altre nazioni, farebbe insuperbir li prelati del regno e assumersi maggior autoritá con diminuzione della regia; esser noto a tutti con quanto ardore desiderino la restituzione della Prammatica, la quale al primo principio vorrebbono introdurre, onde il re perderebbe tutta la collazione delli regali e la presentazione delli vescovati e abbazie. Da che poi ne seguirebbe che li prelati, non riconoscendo alcuna sua grandezza dal re, li sarebbono contumaci; e con tutti questi mali non si provvederebbe a quelli che sono urgenti. Perché giá li eretici professano di aver li prelati in nessun conto, e ogni cosa che da loro fosse operata sarebbe, se non per altro, per questo solo dalli ministri protestanti oppugnata. Che il vero rimedio è fare che li prelati e altri curati vadino alle residenze e custodiscano li greggi loro, opponendosi alla rabbia delli lupi, e che la giustizia proceda contra quelli che dalli giudici della fede sono giudicati eretici; e dove la moltitudine non lo comporta, inanzi che il male si faccia maggiore, usar la forza e le armi per rimetter tutti in ufficio: che facendo al presente tutte queste cose, si poteva sperar compimento nella celebrazione del concilio generale, il qual egli era per intimar immediate. Che se il re fosse venuto in resoluzione di ridur ad obedienza li contumaci prima che crescessero maggiormente in numero e forze, si offeriva assisterlo con tutto il suo potere, e operar che dal re di Spagna e dalli principi d’Italia li fossero somministrati potenti aiuti. E quando il re non condescendesse a costringer li sudditi suoi con le armi, li proponesse che di Genéva esce tutto il male qual turba la Francia, e tutto il veleno che infetta e quel regno e li luochi vicini; che l’estirpar quella radice sarebbe levar un gran fomento al male; oltre che, facendo una guerra fuori del regno, evacuerebbe quei mali umori che lo perturbano. Però esortasse il re concorrere con lui a questa santa opera; che egli indurrebbe il re di Spagna e il duca di Savoia all’istesso.
Diede anco il papa commissione al vescovo che nel passare trattasse l’istesso col duca di Savoia. E al re di Spagna scrisse, e per mezzo del suo noncio residente fece instanza, che operasse col cognato per divertirlo dal concilio nazionale, che, dannoso alla Francia, sarebbe riuscito in cattivo esempio alla Spagna, e peggior alli Paesi Bassi. Il duca di Savoia udí la proposta della guerra di Genéva, e si offerí d’implicarsi tutto, mentre che l’uno e l’altro re si contentasse di aiutarlo e che la guerra fosse fatta da lui e per lui; poiché appartenendo quella cittá al dominio suo, non era giusto che, acquistandosi, fosse da nessun di loro ritenuta. Però che, volendo Sua Santitá venir all’effetto, bisognava far una lega e capitular molto chiaro, acciò che da questo bene proposto non ne riuscisse qualche gran male, quando o vero li re non fossero concordi od egli restasse abbandonato, dopo aversi concitato contra li svizzeri, quali senza dubbio si dechiarerebbono defensori di quella cittá.
Il re di Spagna quanto a Genéva considerò che la Francia non permetterebbe che Genéva andasse in altra mano che in poter de’ francesi; non compliva al suo servizio che entrasse, per la vicinitá alla Franca Contea: però rispose che non li pareva tempo di far tal tentativo. Ma quanto al concilio nazionale di Francia, pensò molto ben quanto fosse per le cose delli stati suoi di pernicioso esempio. Per il che immediate spedí a quel re Antonio di Toledo, prior di Leone, per significargli che trovava molto dannosa la celebrazione di quel concilio per la divisione che potrebbe nascere, essendo il regno infetto; e però lo pregava di non lasciar venir all’esecuzione, non movendolo a questo nessun’altra cosa, se non il vero amore verso di lui e il buon zelo della gloria di Dio. Li metteva in considerazione, oltre le contenzioni che potevano nascer nel regno suo, il pernicioso esempio che piglierebbono le altre provincie, e il pregiudicio che farebbe al concilio generale, qual si trattava di fare, il qual è unico rimedio per li mali e divisioni della cristianitá; e mostrerebbe che non vi fosse quella buona intelligenza tra l’imperatore ed essi doi re, la qual è necessario dimostrare; e farebbe insuperbir li protestanti, in pregiudicio della causa pubblica. Aggionse che non li mancano forze per reprimer le insolenze de’ suoi sudditi; e pure quando vogli valersi delle forze di esso re di Spagna, le spenderá di buona voglia in questo caso, e vi aggiongerá anco la propria persona, se fará bisogno, a fine che li sudditi suoi non possino gloriarsi d’averlo fatto venire ad alcuna indignitá: il che debbe molto pensar in questo principio di regno. Commise anco all’ambasciatore che, quando questo non potesse ottenere, procurasse per le stesse e altre ragioni di fare che si suspendesse per piú longo tempo, commettendo appresso che trattasse col Cardinal di Lorena, il qual s’intendeva tenir la mano a questo concilio, che egli come principe della Chiesa, e che ha tanta parte nel governo di quel regno, ha obbligo di considerare il danno che potrebbe risultar al regno e a tutta la cristianitá, usando le medesme ragioni. Fece far anco l’istesso ufficio col duca di Ghisa e con la regina madre, e col contestabile, e col marescial di Sant’Andrea. Li diede appresso commissione di tener del tutto avvisata la duchessa di Parma nei Paesi Bassi, e il Vargas suo ambasciatore a Roma. Avvisò anco il pontefice dell’efficace ufficio, che mandava a fare, per persona espressa, e il bisogno che giudicava dover avere quel re di aiuto. A questo aggionse la necessitá in che si ritrovava egli medesimo, avendo l’anno inanzi perduto venti galere e venticinque navi andate in mano de’ turchi, e la fortezza delle Gerbe da loro presa per forza, accidenti che lo costringevano ad accrescere l’armata. E però richiedeva che Sua Santitá li concedesse sussidio gagliardo sopra le chiese e benefici delli suoi regni.
Ma in Francia la proposta di assaltar Genéva non fu ben sentita, parendo che fosse un insospettir gli ugonotti (cosí chiamavano li riformati) e provocarli ad unirsi; oltre che a quella guerra non sarebbono andati se non cattolici, e s’averebbe lasciato piú aperto il regno alli contrari. Il provocar anco li svizzeri, protettori di quella cittá, non pareva sicuro, per ogni occorrenza di bisogno che potesse venir alla corona; però al noncio non risposero con altra considerazione, se non che, mentre tante confusioni affliggevano il regno internamente, non era possibile attender alle cose di fuori. Ma quanto al concilio nazionale fu l’istessa risposta al Toledo e al noncio: che il re era deliberato conservar sé e il suo regno nell’unione cattolica; che non disponeva di far concilio nazionale per separarsi, anzi per unir li sviati alla Chiesa; che molto piú gli piacerebbe e sperarebbe maggior profitto dal concilio generale, quando li bisogni suoi urgenti permettessero che si aspettasse il tempo, per necessitá molto longo; che il concilio nazionale, qual ricerca, lo vuol dependente dalla sede apostolica e dal pontefice; e se in quel mentre il generale si congregherá, il suo cesserá e s’incorporerá con quello. E per corrisponder alle parole con effetti, ricercò il pontefice che mandasse in Francia un legato, con facoltá di congregar li vescovi del regno per trovar modo di assettar le cose della religione.
Aveva il pontefice gettata la proposta di far guerra a Genéva non tanto per l’odio di quella cittá, come seminario d’onde uscivano li predicatori zuingliani per Francia, né per timore di qualche novitá in Italia, quanto anco per allongar trattazione di concilio generale. Perché se la guerra fosse accesa, sarebbe qualche anni durata; e tra tanto s’averebbe posto in silenzio, o ver trovato buona forma al concilio. Ora vedendo che la proposta non aveva fatto presa, e che tuttavia li francesi perseveravano nella deliberazione del concilio nazionale, pensò che fosse necessario non differir la risoluzione del generale, e fermar li francesi con questo e con qualche concessione di quello che richiedevano. Ne conferí con li cardinali piú intimi, particolarmente intorno al luoco, cosa che sopra il tutto pareva importare, producendo in fine il concilio gli effetti secondo la mente di quello che è il piú forte nel luoco dove si celebra. Volontieri averebbe proposta Bologna o altra delle sue terre, con offerir d’andarvi in persona; ma in questo non si fermò, ben vedendo che sarebbe dal mondo interpretato troppo in sinistro. Cittá alcuna di lá da’ monti era risoluto non accettare, né manco ascoltarne la proposta. Il Cardinal Paceco gli nominò Milano, ed egli condescese; con questo però, ch’avesse il castello in mano mentre il concilio si celebrava, che era un rimettersi a condizione impossibile. Applicò anco l’animo ad alcuna delle cittá veneziane; ma quella republica si scusava per non dar ombra alli turchi, delle forze de’ quali allora si temeva. Tutto pensato, non trovò piú opportuno luoco che Trento; poiché essendosi giá due volte tenuto in quel luoco, ognuno aveva con esperienza veduto quello che vi era di buono e di contrario, e per ciò esser piú facile che tutti convenissero in questo che in altro luoco. Vi era anco l’apparenza di ragione, perché il celebrato sotto Giulio non era finito, ma restava sospeso. A’ francesi consultò di sodisfare mandando in Francia il Cardinal Tornone, non in qualitá di legato, ma con facoltá che, quando fosse quivi e vedesse il bisogno, potesse congregar alcuni delli prelati del regno, quelli che fosse parso al re e a lui; ma non tutti, acciò non vi fosse apparenza di concilio; e con questi trattare, non venendo a risoluzione alcuna, senza avvisar prima a Roma e aspettar la risoluzione.
Si aggionsero doi altri accidenti di non minor considerazione, che spinsero il papa a parlar piú chiaro di concilio: uno, lontano sí, ma che importava la perdita d’un regno; l’altro, toccante una sola persona, ma di gran consequenza. In Scozia li nobili, che longamente avevano fatto la guerra per scacciar di quel regno li francesi e levar il governo di mano della regina reggente, e avevano incontrato sempre molte difficoltá per li potenti aiuti che il re di Francia suo genero li somministrava per mantener il regno alla moglie, finalmente, per liberarsi a fatto, si risolverono congiongersi con li anglesi ed eccitar il popolo contra la reggente. Per questo effetto aprirono la porta alla libertá della religione, alla quale il popolo era inclinato; col qual mezzo ridussero li francesi a molto ristretto, e la religione antica restò poco in prezzo. Di questo veniva attribuito la causa al papa, parendo al mondo che col concilio incominciato s’avessero fermati tutti li tumulti popolari. L’altro accidente era che il re di Boemia da molto tempo teneva qualche intelligenzia e pratica con li elettori e altri protestanti di Germania, e giá perciò fu anco in sospetto di Paulo IV, che non si potè contenere di non oppor all’imperatore, nel ragionamento privato che ebbe con Martino Gusmano ambasciatore suo, che avesse il figlio fautor dell’eresia. Continuando il medesimo sospetto nella corte anco dopo la morte di Paulo, il pontefice li fece dire per il conte d’Arco che, se non fosse vissuto cattolico, non l’averebbe confermato re dei romani, anzi l’averebbe privato d’ogni dominio. Con tutto ciò, dopo ancora era andato a Roma certo avviso che egli tratteneva un predicatore, spesso ascoltato da lui, il quale aveva introdotto la comunione del calice in diversi luochi, non però nella cittá; e il re medesimo si lasciava intendere di non poterla ricever altramente: nel che se ben non era passato all’esecuzione, nondimeno quelle parole davano al papa gran sospetto, massime che in quasi tutti i luochi di Germania usavano la comunione del calice tutti quelli che volevano, e non v’era chi impedisse li preti nel ministrarlo.
Risoluto dunque il pontefice per tutti li suddetti rispetti di far quel gran passo, a’ 3 di giugno chiamò li ambasciatori dell’imperatore, di Spagna, Portogallo, Polonia, Venezia e Fiorenza; quali ridotti tutti inanzi a Sua Santitá, eccetto quel de Polonia per esser infermo, si dolse prima il pontefice di non aver potuto chiamar il francese, per timore che in sua presenzia non nascessero contenzioni di precedenzia, la qual era causa d’impedir il beneficio pubblico di consegliar le cose comuni della cristianitá: ma che essendo quelli due re parenti, bisognava bene che si risolvessero d’accomodarla, e quietarsi per bene della repubblica cristiana, e delli regni loro specialmente. Passò poi a dire la causa perché li aveva congregati essere la congregazione del concilio, la qual egli certo voleva metter ad effetto, levando tutte le difficoltá che potriano metter a campo li prencipi per loro interessi; che lo voleva in Trento, il qual luoco essendo piaciuto due volte, non potrá esser al presente negato da alcuno, non essendo novo luoco, né finito il concilio celebrato in quella cittá da Paulo e Giulio, ma sospeso. Per il che, levando via la sospensione, il concilio è aperto come era prima; massime che, essendo fatte in quel luoco molte buone determinazioni, saria male metterle in disputa con l’apparenzia di far un novo concilio. Aggionse che bisognava far presto, perché ogni dí si andava peggiorando, come si vedeva in Francia, dove trattano di far un concilio nazionale; il che egli non vuole né può comportare, perché l’istesso vorrebbe far Germania e ogni provincia; che di ciò darebbe ordine alli nonci suoi all’imperatore, in Francia e al re cattolico, che ne trattassero con quelle Maestá. Ma aveva giudicato far l’istessa intimazione a tutti essi, acciò spedissero ciascuno alli loro principi: perché se ben poteva da sé venir a questa risoluzione ed esecuzione, nondimeno li pareva conveniente farlo con saputa dei principi, acciò potessero raccordare qualche cosa di comun beneficio e per riforma della Chiesa, e mandar al concilio ambasciatori, e favorirlo con uffici appresso li protestanti. Soggionse creder che ci anderebbono in persona delli principi d’Alemagna; che il marchese di Brandeburg ci anderá certo.
L’ambasciator Vargas fece una longhissima risposta, introducendo narrazione delle cose fatte nei concili passati; discorse del modo di celebrar li concili; poi discese al luoco, e parlò delle cose fatte in Trento, dov’egli si trovò: distinse li concili generali dalli nazionali, dannando assai l’intimato in Francia. Quel di Portogallo laudò l’instituto del pontefice ed offerí l’obedienzia del suo re. Il veneto disse che per l’eresie nei tempi passati non s’era trovato miglior rimedio che de’ concili; che ringraziava Dio dell’aver inspirato Sua Santitá a cosí pia opera, che era per conservazione della vera religione e per beneficio de’ principi, quali non potevano goder pacificamente li stati in mutazione di religione. L’ambasciator di Fiorenza parlò in conformitá, offerendo lo stato e forze di quel duca.
Scrisse il pontefice alli nonci in Germania, Francia e Spagna, in conformitá di quanto aveva parlato con li ambasciatori. Non però mai parlava di concilio senza gettar qualche seme di erba contraria, che potesse o ver impedir il nascimento o dopo nato soffocarlo, essendo molto ben certo che, quando le congionture avessero portato che la vita di quello gli fosse tornata in servizio, in potestá sua sarebbe stato estirpar il sopra seminato. Si lasciò intender a parte con li stessi ambasciatori, con chi piú chiaramente e con chi motteggiando, che, volendo far il concilio con frutto, era necessario pensar piú al fine che al principio, e all’esecuzione che alla convocazione né prosecuzione. Che la convocazione aspettava a lui solo, la prosecuzione a lui e alli prelati, l’esecuzione alli principi. E però inanzi ogn’altra cosa era giusto che essi si obbligassero a questo; e si facesse una lega, con un capitanio generale che vadi contro li inobedienti per eseguire le deliberazioni del concilio, considerando che senza di questo sarebbe di nessun frutto, e con indignitá della sede apostolica e di tutti quei principi che vi avessero mandato ambasciatori e prestato favore e assistenza.
Ebbe il pontefice risposta dalli nonci suoi non conforme. Il re di Spagna laudava il concilio, approvando anco il luoco di Trento e promettendo di mandarvi i suoi prelati e fare ogn’altra opera per favorirlo, aggiongendo però che non conveniva far cosa alcuna senza la volontá dell’imperatore e del re di Francia. La risposta del qual re era che laudava la celebrazione del concilio, ma non approvava il luoco di Trento, allegando per ragione che i suoi non averebbono potuto andarvi; e proponeva per luochi opportuni Costanza, Treveri, Spira, Vormazia o Aganoe. Accennava ancora che non si dovessero continuare le cose giá cominciate in Trento, ma, abbandonandole a fatto, far un concilio tutto novo: la qual cosa dava molta molestia al pontefice, al qual pareva che questa non fosse risposta di proprio moto del re, ma che venisse dalli ugonotti.
Ma l’imperatore mandò una longa scrittura, nella quale diceva non potersi promettere della volontá delli principi di Germania se prima non intendeva l’opinione loro, cosa che non si poteva fare senza una dieta; la qual volendo congregare, era necessario tralasciar di nominar concilio, perché li principi non vi sarebbono andati; ma congregandola sotto altro pretesto, s’averebbe potuto parlare poi del concilio con occasione. Aggionse che quanto alli stati suoi patrimoniali non sperava poterli indurre al concilio, se non se li concedeva la comunione del calice e il matrimonio de’ preti, e se non si faceva una buona riforma; e sopra tutto che non si trattasse di continuare le cose incominciate in Trento, perché a ciò mai li luterani consentirebbono, anzi che il solo nome di Trento li averebbe fatti repugnare; e propose egli Costanza o Ratisbona.
Vedeva chiaramente il pontefice che la proposta di dieta portava un anno e forsi dua di tempo; e di questo sentiva piacere, ricevendo però molestia perché li successi di Francia ricercavano accelerazione. Diceva a ciascuno, per mostrar la sua prontezza, non importare a lui piú un luoco che un altro, e che piglierebbe Spira, Colonia e qual altra cittá volesse l’imperatore, purché li vescovi potessero andarvi e tornar sicuri, non essendo conveniente assicurar quelli che non hanno voto in concilio, lasciando senza sicurezza quelli de chi consta; ma che di rivocare quello che era fatto in Trento non occorreva parlarne, anzi voleva metter il sangue e li spiriti per mantenerlo, essendo cosa di fede; che bene quanto a quello che è di constituzion umana, sí come la comunione del calice e matrimonio de’ preti, essendo quelli instituiti per buon fine e approvati dalli concili, sí come egli non voleva rimoverli da se stesso, se ben poteva farlo, cosí voleva il tutto rimetter al concilio; se ben credeva che, con tutta la concessione delle cose che dimandano, non si rimoverebbono dalla loro opinione. Si lamentava della debolezza dell’imperatore, che temesse il proprio figliuolo non manco che gli altri, e poi ricercasse che li prelati fossero mandati in Germania, dove si dechiara va non aver potestá d’assecurarli; che egli sarebbe andato anco a Constantinopoli, pur che vi fosse sicurezza, la qual non si poteva aspettar dall’imperatore; che li alemanni erano quasi tutti eretici, e il re di Boemia piú potente che il padre; che a lui non importava piú un luoco che l’altro, purché fosse in Italia, che sola era sicura per i cattolici.
Rispose però al re di Francia e all’imperatore in termini generali: contentarsi d’ogni luoco, purché fosse sicuro, ponderando quanto la sicurezza delli concili fosse stata in ogni tempo riputata necessaria, e fosse allora piú che mai di bisogno di quella, senza descendere a far opposizione alli luochi nominati da loro. Ma al re cattolico rispose lodando la sua buona mente e confermandolo nel suo buon proposito; e quanto al sussidio richiesto, interponendo varie difficoltá, cosí per sostentar quanto piú poteva le comoditá del clero, come per non offenderlo e averlo contrario quando si fosse venuto a far il concilio.