Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo V
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CAPITOLO V
(agosto - dicembre 1560).
[Progressi della riforma in Francia, Scozia, Paesi Bassi: contegno di Massimiliano re di Boemia. — Insurrezione ugonotta ad Avignone contro il governo pontificio. — Assemblea di Fontainebleau nell’agosto: rinvio d’ogni decisione agli Stati generali da radunarsi nel dicembre. — Il papa, preoccupato della minaccia della sinodo nazionale francese, convoca gli ambasciatori perché comunichino ai sovrani la revoca della sospensione del concilio tridentino. Obbiezioni mosse dall’inviato imperiale. — Lunghe consultazioni in Roma di fronte al vario atteggiamento dei sovrani. Ferdinando insiste nell’opporsi alla sede di Trento ed alla «continuazione»; la Francia vuole un concilio ex novo, mentre la Spagna vuole che si dichiari la «continuazione».— Giubileo e cerimonie in Roma. — Bolla di convocazione del 29 novembre. — Invio dell'abate Niquet in Francia, dei nunzi Delfino e Commendone in Germania e del Martinengo in Inghilterra per indurre quei principi e prelati a partecipare al concilio.— Il Vergerio contro la bolla. — Francesco II contro il Condè e il Navarra, fautori degli ugonotti. — Morte del re e successione di Carlo IX sotto la reggenza di Caterina dei Medici e del Navarra. — Protezione accordata ai novatori. — Assemblea degli Stati generali a Orléans. — Tentativi del papa e dell’ambasciatore di Filippo II per spingere Caterina contro gli ugonotti. — Promesse con cui s'induce il re di Navarra ad abbandonarli.]
Andavano sempre le cose de’ cattolici facendosi piú difficili, perché in Francia la parte ugonotta sempre acquistava; e in Scozia ancora fu concessa per pubblico decreto a tutti la libertá di credere; e in Fiandra gli umori erano preparati per mettersi in moto alla prima occasione, la quale il re con molta flemma andava ritardando, e concedendo piuttosto, con danno e indignitá propria, a quei popoli quello che volevano. Erano stati sempre ostinati in non voler prestar alcuna contribuzione al re, se non levava li soldati spagnoli dal paese. In fine constretto li levò: né per questo vollero contribuire, ma solo pagar essi gente del paese per guardia dei luochi, independente dalli ministri regi. Il re ogni cosa sopportava, essendo certo che ad ogni minimo risentimento averebbono preso il pretesto della religione; ed egli disegnava di sopportar, aspettando che quell’ardore prima si estinguesse; e massime che si scoprí in questi tempi che anco in Spagna non erano ben estinte le semenze delle opinioni nove, che restavano coperte per timore; e che in Savoia similmente erano suscitati degli altri eretici, oltre li vecchi valdesi.
Ma sopra tutte le cose dava grandissima molestia alla corte romana che, avendo il pontefice fatto parlare al re di Boemia per Marco d’Altems suo nepote, che fu poi cardinale, persuadendolo per nome di Sua Santitá ad esser buon cattolico, con molte promissioni di onori e comodi, accennandoli la successione dell’Imperio, la qual se li difficulterebbe quando altramente facesse; ebbe risposta dal re che ringraziava Sua Santitá, ma che egli aveva piú cara la salute dell’anima sua che tutte le cose del mondo. La qual risposta in Roma dicevano esser formula di parlar da luterano, e veniva intesa per un’alienazione dall’obedienzia di quella Sede, e discorrevano sopra quello che sarebbe seguito, morto l’imperatore.
Mentre questi accidenti travagliano l’animo del pontefice, li sopravvenne nova che li ugonotti suoi sudditi nelle terre di Avignone s’erano congregati e messo in disputa se potevano pigliar le armi contra il pontefice, essendo loro patrone in temporale; e risoluto che potessero farlo, per non esser egli legittimo signore (sí perché quel contato non era stato giuridicamente levato a Rimondo conte di Tolosa, come anco perché gli ecclesiastici per precetto di Cristo non possono aver dominio temporale), e risoluta la ribellione per mezzo di Alessandro Guilotimo giurisconsulto, si posero sotto la protezione di Carlo di Montbrun, che aveva preso l’arme per la religione ed era di gran seguito in Delfinato: il quale entrò nel contato con tre mila fanti e s’impatroní di tutto il paese, con grand’allegrezza degli abitanti. A questi si oppose Giacomo Maria vescovo di Viviers, vicelegato d’Avignone, e difficilmente conservò la cittá; onde il papa restava molto afflitto, non piú per la perdita delle terre che per la causa che, presa in esempio, toccava la radice del pontificato. Per provvisione voleva che il Cardinal Farnese, essendo legato, andasse in persona alla defesa di quella cittá; ma il male si moderò, perché il Cardinal di Tornon, che appunto allora andando alla corte non era molto lontano di lá (del quale Montbrun aveva una nepote in matrimonio), con prometterli la restituzione delli beni, confiscati per la rebellione, e la grazia del re, se uscisse di Francia, con speranza che lo farebbe anco in breve richiamare con libertá di conscienzia, lo fece desistere e passar a Genéva; onde le terre del pontefice, private di quella protezione, restarono soggette, ma piene di sospezione e pronte ad ogni altra novitá.
In Francia, crescendo ogni giorno maggiormente il numero de’ protestanti e (quel che piú importava) le dissensioni e sospetti tra li grandi, nel 1560, 21 agosto, il re convocò una numerosa assemblea a Fontanableò. La qual congregata, esortati li intervenienti in poche parole a dir quello che giudicassero esser di servizio, dal cancelliero furono esposti li bisogni del regno, comparato da lui ad un infermo del quale il male sia incognito. E dopo qualche cose dette, Gasparo Coligni, accostatosi al re, li porse alcune suppliche, dicendo esserli state date da moltitudine d’uomini quando era in Normandia, a’ quali non potè negar questa grazia di presentarle alla Maestá sua. Quelle lette, la somma era: che li fedeli cristiani dispersi per tutto il regno pregavano Sua Maestá di guardarli con occhio benigno; essi non desiderar altro se non moderazione delle crudeli pene, sin che la causa loro sia conosciuta. Dimandar facoltá di professare la sua religione in pubblico, per non dar alcuna suspizione con le congregazioni private. Allora Giovan Montluc vescovo di Valenza, avendo narrate le infirmitá del regno e lodato l’esempio d’aver castigato li sediziosi, soggionse che rimaneva la causa del male, anzi si faceva sempre peggiore, mentre che la religione si poteva prender per pretesto. Che a questo bisognava provvedere; il che per il passato non era stato ben incamminato, perché li papi non avevano avuto altro fine che tener li principi in guerra; e li principi, pensato di raffrenar il male con le pene, non aver sortito il fine desiderato: né li magistrati in proceder con equitá, né li vescovi con far il suo debito hanno corrisposto. Il rimedio principale esser il ricorrer a Dio, congregar di tutto il regno uomini pii per trovar via di estirpar li vizi degli ecclesiastici, proibir le canzoni infami e impudiche, e in luoco di quelle instituir i salmi e inni sacri in volgare; e se quella interpretazione che va attorno non par sincera, levar gli errori e lasciar correr per mano di tutti le parti buone. Un altro rimedio esser il concilio generale, sempre usato per compor simil differenze; non saper veder come la conscienzia del pontefice possa quietarsi pur per un momento, vedendo ogni giorno perir tante anime: e se non si può ottener il concilio generale, coll’esempio di Carlo Magno e Lodovico Pio congregar il nazionale. Esser grave error di quelli che turbano la quiete pubblica con le armi sotto pretesto di religione, cosa sempre aborrita dalla antichitá; ma non esser minor error di quelli che condannano a morte li aderenti alla nova dottrina per sola opinione di pietá; perché, andando costantemente alla morte e sprezzando la iattura delli loro beni, irritano l’animo della moltitudine, e fanno venir volontá di sapere che fede è quella per quale sono volontariamente tollerati tanti mali.
In conformitá parlò anco dopo lui Carlo Marilacco vescovo di Vienna, lodando il rimedio del concilio generale, ma soggiongendo che si può piú desiderar che sperare, avendosi veduto le difficoltá solite nascere in tal negozio, e quante fatiche Carlo V per ciò ha preso, e come sia stato deluso dai pontefici; oltre che il male di Francia è tanto acuto, che non vi è tempo di chiamar medico da lontano. Però doversi ricorrere al concilio nazionale, solito usarsi altre volte nel regno; essendo chiaro che da Clodoveo sino a Carlo Magno, e poi anco sino a Carlo VII, sempre sono stati celebrati concili in Francia, ora di tutto il regno, ora di parte. Però, essendo urgente il male, non doversi aspettare né tenir alcun conto degl’impedimenti che il pontefice frapponesse; e intanto far andar li prelati alla residenza, e non comportar che li italiani, quali hanno la terza parte delli benefici, godino i frutti in assenzia; estirpar ogni simonia e mercanzia spirituale, e ordinar, come nel concilio ancirano, che al tempo del ministerio dei sacramenti non si faccia elemosina. Che li cardinali e prelati deputati da Paulo III diedero il medesimo conseglio; che Paulo IV lo giudicò necessario, se ben poi si voltò alle pompe e alla guerra: e non facendosi, esser pericolo di veder vera la profecia di Bernardo, che Cristo descenda dal cielo a scacciar dal tempio li sacerdoti, come giá li mercanti. Passò poi a dire delli remedi agli altri mali del regno. Coligni, quando toccò a lui parlare, disse che, avendo egli ricercato quelli che li porsero le suppliche di sottoscriversi, li fu risposto che cinquantamila uomini si sottoscriverebbono, bisognando.
Francesco di Ghisa, alla sua volta, quanto al punto della religione disse che si rimetteva al giudicio de’ dotti; protestava però che appresso lui nessun concilio sarebbe mai di tanta autoritá che lo facesse declinar un ponto dall’antica religione. Il Cardinal di Lorena, dopo aver parlato d’altri particolari, descendendo a quello della religione, disse le suppliche presentate esser superbissime, e se agli oratori fosse concesso pubblico esercizio, altro non sarebbe che approvar la loro dottrina; esser cosa chiara che la maggior parte la piglia per pretesto; per il che esser di parere che contra questi si procedi a maggior severitá, mitigando le pene contra quelli che si congregano senz’arme, per sola causa di religione, e attendendo ad insegnarli e ammonirli: e a questo effetto mandare li prelati alla residenzia, sperando che senza concilio, né generale né nazionale, con questi rimedi si provvederá al tutto.
Non essendo li pareri ben concordi, a’ 27 del mese fu fatto il decreto che a’ 10 di decembre si dovessero tener li Stati in Méaux; e quanto al concilio generale, avendo il pontefice dato speranza che presto si congregherá, se ciò non sará effettuato, li vescovi debbino congregarsi a’ 13 gennaro per trattar di celebrar un nazionale; tra tanto si sospendessero li supplici per causa di religione, fuori che contra quelli che movessero turbe con le armi.
Il papa, avuto avviso della risoluzione del convento di Fontanableò, scrisse al cardinale di Tornon che facesse ogn’opera per impedir la reduzione dei vescovi; il che quando non potesse effettuare, se ne tornasse a Roma. E alli 23 di settembre chiamò a sé li ambasciatori, a’ quali narrò prima il bisogno che vi era di presta celebrazione del concilio generale, attesa la deliberazione de’ francesi di far il nazionale; il qual se ben aveva dato ordine al Cardinal Tornon che procurasse d’impedire, però non sperava che l’impedimento succedesse. Ma egli si vedeva ben in necessitá di celebrar l’universale, acciò non fosse detto che li nazionali si facevano per non aver voluto egli far il generale. Però era forza aprir questo concilio di Trento e levar la suspensione; che il luoco era opportunissimo tra la Germania e l’Italia, se bene altri li propongono Spira e Treveri e altri luochi, quali riceverebbe se fossero sicuri, pronto anco di andar a Constantinopoli, quando potesse con sicurezza. Che fede si può aver in quelli che non hanno fede? Che nessun cattolico sarebbe sicuro in quei luochi, manco l’imperatore istesso. Che se non vorranno Trento, non mancheranno luochi nello stato di Milano, nel regno di Napoli, nello stato di Venezia, del duca di Savoia o di Fiorenza. Ma quanto al revocar le cose determinate, giá non era da parlarne; egli non voleva né revocarle né confermarle, ma rimetter tutto al concilio, il qual con l’assistenza dello Spirito Santo determinerá quello che a Dio piacerá. Ponderò molto la cosa del concilio nazionale di Francia, aggiongendo che sará un cattivo esempio, e che Germania vorrá seguitarlo; e anco in Italia succederá qualche moto, se non si fará provvisione; che vorranno sottometter al concilio e il pontificato e tutte le cose sue, ma che egli pro fide et religione volumus mori. Invitò li ambasciatori a dir il loro parere; onde quello dell’imperatore disse che era meglio interponer tempo, poiché lo stato delle cose di Germania non concedeva che l’imperator potesse consentirvi. A che il pontefice mostratosi alterato, soggionse l’ambasciatore che era utile guadagnar prima li animi dei principi di Germania; onde il papa piú alteratamente disse che non vi era tempo. E dicendo l’ambasciator che con questo moto dubitava non s’incitassero gli eretici contra l’Italia, il papa alzò la voce, dicendo che Dio non abbandonerá la causa sua, che egli saria aiutato con li prencipi cattolici, che averebbe avuto gente e dinari per difesa. Quello di Spagna laudò la mente di Sua Santitá, e disse che il suo re non averebbe mancato di favorirla, sí come per questo effetto aveva giá mandato Antonio di Toledo in Francia. Offerirono parimente l’ambasciator di Portogallo, di Venezia e gli altri il favore e l’assistenzia delli suoi principi; e in fine il papa ordinò loro che scrivessero l’intenzione sua, e li licenziò.
Ebbe poi risposta dal Cardinal Tornon che, fatto ogni tentativo, non aveva potuto rimover il re né alcuno del suo conseglio; né meno sperava che l’avvenire potesse portar congiontura megliore, anzi vedeva chiaro lo stato delle cose peggiorare. Il re di Spagna ancora, mandata al papa la risposta finale fatta al Toledo, scrisse appresso che il re di Francia si scusava di non poter, se non col concilio nazionale, rimediare alli desordini del suo regno, al che è obbligato; e che non dovesse maravegliarsi se, per ovviare gl’inconvenienti, convengono li re far soli quello che doverebbe esser fatto in compagnia col papa. La qual lettera travagliò molto il pontefice, intendendo che volesse inferire di far il medesimo esso ancora in Fiandra. Si scoprí dopo che il pontefice aveva in animo, se non poteva fuggir a fatto il concilio, differirlo almeno sin che avesse accomodato le cose di casa sua; perché, facendo concilio, era necessario dar buon esempio di sé in quel mentre, e far spese eccessive in mantener li prelati poveri, officiali, e altre cose necessarie per la sinodo, che assorbiranno tutte le entrate. Il negozio anco da per sé solo dover occuparlo intieramente, onde non averebbe potuto attender alla casa: però con molto mal animo si risolvè di non differir piú la convocazione. Onde a’ 20 di ottobre tenne una congregazione de cardinali, dove diede conto della risposta data dal re di Francia a don Antonio di Toledo, di quello che il re a lui scriveva, e del negoziato del cardinale di Tornon, aggiongendo un altro novo avviso di Francia, che, quantunque il concilio generale si apri, non sono per andarvi, se li protestanti non consentiranno essi ancora di riceverlo. Le qual cose misero grandissima confusione, temendo tutti che, se ben s’apriva il concilio generale, la Francia nondimeno fosse per far il nazionale, dal che in consequenzia ne nascesse alienazione dall’obedienzia della sede apostolica ed esempio al rimanente delle nazioni cristiane di alienarsi similmente, o con volontá o senza volontá de’ loro prencipi.
Da alcuni anco era molto stimato che era stato protestato al Cardinal di Trento che non dovesse allargarsi in offerir quella cittá, ma raccordarsi che l’imperator n’è patrone, senza la volontá del quale non può né deve disponer della cittá in tal affare; il qual imperatore si era dechiarato di voler onninamente far la dieta prima. Dava ancora gran pensiero quello che scriveva don Antonio di Toledo, che tutti li grandi e li vescovi stessi fomentavano le opinioni nove per assettare e aumentare le cose loro. Con tutto questo nondimeno l’opinione de’ cardinali tutti, eccetto che quel di Ferrara, fu che il concilio s’aprisse, levando la suspensione; e il pontefice disse di volerlo fare per San Martino. E considerando bene li pericoli imminenti, e le speranze di superarli, risolse in se medesimo (e consolò anco con questo li cardinali e altri dependenti suoi) che il male sarebbe stato ben grande alla Francia, ma poco alla sede apostolica, la qual finalmente averebbe perso poco, non cavandosi dall’espedizione di quel regno piú di venticinque mila scudi all’anno, essendo dall’altro canto grandissima l’autoritá del re nel distribuir li benefici, concessali dalli pontefici, la qual egli perderebbe, poiché, levata l’autoritá pontificia, entrerebbe la Prammatica, e li vescovi sariano eletti dalli canonici, e li abbati dalli monasteri, e il re spogliato di una tanta distribuzione. Per il che a lui non rincresceva se non la perdita di quelle anime. Ma se Dio voleva castigarli de’ loro delitti e della loro infedeltá, egli non poteva farli altro.
Gionsero in Roma al principio di novembre altre lettere della corte cesarea, dove l’imperatore, se ben con parole generali, diceva che intorno al concilio, quanto alla persona sua, voleva fare quello che al papa piaceva; nondimeno ci aggiongeva che il tener il concilio fuori di Germania, o vero il continuare il concilio di Trento levando le suspensioni, non farebbe frutto, anzi ecciterebbe nei protestanti maggior odio, con pericolo anco che procurassero d’impedirlo con le armi, di che gli era pervenuto all’orecchie diverse trattazioni; sí come facendo un novo concilio vi era speranza d’indur molti di loro ad andarvi. Il che era causa di varie opinioni nei cardinali, vedendosi chiaramente che, non continuandosi il concilio di Trento, tutte le cose giá determinate si potrebbono chiamar vane e di nessun valore, non essendo state approvate da nessun pontefice.
Propose il papa la materia in congregazione, dove si consultò e se ne parlò longamente, senza che fossero dati li voti; e in un’altra congregazione, dimandati li voti, Carpi con longo discorso mostrò che bisognava al tutto continuar il concilio, levando solo la suspensione, il che fu confermato da Cesis e Pisano. Ma Trento, che seguiva, disse che in materia dove si tratta de summa rerum, piena di tante difficoltá, era meglio pensarvi un poco piú. E questa opinione fu seguita da tutti gli altri cardinali. E opportunamente la sera seguente gionse un corrier di Francia in diligenzia, con protesti che, non facendosi il concilio generale, il re non poteva impedir piú il nazionale: però che non bisognava pensar a Trento o ad altro luoco d’Italia, perché essendo giá tanti anni ricercato il concilio per li bisogni di Germania, e ora aggionto il pericolo di Francia, conveniva farlo in luoco comodo ad ambe le nazioni, altrimenti sarebbe vano se todeschi e francesi non vi andassero. Proposero Costanza o Besanzone, aggiongendo che, se si eleggesse alcun luoco in Francia, promette il re che sará sicurissimo. In fine non parve al pontefice di differir piú oltre, ma a’ 15 di novembre in consistoro deliberò di far la domenica seguente una processione in cinere e cilicio, dando un giubileo, e cantando una messa dello Spirito Santo per deliberazione fatta di celebrar il concilio in Trento; concludendo che se dopo congregato parerá piú comodo transferirlo altrove, lo transferirá, e vi anderá anco in persona, purché sia luoco sicuro; aggiongendo che troverá anco arme per impedire se alcun volesse infringere le cose determinate. E si diede a pensare il tenore della bolla. Per il che ogni dí si faceva congregazione per risolvere se si doveva apertamente dechiarare la continuazione rimovendo la sospensione, come egli desiderava, acciò non si mettesse in disputa o in esamine le cose determinate. S’affaticavano molto li imperiali e li francesi appresso il papa e li deputati che fosse chiamato un novo concilio, dicendo che cosí vi sarebbono andati e tedeschi e francesi, e lá poi s’averebbe potuto risolvere che le cose determinate non fossero retrattate; altrimenti era vano il parlar di concilio per ridur protestanti, dando loro occasione sul primo passo di rifiutarlo, con dire di non poter sottoporsi a chi li ha condannati senza udirli. In contrario li spagnoli, e gionto con loro il duca di Fiorenza che si ritrovava in Roma, facevano opera che solo si levasse la suspensione, e si chiamasse continuazione del giá incominciato. Fu eletto dal papa e dalli deputati un conseglio medio, sperando che dovesse sodisfar ambe le parti. Pubblicò il pontefice un giubileo, e lo mandò in tutti i luochi; e a’ 24 egli, a piedi, con solenne processione andò col collegio de’ cardinali e con tutta la corte da San Pietro alla Minerva. La quale incamminata non processe senza confusione, perché li ambasciatori, assegnati a camminar inanzi la croce, vedendo che dopo quella seguivano li vescovi, e dopo essi il duca di Fiorenza in mezzo delli due cardinali minori, volsero quel luoco essi ancora. Onde nacque disordine, per compor il quale, dopo qualche contrasto, il papa diede loro luoco tra sé e li cardinali che lo precedevano.
Il 29 fu pubblicata in consistoro la convocazione del concilio, la bolla della quale era intitolata Della intimazione del concilio tridentino: il vocabolo latino fu indictionis; e in questa forma fu stampata in molti luochi; se ben dopo, quando si stampò il corpo del concilio tutto intiero, si mutò la voce, e fu detto celebrationis.
Il tenor della bolla era: che il pontefice dal principio della sua assonzione applicò l’animo all’estirpazione dell’eresie, all’estinzione delle divisioni ed emenda dei costumi, per remedio de’ qual mali deliberò celebrar un concilio generale; che Paulo III e Giulio per inanzi l’avevano congregato, ma non potuto finire; e narrata la serie delle cose successe sotto quei pontefici, ne ascrive la riuscita a’ vari impedimenti promossi dall’inimico del genere umano, almeno per differir un tanto gran comodo della Chiesa che non poteva a fatto impedire; soggiongendo che tra tanto erano moltiplicate e le eresie e le divisioni. Ma essendo piaciuto a Dio di donar concordia ai re e principi cristiani, per occasione di quella egli era entrato in gran speranza d’impor fine a tanti mali della Chiesa con la via del concilio, la qual non ha voluto piú differire, per levar il scisma e l’eresie, riformar i costumi e servar la pace tra i cristiani. Laonde col conseglio de’ cardinali e avviso di Ferdinando imperator eletto e altri re e principi, quali ha trovati apparecchiati ad aiutarne la celebrazione, per l’autoritá di Dio e dei santi apostoli Pietro e Paulo, intima un general concilio nella cittá di Trento per il dí di Pasca, levata qualonque suspensione, esortando e comandando sotto le pene canoniche a tutti li patriarchi, arcivescovi, vescovi, abbati e altri, che hanno voto deliberativo per legge, privilegio o antica consuetudine, che, non essendo impediti legittimamente, si ritrovino inanzi quel giorno, ammonendo a ritrovarvisi anco quelli che vi hanno o sono per aver interesse. Pregando l’imperator, re e altri principi che, non potendo personalmente intervenire, mandino loro procuratori e operino che i prelati de’ loro domini senza scusa e dimora eseguiscano il loro debito e abbiano libero e sicuro viaggio per loro e per la compagnia, sí come fará egli in quello che potrá; non avendo altro fine nel celebrar quel concilio che l’onor di Dio, la riduzione delle pecorelle disperse e la tranquillitá perpetua della repubblica cristiana: ordinando che la bolla sia pubblicata in Roma, e con quella pubblicazione dopo il termine di due mesi obblighi tutti li compresi, come se fosse loro presenzialmente intimata.
Reputò il pontefice d’aver satisfatto a se stesso, a quelli che volevano intimazione di novo concilio e a quelli che ricercavano continuazione del vecchio; ma, come avviene nelli consegli medi che sogliono dispiacere ad ambe le parti, il pontefice a nissuno sodisfece, come si dirá.
Immediate dopo la pubblicazione della bolla, il papa spedí il Nicheto in Francia con quella, e con commissione che, se non fosse piaciuta la forma, dicesse che non si guardasse alla voce «continuare», perché quella non impediva che non si potesse di novo parlare sopra le cose giá proposte. La mandò anco all’imperatore e in Spagna. Destinò, oltre di ciò, Zaccaria Delfino, vescovo di Liesina, noncio alli principi della Germania superiore, e Giovanni Francesco Commendone, vescovo del Zante, a quelli dell’inferiore, con lettere a tutti, e con ordine di ricever prima instruzione da Cesare come trattar con loro, e poi eseguir l’ambasciata. Destinò ancora l’abbate Martinengo alla regina d’Inghilterra, invitando lei e li vescovi del regno al concilio: cosí persuaso da Edoardo Carno, di sopra nominato, che gli promise il noncio dover esser, anco con il voler della regina, ricevuto dalla metá del regno. E quantunque fosse posto al papa in considerazione che il mandar nonci in Inghilterra e altrove a principi che professavano aperta separazione dalla sede romana non era con riputazione, rispondeva voler anco umiliarsi all’eresia, poiché tutto era condecente a quella sede quel che si faceva per acquistar le anime a Cristo. Per la qual ragione ancora mandò il Canobio in Polonia, con disegno di farlo passar anco in Moscovia e invitar al concilio quel principe e quella nazione, quantunque mai abbia riconosciuto il romano pontefice.
Tornò poi a parlar del concilio in consistoro, ricercando d’esser informato degli uomini litterati, di buona vita e opinione, di diverse provincie, atti a disputare e persuader la veritá; affermando aver animo di mandarne a chiamare molti; promettendo che, dopo aver usata tutta la diligenza possibile per farvi venir tutti li cristiani e unirli nella religione, quando bene alcuni o molti non volessero venire, non era per restar di farlo. Li dava però gran pensiero che li protestanti di Germania, a’ quali era unita gran parte della Francia, averebbono negato di venire, o vero dimandato cose tanto esorbitanti che non arerebbe potuto conceder loro; e dubitava anco che avessero potuto sturbar il concilio con le armi. Né confidava di poter aver aiuto dall’imperator per impedirli, attese le sue poche forze. Confessava che li pericoli erano grandi e li rimedi scarsi, onde stava perplesso nell’animo e travagliato.
Andando la bolla del concilio per Germania, capitò in mano de’ protestanti congregati alle nozze del duca di Lauenburg, quali intimorono una dieta in Naumburg per li 20 gennaro. Contra quella bolla il Vergerlo scrisse un libello, dove, dopo grande invettiva contra le pompe, il lusso e l’ambizione della corte, soggiongeva che il concilio era dal papa convocato non per stabilir la dottrina di Cristo, ma la servitú e oppressione delle misere anime; che in quello non erano chiamati se non li obbligati al papa per giuramento, onde erano esclusi non solo li separati dalla chiesa romana, ma anco li piú intendenti che in quella erano, levata ogni libertá, nella qual sola vi poteva esser speranza di concordia.
Arrivò a Roma in questo tempo nova che il re di Francia aveva impregionato il principe di Condé e posto guardie al re di Navarra, il che piacque molto al pontefice, come cosa che riputava poter disturbar a fatto il concilio nazionale. E tanto piú entrò in ferma speranza di non ricever quel disgusto, poiché si aggionse avviso di gravissima indisposizione del re con pericolo della vita; le quali cose furono causa che non si tennero li Stati a Méaux. Ma terminarono le cose a fine che portò grand’alterazione. Imperocché, essendo passato di questa vita Francesco re di Francia il cinque del mese di decembre, e successo nel regno Carlo IX suo fratello, d’etá d’anni dieci, il governo per la minoritá del re, secondo le leggi regie, cadé principalmente nel re di Navarra, come primo del sangue regio; al quale aderí la regina madre, per sostentar e continuar l’autoritá presa nel governo nella vita dell’altro figlio; e il Navarra si contentò di participar con lei per mantener piú facilmente l’autoritá propria. Navarra favoriva quasi apertamente la nova religione e si governava in tutto col conseglio di Gasparo Coligni armiraglio, che la professava apertamente: onde tanto piú li protestanti presero animo di poter ottenere la libertá di religione che richiedevano. Si diedero a congregarsi quasi pubblicamente e senza alcun risguardo, con molto dispiacere e indignazione della plebe e pericoli di novitá sediziose. Per questo la madre del re e li principali del suo conseglio vennero in resoluzione di tener li Stati in Orliens, e li diedero principio il 13 decembre.
In quelli, tra le altre cose proposte per il beneficio del regno, fu dal cancellier considerato che la religione è potentissima arma, che supera tutti gli affetti e caritá, e lega con piú stretto nodo che tutti gli altri legami della societá umana; che li regni si contengono piú con la religione che con li confini, anzi per la religione piú si dividono che per li confini medesimi; e chi si move dalla religione sprezza moglie, figliuoli e ogni parentato. Se in una medesima casa vi sia differenza di religione, non s’accorda il padre con li figli, né un fratello con l’altro, né il marito con la moglie. Per ovviar a questi disordini esservi bisogno del concilio, del quale il papa dá speranza; ma tra tanto non doversi permettere che ciascuno finga che religione li piace, né introduca novi riti a beneplacito, con turbazione della pubblica tranquillitá. Se mancherá il rimedio del concilio dal canto del papa, il re per altra via provvederá; ma esser necessario prima medicar se stesso, perché la buona vita è un’efficace orazione da persuadere. Doversi levar li vocaboli di luterani, ugonotti e papisti, che non sono meno faziosi che quelli de guelfi e ghibellini, e adoperar le armi contra quelli che coprono l’avarizia, l’ambizione e lo studio di cose nove con nome di religione. Giovan Angelo, avvocato nel parlamento di Bordeos, parlò per il terzo stato: molte cose disse contra li costumi corrotti e la disciplina degli ecclesiastici; notò in loro l’ignoranzia, avarizia e lusso come cause di tutti li mali, e sopra questi discorse assai; e in fine dimandò che al tutto si rimediasse con una presta celebrazione di concilio. Per la nobiltá, Giacomo conte di Roccaforte tra l’altre cose disse tutto il male esser nato per le immense donazioni che li re e altri grandi hanno fatto alle chiese, e massime con attribuirli anco giurisdizioni, cosa molto inconveniente che chi debbe attender alle orazioni e predicazioni eserciti ius nella vita e nelle fortune dei sudditi del re: che a questi inconvenienti era necessario rimediare. E in fine porse una supplica, dimandando per nome della nobiltá che fosse lecito aver pubbliche chiese per esercizio della religione. Per il clero parlò Giovan Quintino borgognone: disse che li Stati si congregano per provveder alle necessitá del regno, non per emendar la Chiesa, che non può fallare, che è senza macchia e ruga, ed eternamente resterá incorrotta, se ben la disciplina in qualche particella ha bisogno di riforma. Però non doversi ascoltar quelli che, rinnovando le sètte sepolte, dimandano chiese separate dai cattolici, ma doverli punir per eretici; ed esser cosa giusta che il re non li ascolti, ma costringa tutti i suoi sudditi a creder e viver secondo la forma prescritta dalla Chiesa; che non sia concesso ritorno a quelli che sono usciti del regno per causa di religione; che si procedi con pena capitale contra li infetti di eresia; che la disciplina ecclesiastica sará facilmente riformata, se siano levate le decime al clero e restituita l’elezione alli capitoli, essendo stato osservato che nel medesimo anno 1517, quando fu per il concordato data la nominazione delle prelature al re, incominciarono anco le eresie di Lutero, che fu poi seguito da Zuinglio ed altri. In fine dimandò che fossero confermate tutte le immunitá e privilegi all’ordine ecclesiastico e levatoli tutte le gravezze.
Il re ordinò che li prelati si mettessero in ordine per andar al concilio che era intimato a Trento; comandò che tutti li prigioni per causa di religione fossero liberati, annullati li processi contra loro formati, e perdonate le transgressioni sino allora commesse, e restituiti li beni. Statuí pena capitale a quelli che si offendessero in fatti o in parole per causa di religione. Ammoní tutti a dover seguitar li riti usitati nella Chiesa, senza introdur alcuna novitá. E si differí il rimanente delli Stati sino al maggio prossimo, quando anco s’avesse a trattar della supplica presentata dal Roccaforte.
Ma udita la morte del re Francesco, insieme con l’avviso del Cardinal di Tornon che la regina s’era congionta col Navarra, fu travagliato il pontefice nell’animo, temendo che non rilasciassero maggiormente la briglia a’ protestanti. Per il che mandò Lorenzo Lenzio vescovo di Fermo, e fu autore che dal re di Spagna fosse mandato Gioanni Manriquez per consolar la regina della morte del figlio e far uffici, pregandola d’aver per raccomandata la religione nella quale era nata ed educata. Si raccordasse dei grandi e supremi benefici ricevuti dalla sede apostolica per mezzo di Clemente, e non permettesse tanta licenza che nascesse scisma, né cercasse rimedi ai mali presenti e imminenti altrove che dalla Chiesa romana; che perciò era intimato il concilio; ma fra tanto ella provvedesse che il regno non s’allontanasse dalla pietá e non fosse fatto pregiudicio alcuno al concilio legittimo intimato.
In questo stato di cose finí l’anno 1560, lasciate le disposizioni di onde ne dovessero seguir molto maggiori. L’anno seguente il Manriquez, giorno in Francia ed esposta la sua credenza, e avuta dalla regina, in materia della religione e del concilio, pia e favorevole risposta, e del medesimo soggetto (secondo che li accidenti porgevano occasione) di novo parlando, esortava continuamente la regina a proceder con supplici contra gli ugonotti, aggiongendo anco alle esortazioni minaccie. A questo si opponeva Navarra, contrario a tutti i disegni spagnoli, per le pretensioni di racquistar il suo regno di Navarra. Convenne il Manriquez con la casa di Ghisa e altri (che avevano li disegni niedesmi di renderlo favorevole alli cattolici, al pontefice e al concilio), proponendoli che pigliasse il patrocinio della religion cattolica in Francia, ripudiasse la moglie Gioanna d’Albret, regina ereditaria di Navarra, come eretica, ritenute con l’autoritá pontificia le ragioni sopra quel regno, da quali ella sarebbe stata dal pontefice dechiarata decaduta per l’eresia; e pigliasse per moglie Maria, regina di Scozia, col qual mezzo averebbe avuto anco il regno d’Inghilterra, spogliata che fosse con l’autoritá pontificia Elisabetta. Alle qual cose quei di Ghisa li promettevano l’autoritá del pontefice e le forze del re di Spagna, gionto che in luoco della Navarra quel re gli averebbe dato in ricompensa il regno di Sardegna. Le qual cose andarono rappresentando con somma arte a quel principe in diverse forme, e con quel mezzo lo tennero in esercizio sino alla morte.