Istoria del Concilio tridentino/Nota

Nota

../Libro ottavo/Capitolo XII ../Indice dei nomi IncludiIntestazione 4 dicembre 2021 75% Da definire

Libro ottavo - Capitolo XII Indice dei nomi
[p. 403 modifica]

NOTA

[p. 405 modifica]


Della massima opera di fra’ Paolo Sarpi la Biblioteca Nazionale di San Marco conserva il prezioso manoscritto: L’Historia del Concilio Tridentino | scritta da Pietro Soave Polano. È un grosso codice cartaceo, di fogli 547 numerati nel recto e nel verso, di mano di fra’ Marco Danzano, uno dei copisti del Sarpi, ma riveduto dall’autore, che vi fece pure numerose aggiunte interlineari e marginali; le cancellature sono quasi sempre dovute a trasposizioni o innesti del dettato. Aggiunte e cancellature sono piú specialmente numerose nei fogli contenenti il primo libro dell ’Istoria, ma si può dire che non vi sia foglio che non serbi copiose tracce della revisione dell’autore. Il codice, giá proprietá del patrizio veneto Zaccaria Sagredo, passò poi alla figlia Caterina Sagredo Pesaro Barbarigo, quindi alla Marciana1.

A stampa, prescindendo dalle numerose traduzioni in latino, inglese, francese, tedesco, possediamo le seguenti edizioni:

I. Historia | del | Concilio | Tridentino | Nella quale si scoprono tutti gl’artificii della Corte di Roma, per impedire | che né la veritá di dogmi si palesasse, né la | riforma del Papato, et della Chiesa | si trattasse; di | Pietro Soave; Polano | In Londra, Appresso Giovati. Billio | Regio Stampatore | MDCXIX.

II. Historia | del Concilio | Tridentino | di | Pietro Soave | Polano. | Seconda editione, riveduta e corretta dall’ | Autore. | MDCXXIX.

Molte copie non recano nessun’altra indicazione tipografica, tranne l’insegna dell’áncora col delfino. In altre trovasi invece l’indicazione del luogo e dello stampatore: In Geneva | Appresso [p. 406 modifica] Pietro Auberto: non piú l’insegna suddetta, ma quella d’una bibbia aperta, cui sovrasta lo Spirito santo in torma di colomba. Si ha pure un’edizione del 1656, con l’indicazione terza edizione; ma è una pura e semplice ristampa.

III. Historia | del | Concilio Tridentino | di Pietro Soave | Polano | Quarta edizione riveduta e corretta dall’Autore. | A Geneve pour Jacques Chonet MDCLX. — Non presenta che differenze d’impaginatura dalla precedente, sicché, in certo senso, si può considerare una ristampa.

IV. Istoria del Concilio Tridentino, da Fra-Paolo Sarpi, dell’ordine dei Servi, con note critiche istoriche e teologiche di Pietro Francesco Le Courayer dottore in teologia dell’Universitá d’Oxforte, e canonico regolare ed antico Bibliotecario dell’Abadia di S. Genovefa in Pariggi. In Londra alle spese dei fratelli de Tournes, MDCCLIVII (Due volumi, con ritratto dell’autore).

V. Nell’edizione delle Opere, Helmstat, per Iacopo Mullero (ma Verona, per Iacopo Moroni) 1761-6S, i due primi volumi contengono l’Istoria .

VI. Nella ristampa delle Opere fatta dall’abate Giovanni Selvaggi (Napoli, 1789-90), i primi 6 volumi contengono l’Istoria, due altri le note del Courayeur.

VII. Istoria del Concilio Tridentino di Frá Paolo Sarpi dell’Ordine dei Servi. Con note. Voll. 7. Mendrisio, per Angelo Borella e comp.i. A spese degli editori, 1835-1836.

VIII. Istoria del Concilio Tridentino di Frá Paolo Sarpi, ridotta alla primitiva lezione, con la vita scritta da Frá Fulgenzio Micanzio. Firenze, Barbèra, Bianchi e comp.i, 1858, 4 voll.

IX. Istoria del Concilio Tridentino di Fra’ Paolo Sarpi, Prato, Giachetti, 1870, 2 voll. (Fedele ristampa dell’ediz. VII).

Sono dunque, nel corso di tre secoli, nove edizioni: numero non scarso, ove si considerino il carattere e la mole dell’opera, nonché le difficoltá frapposte alla sua diffusione. Conviene però subito avvertire che soltanto l’edizione londinese (I) fu condotta sul manoscritto o, con maggior probabilitá, su copia di esso. L’edizione ginevrina (II), per quanto rechi sul frontespizio l’attraente dizione: riveduta e corretta dall’autore, è senza dubbio una derivazione della precedente. Nelle correzioni l’autore non dovette entrarci per nulla, anzitutto per ragioni cronologiche (l’edizione è del 1629, mentre il Sarpi morí nei primi giorni del 1623), poi anche, e piú, pel fatto che in essa continuano a farvi mostra i molti [p. 407 modifica] svarioni che si riscontrano nella londinese e mancano invece nel manoscritto; non figurano inoltre in essa i passi a bella posta omessi o inavvertitamente caduti in quella: cosa inesplicabile se la fonte della nuova edizione fosse stata piú genuina. Ad essa dunque non soltanto fu estraneo l’autore, ma mancò anche il raffronto col manoscritto.

Nel complesso essa è indubbiamente piú corretta della precedente, anche se le correzioni siano spesso molto arbitrarie; però presenta pure numerosi strafalcioni che non figurano nella londinese. Assai probabile mi sembra la congettura del Bianchi Giovini che le correzioni siano opera del Diodati, che si occupò di quella ristampa, dopo aver parecchi anni prima curata pure la traduzione francese dell’Istoria. All’edizione del 1629 si attenne di preferenza il Courayeur nella sua del 1757, che è certo la ristampa condotta con maggior cura, ed alla quale hanno fatto capo anche le successive, fino a quella curata dal Barbèra, che ritornò alla londinese. Resta quindi comprovato, anche dal piú superficiale raffronto delle varie stampe col manoscritto, che soltanto la prima è condotta su questo, mentre le altre derivano piú o meno fedelmente da quella; e che le correzioni introdotte nelle ristampe, ben lungi dal risalire all’autore o ad un raffronto col manoscritto, sono opera arbitraria e di solito poco oculata dei vari editori.

Conosciamo le vicende della pubblicazione dell’Istoria soprattutto per la notizia che ce n’ha lasciata, nella lettera con cui ne dedicava la stampa al re Giacomo d’Inghilterra, il suo primo editore, il prelato dalmata Marcantonio De Dominis nota. Fatto

2 [p. 408 modifica] vescovo di Segna (Zengg), poi arcivescovo di Spalato (dopo essere uscito dalla Societá dei gesuiti), il De Dominis, durante la lotta fra Venezia e la santa sede, parteggiò, o per lo meno simpatizzò per la Serenissima, il che a Roma non gli venne perdonato e gli fu d’ostacolo a salire a gradi piú alti. Valido propugnatore della riforma ecclesiastica, si guadagnò l’avversione del clero dalmata, che l’accusò alla curia romana d’essere incline al protestantesimo. Perciò, temendo i fulmini del sant’uffizio, nel 1616 passò

[p. 409 modifica] a Venezia, dove rimase circa un anno, avendo occasione di frequentarvi il Sarpi, col quale giá prima aveva tenuto relazione epistolare. Fu allora che il Sarpi diede a leggere, per averne un giudizio, la sua Istoria al De Dominis, il quale ne approfittò per trarne o farne trarre copia. Partito improvvisamente da Venezia, dopo un breve soggiorno in Svizzera ed in Germania, fissò la sua dimora a Londra, dove passò apertamente al protestantesimo, facendo pubblica abiura dell’avita fede nella cattedrale di S. Paolo3. [p. 410 modifica] Ed alla causa protestante volle indubbiamente recare valido contributo, pubblicando nel 1619 la Istoria del Sarpi, mascherando l’autore sotto l’anagramma di Pietro Soave Polano (Paolo Sarpi Veneto), anagramma che non dovette però essere combinato da lui, se appare nella prima pagina del manoscritto, di mano del Fanzano. Al semplice titolo apposto dall’autore il De Dominis fece seguire le parole c nella quale si scoprono ecc....», in cui sono giá poste in evidenza, piú che il carattere dell’opera, le intenzioni antipapali dell’editore, ribadite poi con tono anche piú aspro nella lettera dedicatoria al re. Questa reca la data del 1° gennaio 1619, ma l’opera dovette certamente uscire parecchi mesi piú tardi4. Della disapprovazione del Sarpi alla pubblicazione resta precisa testimonianza non soltanto nelle notizie dei suoi biografi, ma anche nella lettera scritta in suo nome al De Dominis da fra’ Fulgenzio Micanzio, pochi giorni innanzi che fosse noto il decreto con cui l’opera veniva messa all’indice, lettera della cui autenticitá non mi sembra sia da dubitarsi5. [p. 411 modifica]

Quanto possano aver contribuito, all’avversione della curia romana per l’Istoria, e la persona dell’editore e la presentazione schiettamente antipapale, non è qui il luogo d’indagare. Ci preme invece, poiché dall’edizione londinese derivarono le altre, di vedere fino a qual punto essa si conservi fedele al manoscritto.

Tale problema s’era giá proposto uno dei piú benemeriti cultori della letteratura veneziana, il Foscarini, il quale, esaminando il codice, osservò ch’esso «cammina d’accordo onninamente colle stampe di Londra, toltone il titolo»6. Non ne rimase persuaso, piú tardi, il Griselini, il quale, dopo aver nelle sue Memorie aneddote espresso il desiderio che si raffrontasse nuovamente il testo a stampa col manoscritto7, posteriormente credette di poter affermare: «Collazionando il codice, rilevasi che, in luogo di camminare onninamente d’accordo co’ medesimi [testi a stampa], procede tutt’al contrario, senza contare le differenze di ortografia, o i cambiamenti di parole in altre analoghe. Quelle tra esse differenze che sono notabili consistono in patenti interpolazioni, e queste, massime nel primo libro, in tanto numero fin a mancare il sito per notarle ne’ margini delle pagine corrispondenti di uno degli esemplari stampati, che fu sacrificato a questa collazione. In somma non v’ha luogo interessante d’ogni libro dell’opera, ove l’interpolatore non abbia messa l’ardita e temeraria penna»8.

Di fronte ad affermazioni cosí antitetiche, era naturale che il Bianchi Giovini, quando volle procedere alla ristampa dell’Istoria per gli editori di Mendrisio, desiderasse di vederci chiaro. Rivoltosi perciò a Bartolomeo Gamba, bibliotecario della Marciana, dalla risposta che n’ebbe credette di poter concludere che «il De Dominis ha stampato fedelmente il suo testo: le varianti tra esso e lo scritto non essendo che pentimenti dell’autore, una parola sostituita ad altra analoga, una frase ad altra frase, senza che

[p. 412 modifica] importi danni al sentimento9». Perciò il Bianchi Giovini, pure riconoscendo che un’edizione veramente buona non si sarebbe potuta condurre che a Venezia, mediante un accurato raffronto delle stampe col manoscritto, s’accontentò, pago delle assicurazioni del Gamba, di riprodurre l’edizione del 1757, tenendo presente anche la londinese del 1619.

Analogo scrupolo condusse ad analoga richiesta il Barbèra, quando si accinse alla ristampa del 1858. «Persone autorevoli di Venezia (egli avvertiva), Agostino Sagredo ed Emmanuele Cicogna, mi assicurarono per lettera che nessuna variante notabile avevano trovata nel saggio di lettura dell’autografo, fatto a riscontro della mia stampa»10. Perciò anche questa volta l’Istoria venne ripubblicata «ridotta alla primitiva lezione», ossia... all’edizione londinese. E sarebbe giá stato qualche cosa. Ma amore al vero ci obbliga di soggiungere che la ristampa fu condotta con assai poca cura, sicché in essa non soltanto continuano ad aver cittadinanza moltissimi errori della londinese, ma s’incontrano pure grossolani errori nuovi, intere frasi cadute nella composizione, sostituzione di parole. Le correzioni stesse lasciano molto a desiderare, spesso peggiorano la primitiva lezione. Concludendo, tutte le ristampe dell’Istoria presentano le dannose conseguenze di due gravi errori: essersi gli editori accontentati della stampa londinese, nella persuasione ch’essa fosse fedele al dettato sarpiano; avervi introdotto (oltre a strafalcioni involontari) correzioni arbitrarie, che spesso peggiorano quel testo, giá di per sé tanto scorretto.

Sorge qui spontanea una domanda nei riguardi della sempre affermata identitá fra il manoscritto e la stampa londinese. Trattasi di affermazione sincera e comprovata? Non è da dubitarsi che un raffronto, sia pure saltuario, del manoscritto con le stampe quei valentuomini non trascurassero; ma resta sempre strana l’insistenza con cui (nonostante le discrepanze sulle quali era impossibile che sorvolasse il loro criterio filologico, anche se assai piú [p. 413 modifica] indulgente del nostro) si affermava, quasi per una parola d’ordine, l’identitá fra il manoscritto e le stampe e l’inutilitá d’un ulteriore, preciso raffronto. Non credo quindi sia azzardato il pensare che quell’affermazione servisse ad allontanare dal codice la curiositá indagatrice degli studiosi, per motivi non certo letterari. L’opera, venuta alla luce con sí grave scandalo e colpita pochi mesi dopo dalla condanna all’indice, ha tutta una storia di costanti ed aspre avversitá da parte della Chiesa. Le varie edizioni, per ben due secoli, si seguono sempre in paesi non cattolici; persino quella uscita nel territorio della Serenissima maschera il luogo di stampa (Verona) con altro straniero (Helmstat). Conviene giungere alla fine del Settecento perché, nella patria del Giannone, nel fervido periodo delle riforme politiche rivolte a circoscrivere l’ingerenza religiosa, l’abate Selvaggi pensi liberamente ad una ristampa del Sarpi. Ma anche questa edizione suscitò le proteste dell’autoritá ecclesiastica, sicché una parte dell’opera usci clandestinamente; e piú tardi, quando, per reazione agli eccessi rivoluzionari di Francia, di fronte al comune pericolo, Roma ed il Regno si riaccostarono, la vendita dell’opera fu sospesa e ne vennero sequestrati molti esemplari, non senza propinare anche l’antidoto d’una ristampa dello Sforza Pallavicino.

Difficoltá non meno gravi incontrò, alcuni decenni dopo, l’edizione di cui fu anima il Bianchi Giovini. Era sua intenzione che la Tipografia Elvetica di Capolago, di cui egli era magna pars, ristampasse l’Istoria ed altri scritti del Sarpi (egli vi aveva giá curata una scelta di lettere inedite)11. Sennonché, avutone sentore l’austriacante e intollerante vescovo di Como, monsignor Carlo Romanò (il suo nome ci richiama l’eroica figura del Dottesio), tanto egli si adoperò presso l’amministratore capo dell’Elvetica, che questa dovette rinunziare all’iniziativa. Ma altri della tipografia medesima, costituita una fittizia «societá di persone amiche delle lettere», se ne assunsero l’impresa, affidando la stampa dell’opera alla tipografia Borella di Mendrisio. Questa volta il vescovo ricorse al Consiglio di Stato di Ticino perché impedisse la ristampa del Sarpi12; ma quel Consiglio, dopo avere risolto in un primo [p. 414 modifica] momento d’intimare al tipografo la sospensione della stampa, lasciò poi fare, trincerandosi dietro una sottile interpretazione della legge, in quanto questa vietava non la stampa, ma la pubblicazione di scritti dall’autoritá ecclesiastica ritenuti criminosi13. Cosí l’Istoria rivide la luce; e, una volta stampata, non era certo la Tipografia Elvetica che mancasse dell’abilitá necessaria a diffonderla! Monsignore volle prendersi la magra rivincita di fare ristampare pure in Mendrisio la storia dello Sforza Pallavicino, «e obbligò (c’informa il Bianchi Giovini) i preti della sua diocesi a comperarla, perseguitando quelli che vi preferivano la Storia del Sarpi, abbenché monsignore per mantenersi piú imparziale non abbia letto né l’una né l’altra»14. Da parte sua l’Austria classificò l’opera del frate servita con l’erga schedam e dispose che si negasse il permesso di ristamparla agli editori lombardoveneti che eventualmente ne facessero richiesta.

Quanto alla ristampa promossa dal Barbèra (eppure abbiamo giá varcata la metá dell’Ottocento!) basti ricordare che l’editore fu trascinato addirittura in giudizio. Difatti, su istanza dell’arcivescovo di Firenze, monsignor Umberti, la camera di consiglio di quel tribunale ritenne che, essendo l’opera del Sarpi ex professo di argomento religioso, doveva il tipografo presentarla alla censura preventiva dell’ordinario. Dopo un lungo ed appassionato dibattito il Barbèra otteneva l’assoluzione, in quanto il tribunale giudica l’opera del Sarpi non ex professo religiosa, ma storia civile15.

Considerando adunque questa costante ostilitá all’Istoria, non sembrerá arrischiato di affermare che la ripetuta assicurazione sull’inutilitá dei raffronti col codice servisse a mascherare la precisa volontá dell’autoritá politica o religiosa, o di tutt’e due, che il manoscritto non fosse lasciato agli studiosi, o per timore che dovesse balzarne qualche poco lieta sorpresa, o per lo scrupolo di non prestarsi in nessun modo a favorire interesse e fervore di studio intorno al dannato scrittore. Che se una precisa [p. 415 modifica] disposizione in tal senso non fu mai emanata, allora si dovrá pensare che la cautela provenisse da chi aveva in custodia il manoscritto, per timore di buscarsi osservazioni, noie, rimproveri dalle vigili autoritá. Si poteva pur sempre muovere ai custodi il rimprovero che lo scandalo d’una nuova edizione non si sarebbe avuto, se non si fosse messo a disposizione degli studiosi il codice: negandolo, si poteva sempre sentirsi tranquilli nella coscienza di non avervi in nessuna maniera contribuito. Fatto sta che il primo libero esame del prezioso manoscritto si ebbe soltanto nel 1892, ad opera di Emilio Teza, il quale indubbiamente degli impedimenti frapposti nel passato dovette avere precisa nozione, se potè parlare di «servitori che anche sui vecchi libri dei liberi ingegni vigilavano con la frusta in mano e le chiavi», ed affermare: «Con quanta gelosia era tenuto chiuso questo prezioso volume con quale sospetto non si guardavano i curiosi che interrogassero la voce possente del Consultore!»16.

*

*  *

Anche il Teza, accingendosi a studiare il manoscritto, si pose subito il problema della fedeltá delle stampe ad esso. Assaggi in varie parti dell’opera ed un paziente raffronto dei primi capitoli lo condussero a negar fede sia alle profonde differenze affermate dal Griselini come all’identitá fra codice e stampe asserita dagli altri. Il completo raffronto da me eseguito per la presente edizione non può che confermare le conclusioni del Teza. Risponde al vero che il De Dominis non vi ha fatto né soppressioni, né interpolazioni, né variazioni che intacchino sostanzialmente l’opera del Sarpi, ad eccezione di alcuni passi, dove appare precisa l’intenzione di sopprimere o modificare17. Viene quindi fatto di [p. 416 modifica] credere che il Griselini, quando parlava di aggiunte e interpolazioni del De Dominis, abbia scambiate per tali le numerose correzioni ed aggiunte interlineari e marginali che, come s’è accennato, risalgono tutte all’autore, sono anzi in parte autografe. Per il contenuto, quindi, si può ammettere che la stampa ed il manoscritto non presentino sostanziali differenze, e cadono perciò i timori (o le speranze) che questo potesse serbare qualche sorpresa. Ma da questo ad affermare l ’identitá fra le stampe ed il manoscritto troppo ci corre! V’è in primo luogo tutta una congerie di errori materiali, dovuti parte all’imperizia che della nostra lingua dovevano avere gli stampatori, parte alla negligenza del De Dominis, al quale pure risale la responsabilitá di non poche correzioni che, introdotte per chiarire il testo, ne deturpano il senso; se pure non si preferisca incolparne, in tutto o in parte, chi trasse copia del manoscritto. Sostituzione di voci, caduta di parole o d’intere frasi nella composizione, spostamenti a capriccio, come numerarli? Si può dire che ogni pagina ne abbia, e si può quindi comprendere come l’Istoria ne sia uscita malconcia.

Ma il brutto servizio reso al Sarpi non si limita a questo. Ho giá ricordato che il manoscritto è opera di fra’ Marco Fanzano: senza dubbio egli ora copia da altro scritto, ora scrive sotto dettatura, ché certi errori, certe sviste sono assai piú comprensibili in chi scrive un dettato, che in chi copia (ad esempio la caduta di lettere che nella pronunzia si fondono: andava numerando per andavan numerando’). Anche le aggiunte di mano del Fanzano ci lasciano assai spesso l’impressione che si tratti di parti dimenticate o direttamente dal trascrittore o da chi detta riordinando la materia: ed alla medesima causa penso risalgano i tagli, le trasposizioni, le aggiunte di fogli, le parti di fogli o i fogli lasciati in bianco. Ma il manoscritto, come s’è giá detto, fu poi sottoposto dall’autore ad una completa revisione, e di sua mano sono parecchie aggiunte e le numerosissime correzioni. Le aggiunte tendono spesso a meglio coordinare le parti della narrazione, talvolta dilucidano un particolare, oppure recano qualche notizia storica, qualche elemento nuovo; ma piú spesso sono giudizi rapidi, [p. 417 modifica] suggeriti dalla lettura. Si direbbe che, rivedendo l’Istoria, forse a distanza di tempo dalla composizione, una visione piú complessiva e comprensiva dei fatti, una piú matura esperienza facessero cogliere all’autore aspetti nuovi e gli suggerissero quei giudizi rapidi, incisivi, alle volte mordaci, altre volte pieni d’un’ironia blanda o di filosofica serenitá, che denotano però non soltanto il persistere, ma il rafforzarsi, con gli anni, del suo atteggiamento critico di fronte al concilio ed alla curia romana. Il fatto meriterebbe una piú minuta analisi, che ci porterebbe troppo lontani dagli scopi e dai limiti della nota presente.

Quanto alle correzioni, consistono specialmente in sostituzioni di parole che meglio precisino il pensiero; pochissime sono di carattere grammaticale od ortografico. Il Sarpi infatti non è uno scrittore che si preoccupi di raffinatezze stilistiche: egli bada ad essere chiaro e preciso, non cerca di piú. Aggiungerò che il raffronto tra le parti di mano del copista e quelle autografe non dimostra diversitá ortografiche, sicché possiamo — è un fatto che conviene tener presente — con tranquillitá ammettere che il manoscritto rispecchi la grafia dello scrittore. Ora proprio in questo campo il De Dominis ha creduto di compiere opera meritevole ritoccando quasi ad ogni riga, sostituendo voci che gli sembrassero piú consone alla lingua letteraria, correggendo di proprio arbitrio i troncamenti delle parole, il giro della frase o del periodo, illudendosi di dare in tal modo al dettato del Sarpi un andamento piú aulico, di accostarlo ai modelli cinquecenteschi. Questo assiduo lavoro di ritocco è appunto il peggior servizio reso al Sarpi dal suo editore: linguisticamente, stilisticamente l’edizione londinese (e quindi le altre) rappresenta una deturpazione del dettato sarpiano. Si veda a qual grado di racconciatura può abbandonarsi il De Dominis:

Edizione 1619 Edizione nostra (sul ms.)
Il noncio non restò sodisfatto di questa risposta, e venne in resoluzione di replicare. E prima quanto alla causa, perchè non si fosse eseguita la sentenza del papa, e l’editto dell’imperatore contra Lutero, disse non sodisfare la ragione allegata, che si fosse restato per fugir i scandali, non convenendo tolerar il male, acciò ne venga il bene, e dovendo tenere piú conto della salute dell’anime, che della tranquillitá mondana. Aggionse, che non si dovevano scusar i seguaci di Lutero, colli scandali, e gravami della corte romana: perché se ben fossero veri, non però si dovean partire dall’unitá cattolica, ma piú tosto sopportar pazientissimamente ogni male. Onde li pregava per l’esecuzione della sentenza, e dell’editto inanzi, che la dieta si finisse: e se la Germania è in alcun conto gravata dalla corte romana, la sede apostolica sarebbe pronta di sollevarla. E se vi fossero discordie tra gli ecclesiastici e i prencipi secolari, il pontefice le componerebbe, e estinguerebbe. Quanto alle annate, altro non diceva per all’ora, poiché opportunamente sua Santitá averebbe dato risposta. Ma quanto alla domanda del concilio, replicò, che sperava non dover dispiacer a sua Santitá, se avessero domandato con parole piú convenienti, e però ricercava, che fossero levate tutte quelle, che potessero dar qualche ombra alla Beatitudine sua. Come quelle parole, che il concilio fosse convocato col consenso della Maestá Cesarea, e quelle altre, che il concilio fosse celebrato piú in una cittá, che in un’altra. Perché se non si levavano, pareva che volessero legar le mani alla Santitá Sua, cosa che non averebbe fatto buon effetto. Quanto a’ predicatori, ricercò, che si osservasse il decreto del pontefice, che per l’avvenire nissuno potesse predicar, se la dottrina sua non fosse esaminata dal vescovo. Quanto a gli stampatori e divulgatori de’ libri; replicò, che in nissun modo gli piaceva la risposta; che dovessero eseguir la sentenza del papa, e dell’imperatore, che i libri si abbrugiassero, e fossero puniti i divulgatori d’essi, instando e avvertendo che in quello stava il tutto. E quanto a’ libri da stamparsi, si dovesse servare il moderno concilio lateranense. Ma quanto a i preti maritati, la risposta non gli sarebbe dispiaciuta, s’ella non avesse avuto un aculeo alla coda, mentre si diceva, che se commetteranno qualche scelleratezza, saranno puniti da i prencipi o potestá. Perché questo sarebbe contra la libertá ecclesiastica, e si metterebbe la falce nel campo d’altri, e si toccarebbono quelli, che sono riservati a Cristo. Conciosia cosa che non dovevano i prencipi presumer di creder, che per l’apostasia si divolvesserò alla loro giurisdizione: né potessero esser castigati da loro degli altri delitti; imperoché restando in loro il carattere, e l’ordine, sono sempre sotto la potestá della Chiesa; né possono far altro i prencipi, che denonciarli a’ loro vescovi e superiori, che li castighino. Concludendo in fine, ricercarli ad aver sopra le suddette cose piú matura deliberazione, e dar risposta megliore, piú chiara, piú sana e meglio consultata. Il nuncio non restò sodisfatto di questa resposta e venne in resoluzione di replicare. E prima, quanto alla causa perché non fosse eseguita la sentenzia del papa e l’editto dell’imperator contra Lutero, disse non satisfare la ragione allegata che si fosse fatto per fuggir li scandali, non convenendo tollerar il male acciò ne venga bene, e dovendo tenir piú conto della salute delle anime che della tranquillitá mondana. Aggionse che non si dovevano scusar li seguaci di Lutero per li scandali e gravami della corte romana; perchè se ben fossero veri, non si debbe perciò partire dall’unitá cattolica, ma piú tosto sopportar pazientissimamente ogni male. Per il che li pregava dell’esecuzione della sentenzia e dell’editto, inanzi che la dieta si finisse: e se la Germania è in alcun conto gravata dalla corte romana, la sede apostolica sará pronta di sollevarla; e se vi sono discordie tra gli ecclesiastici e li prencipi secolari, il pontefice le componerá ed estinguerá. Che quanto alle annate, altro non diceva per allora, poiché opportunamente Sua Santitá averebbe dato resposta; ma quanto alla domanda del concilio, replicò che sperava non dover despiacer a Sua Santitá se l’avessero domandato con parole piú convenienti, e però ricercava che fossero levate tutte quelle che potessero dar qualche ombra alla Beatitudine sua; come quelle parole, che il concilio sia convocato col consenso della Maestá cesarea; e quelle altre, che debbia esser libero e che debbiano esser relassati i giuramenti, e il concilio sia celebrato piú in una cittá che in un’altra; perché, se non si levino, parerá che voglino legar le mani alla Santitá sua; cosa che non fará buon effetto. Quanto alti predicatori, ricercò che si osservasse il decreto del pontefice che per l’avvenire nessun potesse predicar, se la dottrina sua non fosse esaminata dal vescovo. Quanto alli stampatori e divulgatori de’ libri, replicò che in nissun modo le piaceva la risposta; ma che dovessero eseguir la sentenzia del papa e dell’imperatore; che i libri si abbruciassero e fossero puniti li divulgatori di essi: instando ed avvertendo che in questo sta il tutto. E quanto alli libri da stamparsi, si debbia servar il moderno concilio lateranense. Ma quanto alli preti maritati, la risposta non li dispiacerebbe se non avesse un aculeo nella coda, mentre si dice che se commetteranno alcuna sceleratezza saran puniti dalli prencipi o potestá; perchè questo sarebbe contra la libertá ecclesiastica, e sarebbe metter la falce nel campo d’altri e toccar quelli che sono reservati a Cristo. Conciossiacosaché non debbono li principi presumer di credere che per l’apostasia si devolvino alla loro giurisdizione, né possino esser castigati da loro degli altri delitti; imperocché restando in loro il carattere e l’ordine, sono sempre sotto la potestá della Chiesa, nè possono far altro li principi che denonciarli ai loro vescovi e superiori che li castighino; concludendo in fine che li ricercava ad aver sopra le medesime cose piú matura deliberazione, e dar risposta megliore, piú chiara, piú sana e meglio consultata.
[p. 418 modifica] [p. 419 modifica]

Questo specialmente nel primo libro, ma anche negli altri la mania correttiva del De Dominis non conosce tregua, teso ogni suo sforzo a dare la vagheggiata forma letteraria allo storico veneziano. Invero anche il Sarpi, scrivendo, ha l’occhio fisso ai grandi scrittori cinquecenteschi, ma chi legga s’accorge subito [p. 420 modifica] che, per usare la felice immagine del Teza, «due ondate sviano la barca che verrebbe diritta da Toscana, la latina e la veneta». Errore del De Dominis fu appunto quello di volere raddrizzar la barca. Il Sarpi, sebbene entrato ormai nella grande corrente italiana, non ha potuto distruggere in sé l’eco di quel dialetto che quotidianamente usava e che era ben piú che un dialetto, avendo tutta una gloriosa tradizione ed un riconoscimento ufficiale nella molteplice vita della Serenissima. Chi abbia l’orecchio esperto della parlata veneziana, coglie subito nel dettato del nostro storico come un naturale, inconfondibile riflesso di essa, coglie un ritmo tutto particolare. Le modificazioni introdotte dal De Dominis non solo non raggiungono lo scopo ch’egli si è proposto (sorte comune a tutti i correttori) ma distruggono la naturalezza, la spontaneitá, il ritmo di quella prosa. Possiamo aprire a piacere l’Istoria, anche nelle parti meno tormentate, e dal raffronto tra il raffazzonamento londinese e il genuino dettato sarpiano apparirá luminosa la veritá di quanto si è detto.

*

*  *

Da quanto sono venuto esponendo risulta chiaro che, accingendomi alla ristampa dell 'Istoria, non mi restava che far capo al manoscritto marciano, il quale rappresenta fedelmente la intenzione dell’autore. Il Bianchi Giovini vuol vedere nel libro VIII una minore finitezza, una certa fretta a paragone degli altri. Non mi pare. Indubbiamente gli ultimi libri non sono cosí tormentati di correzioni come il primo, ma non si può parlare di trascurataggine o stanchezza: si direbbe piuttosto, anche dall’esame del manoscritto, che per gli ultimi libri la copiatura o dettatura sia avvenuta di sur un testo giá meglio definito e corretto. Per l’VIII in particolare, anziché di minor cura, si riporta l’impressione d’una maggiore rapiditá e scorrevolezza, appunto perché, come avverte l’autore, superate le maggiori difficoltá, gli avvenimenti nel concilio precipitano e lo storico può procedere piú spedito. La narrazione, lungi dal soffrirne, acquista di efficacia e di vita. Soggiungerò che assai probabilmente era intenzione del Sarpi di condurre la narrazione piú oltre, trattando anche degli avvenimenti posteriori alla fine del concilio ma ad esso strettamente collegati, metodo seguito, si può dire, da tutti gli storici del concilio tridentino. Può esserne indizio il fatto che l’autore [p. 421 modifica] accenna verso la fine (III, p. 390) ad avvenimenti su cui promette di ritornare, mentre piú non ne parla; inoltre, in corrispondenza all’inizio dell’ultimo capitolo della nostra edizione, il manoscritto reca in margine, cancellata, l’indicazione: Della Istoria ecc .... Libro IX, che non si comprenderebbe, se prima e costante intenzione del Sarpi fosse stata di non andar oltre le poche pagine che ancora rimangono dopo quell’indicazione. La chiusa stessa dell’opera appare asciutta e fredda.

Al manoscritto mi sono dunque attenuto, limitandomi a correggere gli errori materiali (nel complesso scarsi, data la mole dell’opera), attribuibili quasi sempre a sviste o fraintendimenti del copista, e sfuggiti alla revisione dell’autore. Nessuna correzione, si capisce, vi ho introdotto di carattere storico. Devo però avvertire che parecchi errori, soprattutto di nomi propri e di date, che si riscontrano nella prima edizione e vengono spesso corretti nelle successive, non figurano nel manoscritto; qualche altro risale a mutazioni o aggiunte degli editori, che anche in ciò quindi hanno malamente servito il loro autore18 . Al quale perciò va tolta la responsabilitá, non certo di tutti, ma di molti degli errori che con tanto scalpore gli vennero rimproverati dai suoi avversari, specialmente dallo Sforza Pallavicino. Anche lo studio diretto del manoscritto contribuisce quindi ad un piú esatto giudizio sulla veridicitá dello storico. Non è qui certo il luogo di risollevare la tanto dibattuta questione, che richiederebbe troppo lungo discorso: mi sembra però indubbio ch’essa, ripresa servendosi del copiosissimo materiale messo in luce19, non potrá che risolversi con elementi a favore del Sarpi.

Nella trascrizione ho sempre rispettato le forme grammaticali ed ortografiche peculiari allo scrittore, senza però violare i criteri [p. 422 modifica] generali della presente collezione. Devo particolarmente avvertire che l’uso della doppia consonante è quanto mai instabile nel manoscritto, cosí nelle parti stese dal Fanzano come in quelle autografe: imprecisione dovuta sia all’influsso del latino, sia alla pronuncia veneziana, sia (e forse piú) allo sforzo di reagire a questa. È una instabilitá di cui né il Sarpi né il copista menomamente si preoccupano, sicché non è raro di trovare persino in una medesima riga la duplice grafía d’una stessa parola. Valgano alcuni esempi: abondanza, abbondanza; alongare, allongare; autoritá, auttoritd; ariso, avviso; catolico, cattolico; comodo, commodo; dechiarare, decchiarare; difesa, difesa; difetto, difetto; difinire, diffinire; disegno, dissegno; dopo, doppo; dubio, dubbio; eccitare, eccittare; eleggere, elleggere; esatto, essai lo; esempio, essempio; eseguire, esseguire20; facia, faccia; frate, fratte; fugire, fuggire; legere, leggere; moto, motto (movimento); motto, moto (parola); mezo, mezzo; orecchio, orrecchio; obligo, obbligo; offerire, offerrire; pregione, preggione; querele, querelle; ragione, raggione; riforma, riforma; tirare, tirrare;... e si potrebbe continuare per pagine e pagine. Poiché dalla conservazione di questa duplice grafia nulla avrebbero guadagnato la chiarezza ed armonia del dettato, ho creduto sano criterio filologico e pratico attenermi costantemente alla forma piú corretta e tradizionale (sempre del resto largamente usata anche dal Sarpi accanto all’altra), rispettando le due grafie soltanto quand’esse abbiano tutta una tradizione letteraria e conservando quelle particolaritá grafiche che si risolvono in una vera modificazione della parola e possono quindi considerarsi peculiari all’idioma del Sarpi21.

Un’ultima avvertenza. L’Istoria è divisa nel manoscritto in otto libri e reca in margine le indicazioni cronologiche dei fatti. Manca invece la divisione in brevi capitoli, che appare per la prima volta nell’edizione del Courayeur, e che, oltre ad essere spesso fatta con assai poca opportunitá, ha il torto di sminuzzare una narrazione cosí poco adatta ad un eccessivo frazionamento. L’abbiamo perciò sostituita con altra che offre maggiore [p. 423 modifica] organicitá ed unitá, facendo precedere a ciascun capitolo un sommario e le indicazioni cronologiche. Né cure meno pazienti sono state rivolte all’indice dei nomi, si da renderlo non un semplice elenco, ma qualche cosa di praticamente utile al lettore.

M’ero proposto, in un primo momento, di chiudere la presente nota con l’elenco dei passi nei quali il testo sarpiano finora conosciuto, dal raffronto col manoscritto, dalla paziente e non sempre facile revisione e correzione (la materia è non di rado astrusa), dalla cura impiegata nella punteggiatura, risulta trasformato, chiarito, ripristinato nel suo vero senso. Ma poi mi parve di non vederne l’opportunitá: si tratterebbe in certo qual modo di rifare tutto il cammino, i cui risultati appaiono, si può dire, ad ogni pagina della presente ristampa, se ristampa si voglia considerarla, o non piuttosto, a tre secoli dalla surrettizia pubblicazione, come la prima, in cui l ’Istoria del grande consultore si presenta col suo vero volto e nella sua piena integritá.

G. G.

    predicare. Ultimamente in una predica negò il Purgatorio, ma confessò esservi un certo loco, ove l’anima doppo l’uscita dal corpo va fermarsi senza pattire sino al giorno del giudicio, sopra di che il Re si scandalizò e disse che quello era concetto heretico. Hor il detto Spalato scrive contro il S.mo Sacramento dell’eucharestia (negando la transustanziazione) et altre heresie per farsi credere novo eresiarca, che però non piace alli Vescovi, che cominciano ad odiarlo.» (In A. Luzio: Fra Paolo Sarpi, Documenti inediti dell’Arch. di Stato di Torino, in Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino, voi. LXIII, pp. 24-60).

  1. Cfr. C. Frati e A. Segarizzi, Catalogo dei codici marciani italiani, Modena, 1909, vol. II, p. 261.
  2. «Al serenissimo e potentissimo prencipe Giacopo, della Gran Brettagna primo re e monarca: re parimente di Francia e d’Irlanda, defensore della fede ec. —
    Sacra Maestá — Nel dipartirmi d’Italia per ricoverarmi sotto l’augusto manto della clemenza vostra, procurai d’aver copia, per quanto a me fu possibile, di varie composizioni delli piú elevati spiriti ch’in quella nobilissima provincia in grande numero fioriscono: di quelle però che e alla mia professione principale appartengano, e alla Maestá vostra, come vero defensore della vera cattolica fede, potessero essere grate. Non mancano in Italia, Sire, ingegni vivaci, liberi in Dio, e dalla misera cattivitá coll’animo sciolti, i quali con occhio puro e limpido veggono gl’imbrogli che ivi si trappongono alle cose della santa religione: s’accorgono troppo delle frodi e inganni, co’ quali, per mantenersi nelle grandezze temporali, la corte di Roma opprime la vera dottrina cristiana, induce falsitá e menzogne per articoli di fede; e l’armi giá date dallo spirito di Cristo alla sua santa Chiesa, perché le servano a defesa e all’espugnazione dell’eresie e abusi, converte ella all’oppressione di essa Chiesa, per farsela schiava sotto a’ piedi. Servirono giá i sacri concili per iscoprire gli errori, gli abusi e le falsitá; ma negli ultimi secoli, dopo che li pontefici romani cotanto s’ingrandirono, facendosi de ministri e servitori, patroni e monarchi della Chiesa, temendo d’essere appunto nelli sacri concilii ricoperti per quello che sono, e anco reformati e ridotti a quello che devono essere, con invenzioni e stratagemmi diabolici hanno o sbanditi e estinti i veri concili, o guasti e corrotti, e anco oppressi quelli che talvolta col loro sforzato consenso si sono radunati, ovviando con maravigliose arti, fraudolenze e violenze ancora che tali concili non potessero cercar la veritá, ma all’incontro servissero a loro di mezzo d’accrescere tanto piú la loro grandezza, e d’opprimere affatto la libertá di santa Chiesa. Ciò s’è veduto chiaramente nell’ultimo concilio di Trento, il quale per tanto legittimo, puro e santo a noi viene essere venduto, e pure tutto fu pieno di frodi, artifici umani, passioni, sforzi, violenze e inganni, nella presente Istoria diligentemente scoperti e minutamente raccontati. Deve in vero attribuirsi piuttosto alla gran forza della veritá e alla disposizione della divina provvidenza, che ad umano consiglio, che un’opra tale dovesse uscire dalle mani di persona nata e educata sotto l’obedienza del pontefice romano. Io ho conosciuto l’autore, persona in vero di molta erudizione, di gran giudicio e integritá, e di rettissima intenzione: dimostrava in sé zelo sincerissimo che le discordie ecclesiastiche si componessero: in quella cattivitá serviva in modo che però piú colla retta conscienza che col comune consueto si regolasse. E se bene non udiva volentieri le soverchie depressioni della chiesa romana, nondimeno aborriva anco quelli che gli abusi d’essa, come sante instituzioni, defendessero: e nel rimanente era della veritá amico singolare, e d’essa tenacissimo; onde professava senza rispetto alcuno quella, dovunque ella fusse, doversi ricevere e abbracciare. Questa sua fatica, a me e a pochissimi di lui molto confidenti nota, reputai io degna d’essere guidata alla luce, onde m’affaticai non poco per cavargliene copia dalle mani; e avuta questa preciosa gioia, da lui poco stimata, non ho giudicato doversi ella piú tener occulta, quantonque io non sappia quello fusse per sentire esso autore, o come avesse ad interpretare questa mia risoluzione di pubblicarla. Bene son io certo ch’egli per l’obbligo comune alla veritá, e per il zelo verso la puritá della religione, contra le depravazioni tanto inescusabili, averebbe dovuto contentarsene. Non dubitai io giá mai ch’egli avesse piena notizia delle supreme qualitá che rendono la Maestá vostra a tutto ’l mondo conspicua, onde ben averebbe dovuto esser devotissimo osservatore delle eroiche sue virtú, e godere grandemente ch’ella divenisse padrona delle pie fatiche da lui fatte; e in consequenza ratificare per cosa ben fatta, e rallegrarsi che quelle fussero per mezzo mio capitate nelle piú nobili e degne mani ch’abbia l’Europa e terra tutta; d’un re, prodigio del presente mondo in dottrina, in prudenza, in valore, in pietá e religione, a nissuno secondo e a tutti primo. Faccia la serenissima Maestá vostra conto ch’io le porgo un Mosé cavato dall’acque, per miracolo di Dio non sommerso (e pure ad essere sommerso dal suo genitore per l’onor del papato, i cui arcani vedeva quivi discoperti, o pure per li soliti pericoli e terrori, era destinato). Eccolo nelle braccia di V. M. assecurato, acciocché dalla pietá sua e santo zelo allevato, possa uscir al mondo per aiutar a liberare i popoli di Dio dalla tirannide di quel Faraone, che con li ceppi anco di sí sregolato e fallace concilio li tiene in cruda servitú oppressi. Goda la Maestá vostra con quel suo purgatissimo giudicio questa veramente onorata opera, con la quale penetrará nell’alto mistero perché la corte romana non abbia mai voluto lasciar vedere agli occhi umani gli atti di quel concilio, ma li tenghi sotto mille chiavi nascosti, dopo d’avere con esquisitissimi artifici annichilati in gran parte li documenti che di questo concilio si ritrovavano nelle mani de privati, e in molte librarie vecchie de prelati e altri personaggi ch’in quello presenti si ritrovorono; laddove con ogni minutezza istorica gli atti di tutti quasi gli altri universali concili si palesano: e di questo concilio altro non si pubblica che li nudi decreti, in Roma piú ch’in Trento fatti. Scorgerá la Maestá vostra da questa nobilissima ed esquisitissima Istoria molti arcani profondi del papato. E io, che sono il portatore di questo sì pregiato dono, andarò gioiendo che mi si sia presentata sì bella occasione di mostrare a V. M. che non solamente con le mie, ma anco con l’altrui fatiche desidero impiegarmi tutto a servirla. Riceva ella consolazione ch’in Italia, dal papato in lei nato e stabilito tutta oppressa, si trovino nondimeno ingegni inimici delle infami adulazioni verso il papa, e amici della veritá, la quale in quest’opera, intorno al fatto del concilio tridentino, con tanta sinceritá si va scoprendo. Dio conservi la serenissima Maestá vostra a!!i suoi regni e alla santa Chiesa universale, per molti anni sana, prospera e felice, e le dia forza e opportunitá di dimostrare in fatti d’essere di lei e della sua vera fede vero e fervente defensore. — Della serenissima Maestá vostra — servo infimo, M. Ant. dk Dominis Arciv. di Spalatro. — Dalla casa di Savoia il primo di gennaro 1619.» — Sulla datazione «dalla casa di Savoia», v. il Luzio, nello scritto piú innanzi ricordato.
  3. Interessante quanto si legge in un dispaccio londinese (5 luglio 1619) del cav. G. B. Gabaleone al Duca di Savoia, «V. A. dovrá giá esser stata avertita come qua si truova fuggito d’Italia l’Arcivescovo di Spalato et che da questo Re fu ben visto et meglio trattato d’honori e di trattenimenti, havendoli donato il decanato della Chiesa di Vinsor, che li vale circa 3 m. scudi, et di piú per sua abitazione in Londra parte del Palazzo che si chiama Savoia. Questo prelato disprettato nel principio dete gran opinione di sé presso il Re et alli Vescovi e persone dotte di questa Corte. Dipoi volendo manifestare il suo ingegno e dottrina si messe a
  4. Infatti nel succitato dispaccio (5 luglio) si legge: «Questi giorni [il De Dominis] ha messo fuori un libro in lingua italiana etc..». 11 Gabaleone si preoccupa del fatto che il De Dominis abbia datata la lettera al re «dalla casa di Savoia» e dice di avere fatto sapere all’editore di rimediare in qualche modo, «sendo questo libro curioso sará visto in Allemagna, Fiandra, Italia e in particolare a Roma», perché, non avendo nessuna indicazione che sia la lettera scritta a Londra, si potrebbe «far sinistro giudicio che detta historia sia uscita di saputa di V. A. o de soi ministri».
  5. «Reverendissimo Signore! Io do a V. S. reverendissima questo titolo, poiché sebbene si è messo nel numero de’ protestanti, però sempre le resta nell’anima il carattere sacerdotale ed episcopale, di cui non temè voler ispogliarsene. Il mio P. Maestro Paolo molto si lagna di tal suo eccesso, e moltissimo pure che, avendo a V. S. R. prestato da leggere il suo manoscritto dell’Istoria del Concilio tridentino, che guardava con tanta gelosia, ne abbia tirata di essa una copia, e siasene poi abusato non solo facendola stampare senza il di lui beneplacito, ma ponendole anco quel titolo impropriissimo e quella dedica terribile e scandalosa; e ciò, come siamo bene informati, per motivo d’interesse, non giá di onorare l’autore modesto. Le dico pertanto, Monsignore, che queste non sono le vie per acquistarsi credito, e che il P. M. Paolo ed io non la credevamo tale, nemmeno nel momento che circa due anni fa venne intesa la diserzione sua dalla chiesa di Spalatro da lei governata, e fu letto successivamente il manifesto che sparse per P Europa della sua condotta ed erronea maniera di pensare. Pregando poi il Signore che la illumini, mi dichiaro ecc.... Venezia, 11 novembre 1619. — Fra’Fulgenzio da Venezia.»
  6. M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia, 1752, I, p. 354.
  7. P; Griselini, Memorie aneddote spettanti alla vita e agli studi di fra Paolo servita (rist.e in Opere del Sarpi, Helmstad-Verona, 1761, I, p. 114).
  8. <Idem, Del Genio di fra’ Paolo Sarpi, Venezia, 1785, II, p. 88.
  9. A. Bianchi Giovini, Biografia di Fra Paolo Sarpi, 2a ediz. originale con correz. e aggiunte dell’A., Torino, Soc. Editr. Ital., 1850, vol. II, p. 277.
  10. G. Barbèra, Memorie di un editore, Firenze, 1883, p. 142. Cfr. anche Annali bibliografici e catalogo ragionato delle edizioni di Barbera, Bianchi e C. e di G. Barbèra etc., Firenze, 1904, pp. 27-29. Ancor piú categorica raffermazione del Cantú che, avendo esaminato il manoscritto, assicura ch’esso «non iscatta d’un punto dallo stampato». (In Gli eretici d’Italia, Torino, 1864-1866, voi. III, p. 190).
  11. Scelte lettere inedite di Frà Paolo Sarpi, Capolago, Tipografia Elvetica, 1835.
  12. La lettera del 19 giugno 1835 è riferita da G. Martinola, Appunti storici sulle tipografie mendrisiensi «Angelo Borella» e «Della Minerva Ticinese», Mendrisio, Stucchi, 1933.
  13. Cfr. R. Caddeo, Le edizioni di Capolago, Milano, Bompiani, 1934, pp. 214-217.
  14. A. Bianchi Giovini, op. cit, II, p. 389 e sgg.
  15. Vedi la gustosa narrazione dell’episodio nelle cit. Memorie di un editore. Cfr. anche la memoria defensionale dell’avv. Leopoldo Galletti, La storia del concilio di Trento di Fra Paolo Sarpi non era soggetta alla preventiva censura episcopale, Firenze, Barbèra, Bianchi e C., 1858.
  16. E. Teza, Di una nuova edizione dell’Istoria del Concilio Tridentino. Proposte in «Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», tomo 51 (1892), pp. 53-83.
  17. Probabilmente a ragioni d’opportunitá politica devesi la soppressione del brano: E volendo la regina ecc. (II, p. 298), dove parlasi dei contrasti incontrati dalla Stuarda al suo ritorno in Scozia. Cosi piú innanzi (III, p. 201), dove parlasi della lettera di quella regina al concilio, l’inciso: «e narrate le pretensioni sue nel regno d’Inghilterra, prometteva che quando n’avesse avuto la possessione, averebbe...», viene modificato dal De Dominis cosí: «e commemorata la successione sua che aspettava nel regno d’Inghilterra, prometteva che, come fosse seguita, averebbe...». Forse si temeva che, con Giacomo I sul trono, non fosse conveniente parlare di pretensioni. Ed alcune righe dopo è aggiunto quest’inciso, che nel ms. manca: «... da mandare. Ma li piú intelligenti giudicarono che quest’officio fosse stato mendicato ed estorto; perché bene lo poteva ella fare da prencipe, avendo sempre avuto appresso di sé non pochi cattolici.»
  18. In qualche luogo il S. pone una serie di punti dove non ha pronto o non ricorda un nome: gli editori suppliscono non sempre a dovere, e l’errore resta nel conto del Sarpi! In questi casi ho posta la mia integrazione in parentesi quadra. In un luogo ho corretto una svista dell’A. Il Von der Vost vien detto «vescovo di Aix», anziché di Acqui (I, 130). L’errore è causato dal duplice significato del termine latino aquensis, che poteva riferirsi tanto ad Aquae Statelliorum (Acqui) come ad Aquae Sextiae (Aix): ma in quest’ultimo caso doveva dire arcivescovo, non vescovo.
  19. Particolarmente nella monumentale silloge: Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistolarum, tractatuum collectio. Edidit Societas Goerresiana. Friburgo, Herder, 1901; in corso di pubblicazione.
  20. Ma quasi costante è la corrispondenza della doppia ss alla x latina.
  21. Il Teza, op. cit., consigliava che «delle parole scritte dal Sarpi, o per emenda o per giunta, si conservassero le forme intere, provvedendo che se ne debba accorgere subito chi legge»; ma ci sembra una «riverenza» esagerata, di cui non si saprebbe vedere l’utilitá.