Invito a Lesbia Cidonia (1797)
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L’INVITO
A
POEMETTO
di
MASCHERONI
Perchè, con voce di soavi carmi,
Ti chiama a l’alta Roma inclito Cigno,
Spargerai tu d’obblio dolce promessa,
Onde allegrossi la minor Pavia?
Pur lambe sponda memore d’impero,
Benchè del fasto de’ trionfi ignuda,
Di Longobardo onor pago il Tesino:
E le sue verdi, o Lesbia, amene rive
Non piacquer poi quant’altro al tuo Petrarca?
Qui l’accogliea gentil l’altro Visconte
Nel torrito Palagio; e qui perenne
Sta la memoria d’un suo caro pegno.
Te qui Pallade chiama, e te le Muse;
E l’Eco che ripete il tuo bell’inno
Per la rapita a noi, data alla Dora,
Come più volle Amor, bionda donzella.
Troppo altra volta rapida, seguendo
Il tuo gran cor, che l’opere de l’arte
A contemplar ne la città di Giano.
E a Firenze bellissima ti trasse.
Di leggier orma questo suol segnasti.
Ma fra queste cadenti antiche torri,
Guidate, il sai, da la Cesarea mano
L’attiche discipline, e di molt’oro
Sparse, ed altere di famosi nomi
Parlano un suon, che attenta Europa ascolta.
Se di tua vista consolar le tante
Brame ti piaccia, intorno a te verranno
De la risorta Atene i chiari ingegni;
E quei che a te sul margine del Brembo
Trasse tua fama, e le comuni Muse;
E quei che pieni del tuo nome al cielo
Chieggon pur di vederti. Chi le sfere
A vol trascorre, e su britanna lance
L’universo equilibra; e chi la prisca
Fè degli avi a le tarde età tramanda;
E chi de la natura alma reina
Spiega la pompa triplice: e chi segna
L’origin vera del conoscer nostro;
Chi ne’ gorghi del cor mette lo sguardo;
E qual la sorte de le varie genti
Colora, e gli agghiacciati e gli arsi climi
Di fior cosparge: qual per leggi frena
Il secolo ritroso; altri per mano
Volge a suo senno gli elementi, e muta
Le facce ai corpi: altri sugli egri suda
Con argomenti che non seppe Coo.
Tu qual gemma che brilla in cerchi d’oro,
Segno di mille sguardi andrai fra quelli,
Pascendo il pellegrino animo intanto
E i sensi de’ lor detti: essi de’ tuoi
Dolce faranno entro il pensier raccolta.
Molti di lor potrian teco le corde
Trattar di Febo con maestre dita;
Non però il suon n’udrai: ch’essi di Palla
Gelosa d’altre Dee qui temon l’ire.
Quanto ne l’alpe e ne l’aerie rupi
Natura metallifera nasconde;
Quanto respira in aria, e quanto in terra;
E quanto guizza ne gli acquosi regni,
Ti fia schierato a l’occhio: in ricchi scrigni,
Con avveduta man, l’ordin dispose
Di tre regni le spoglie. Imita il ferro
Crisoliti e rubin; sprizza dal sasso
Il liquido mercurio; arde funesto
L’arsenico: traluce a i sguardi avari
Da la sabbia nativa il pallid’oro.
Che se ami più de l’eritrèa marina
Le tornite conchiglie, inclita Ninfa,
Di che vivi color, di quante forme
Trassele il bruno pescator da l’onda!
L’Aurora forse le spruzzò de’ misti
Raggi, e godè talora andar torcendo
Con la rosata man lor cave spire.
Una del collo tuo le perle in seno
Educò verginella; a l’altra il labbro
De la sanguigna porpora ministro
Splende; di questa la rugosa scorza
Stette con l’or su la bilancia e vinse.
Altre si fero, in van dimandi come,
Carcere e nido in grembo al sasso: a quelle
Qual Dea del mar d’incognite parole
Scrisse l’eburneo dorso? e chi di righe
E d’intervalli sul forbito scudo
Sparse l’arcana musica? da un lato
Aspre e ferrigne giaccion molte: e grave
D’immane peso assai rosa da l’onde
La rauca di Triton buccina tace.
Questo ad un tempo è pesce ed è macigno;
Questa è qual più la vuoi chiocciola o selce.
Tempo già fu che le profonde valli,
E ’l nubifero dorso d’Apennino
Copriano i salsi flutti; pria che il cervo
La foresta scorresse, e pria che l’uomo
Da la gran madre antica alzasse il capo.
L’ostrica allor, su le pendici alpine,
La marmorea locò famiglia immensa:
Il nautilo contorto a l’aure amiche
Aprì la vela, equilibrò la conca;
D’Africo poscia al minacciar, raccolti
Gl’inutil remi e chiuso al nicchio in grembo,
Deluse il mar: scola al nocchier futuro.
Cresceva intanto di sue vote spoglie,
Avanzi de la morte, il fianco al monte.
Quando da lungi preparato, e ascosto
A mortal sguardo, da l’eterne stelle
Sopravvenne destin; lasciò d’Atlante,
E di Tauro le spalle, e in minor regno
Contrasse il mar le sue procelle e l’ire:
Col verde pian l’altrice terra apparve.
Conobbe Abido il Bosforo; ebbe nome
Adria ed Eusin; da l’elemento usato
Deluso il pesce, e sotto l’alta arena
Sepolto, in pietra rigida si strinse:
Vedi, che la sua preda ancora addenta!
Queste scaglie incorrotte, e queste forme
Ignote al novo mar, manda dal Bolca
L’alma del tuo Pompei patria, Verona.
Son queste l’ossa, che lasciar sul margo
Del palustre Tesin, da l’alpe intatta,
Dietro a la rabbia punica, discese,
Le immani afriche belve? o da quest’ossa,
Già rivestite del rigor di sasso,
Ebbe lor piè non aspettato inciampo?
Chè qui già forse italici elefanti
Pascea la piaggia, e Roma ancor non era:
Nè lidi a lidi avea imprecato ed armi
Contrarie ad armi la deserta Dido.
Non lungi accusan la Vulcania fiamma
Pomici scabre, e scoloriti marmi.
Bello è il veder, lungi dal giogo ardente.
Le liquefotte viscere de l’Etna;
Lanciati sassi al ciel. Altro fu svelto
Dal sempre acceso Stromboli; altro corse
Sul fianco del Vesevo onda rovente.
O di Pompeio, o d’Ercole giù colte
Città scomparse ed obbliate, alfine,
Dopo si lunga età risorte al giorno!
Presso i misteri d’Iside e le danze,
Dal negro ciel venuto, a larghi rivi
Voi questo cener sovraggiunse; in voi
Gli aurei lavor di pennel greco offese.
Dove voi lascio, innamorati augelli,
Sotto altro cielo ed altro Sol volanti?
Te risplendente del color del fuoco;
Te ricco di corona; te di gemme
Distinto il tergo; e te miracol nuovo
D’informe rostro e di pennuta lingua?
Tu col gran tratto d’ala il mar traversi;
Tu pur esile colibrì, vestito
D’instabili color, de l’etra a i campi,
Con brevissima penna osi fidarti.
Ora gli sguardi a sè, col fulgid’ostro
Chiaman de’ l’ali, e con le macchie d’oro.
Le occhiute leggerissime farfalle
Onor d’erbose rive; a i caldi Soli
Uscir dal carcer trasformate; e breve
Ebbero il dono de la terza vita.
Questa suggeva il timo, e questa il croco,
Non altramente che da l’auree carte
De’ tesori dircei tu cogli il fiore.
Questa col capo folgorante, l’ombre
Ruppe a l’ignudo american, che in traccia
Notturno va dell’appiattata fera.
E voi non tacerò, voi di dolci acque
Celeri figli, e di salati stagni:
Te, delfin vispo, cui del vicin nembo
Fama non dubbio accorgimento diede;
E pietà quasi umana e senso al canto:
Te, che di lunga spada armato il muso,
Guizzi qual dardo, e le balene assalti:
Te, che al sol tocco di tue membra inermi,
Di subita mirabile percossa
L’avido pescator stendi sul lido.
Ardirò ancor, tinta d’orrore esporre
A i cupidi occhi tuoi diversa scena,
Lesbia gentil; turpi sembianze e crude,
Che disdegnò nel partorir la terra.
Nè strane fiano a te, nè men gioconde;
A te, che già tratta per man dal novo
Plinio tuo dolce amico, a Senna in riva,
Per li negati al volgo aditi entrasti.
Prole tra maschi incognita; rifiuto
Del dilicato sesso; orror d’entrambi
Nacque costui. Qual colpa sua, qual ira
De l’avaro destino a lui fu madre?
Qual infelice amore, o fiera pugna,
Strinse così l’un contro l’altro questi,
Teneri ancor nel carcere natale;
Che appena giunti al dì, dal comun seno
Con due respir che s’incontraro uscendo,
L’alma indistinta resero a le stelle?
Costui, se lunga età veder potea,
Era Ciclope; mira il torvo ciglio
Unico in mezzo al volto! Un altro volto
Questi porta sul tergo; ed era Giano.
Or ve’ mirabil mostro! senza capo,
Son poche lune, e senza petto uscito
Al Sol, del viver suo per pochi istanti.
Fece tremando e palpitando fede.
Folle chi altier sen va di ferree membra
Ebbro di gioventù! Perchè nel corso
Precorri il cervo, e ’l lupo al bosco sfidi,
E l’orrido cinghial vinci a la pugna.
Già t’ergi re degli animali. Intanto
Famiglia di viventi entro tue carni,
Te non veggente, e sotto la robusta
Pelle, di te lieta si pasce e beve
Secura il sangue tuo tra fibra e fibra.
Questo di vermi popolo infinito
Ospite rose un dì viscere vive,
E tal di lor, cui non appar di capo
Certo vestigio, qual lo vedi, lungo
Ben trenta spanne, intier si trasse a stento
Dai moltiplici error labirintei.
Qual ne le coste si forò l’albergo,
Col sordo dente; e quale al cor si pose.
Nè sol de l’uom, ma de gli armenti al campo
Altri seguia le torme; e mentre l’erba
Tondea la mite agnella, alcun di loro,
Limando entro il cervel, da l’alta rupe
Vertiginosa in rio furor la trasse.
Tal quaggiù de’ l’altrui vita si nutre,
Altre a nudrirne condannata, l’egra
Vita mortal che il ciel parco dispensa.
Ecco il lento bradipo, il simo urango,
Il ricinto armadillo, l’istrice irto;
Il castoro architetto, il muschio alpestre,
La crudel tigre, l’armellin di neve.
Ecco il lurido pipa, a cui dal tergo
Cadder maturi al Sol tepido i figli:
L’ingordo can, che triplicati arrota
I denti, e ’l navigante inghiotte intero.
Torvo così dal Senegallo sbuca
L’ippopotamo, e con l’informe zampa
De l’estuosa zona occupa il lido.
Guarda vertebre immani! e sono avanzi:
Si smisurata la balena rompe,
Ne la polar contrada, i ghiacci irsuti!
È spoglia, non temer, se la trisulca
Lingua dardeggia, e se minaccia il salto
La maculata vipera e i colubri,
Che accesi solcan infocate arene.
Qui, minor di sua fama, il voi raccoglie
Il drago: qui il terror del Nilo stende,
Per sette e sette braccia il sozzo corpo;
Qui, dal sonante strascino tradito,
Il crotalo implacabile, qui l’aspe;
E tutti i mostri suoi l’Africa manda.
Chi è costui, che d’alti pensier pieno,
Tanta filosofia porta nel volto?
È il divin Galileo, che primo infranse
L’idolo antico: e con periglio trasse
A la nativa libertà le menti:
Novi occhi pose in fronte all’uomo; Giove
Cinse di stelle; e fatta accusa al sole
Di corruttibil tempra il locò poi,
Alto compenso! sopra immobil trono.
L’altro, che sorge a lui rimpetto, in vesta
Umil ravvolto e con dimessa fronte,
È
Fece a la taciturna Algebra dono.
O sommi lumi de l’Italia! il culto
Gradite de l’Orobia pastorella,
Ch’entra fra voi; che le vivaci fronde
Spicca dal crine e al vostro pie le sparge.
In questa, a miglior geni aperta luce,
Il linguaggio del ver Fisica parla.
A le dimande sue, confessa il peso
Il molle cedente aere; ma stretto,
Scoppia sdegnoso dal forato ferro,
Avventando mortifera ferita.
Figlio del Sole il raggio settiforme
A l’ombre in sen, rotto per vetro obliquo,
Splende distinto ne i color de l’Iri.
Per mille vie torna non vario in volto;
Ne la Dollondia man docil depone
La dipinta corona: in breve foco
Stringesi, ed arma innumerabil punte,
A vincer la durezza adamantina.
Qui il simulato ciel sue rote inarca;
L’anno divide; l’incostante luna
In giro mena, e seco lei la terra.
Suo circolante anello or mostra or cela
Il non più lontanissimo Saturno.
Adombra Giove i suoi seguaci, e segna
Oltre Pirene e Calpe, al vigil sguardo
Il confin d’orïente: in altra parte,
Virtù bevendo di scoprir nel bujo
Flutto a l’errante marinar la stella,
Da l’amato macigno il ferro pende.
Qui declinando per accesa canna,
O tocca da l’elettrica favilla,
Vedrai l’acqua sparir; nascer da quella
Gemina prole di mirabil aure;
L’onda dar fiamma, e la fiamma dar onda.
Benchè, qualor ti piaccia, in novi aspetti,
Veder per arte trasformarsi i corpi;
O sia che in essi, ripercosso e spinto
Per calli angusti, o da l’accesa chioma
Tratto del Sol per lucido cristallo,
Gli elementi distempri ardor di fiamma,
O sia ch’umide vie tenti; e mordendo
Con salino licor masse petrose
Squagli; e divelle le nascoste terre
D’avidi umori vicendevol preda
Le doni; e quanto in sen la terra chiude
A suo piacer rigeneri, e distrugga
Chimica forza: a le tue dotte brame,
Affrettan già più man le belle prove.
Tu verserai liquida vena in pura
Liquida vena, e del confuso umore
Ti resterà tra man massa concreta,
Qual zolla donde il Sole il vapor bebbe.
Tu mescerai purissim’onda a chiara
Purissim’onda, e di color cilestro
L’umor commisto appariratti, quale
Appare il ciel, dopo il soffiar di Coro.
Tingerai, Lesbia, in acqua il bruno acciaro;
E a l’uscir splenderà candido argento.
Soffri per poco, se dal torno desta,
Con innocente strepito, su gli occhi,
La simulata folgore ti guizza.
Quindi osò l’uom condurre il fulmin vero
In ferrei ceppi, e disarmò le nubi.
Ve’ che ogni corpo liquido, ogni duro
Nasconde il pascol del balen: lo tragge
Da le cieche latebre accorta mano;
E l’addensa premendo, e lo tragitta
L’arcana fiamma a suo voler trattando.
E se, per entro a gli Epidaurii regni,
Fama già fu che di Prometeo il foco.
Che scorre a l’uom le membra, e tutte scote
A un lieve del pensier cenno le vene,
Sia dal ciel tratta elettrica scintilla;
Non tu per sogno Ascreo l’abbi sì tosto.
Suscita or dubbio non leggier sul vero
Felsina antica di saper maestra.
Con sottil argomento di metalli
Le risentite rane interrogando.
Tu le vedesti su l’Orobia sponda
Le garrule presaghe de la pioggia.
Tolte a i guadi del Brembo, altro presagio
Aprir di luce al secolo vicino.
Stavano tronche il collo: con sagace
Man le imaiolava vittime a Minerva,
Cinte d’argentea benda i nudi fianchi.
Su l’ara del saper giovin ministro:
Non esse a colpo di coltel crudele
Torcean le membra, non a molte punte.
Già preda abbandonata da la morte,
Parean giacer: ma se l’argentea benda
Altra di mal distinto ignobil stagno,
Da le vicine carni al lembo estremo,
Venne a toccar, la misera vedevi.
Quasi risorta ad improvvisa vita.
Rattrarre i nervi, e con tremor frequente
Per incognito duol divincolarsi.
Io lessi allor nel tuo chinar del ciglio,
Che ten gravò: ma quella non intese
Di qual potea pietade andar superba.
E quindi in preda a lo stupor, ti parve
Chiaro veder quella virtù che cieca
Passa per interposti umidi tratti
Dal vile stagno al ricco argento, e torna
Da questo a quello con perenne giro.
Tu pur al labbro le congiunte lame.
Come ti prescrivea de’ Saggi il rito,
Lesbia, appressasti; e con sapore acuto
D’alti misteri t’avvisò la lingua.
E ancor mi suona nel pensier tua voce.
Quando al veder che per ondose vie
L’elemento nuotava, e del convulso
Animal galleggiante i dilicati
Stami del senso circolando punse;
Chiedesti al ciel che da l’industri prove
Venisse all’egra umanità soccorso.
Ah se cosi, dopo il sottil lavoro
Di vigilati carmi, orror talvolta
Vano di membra, il gel misto col foco,
Ti va le vene ricercando, e abbatte
La gentil da le Grazie ordita salma:
Quanto, d’Italia onor, Lesbia, saria.
Con l’arte nova rallegrarti il giorno!
Da questa porta risospinta, al lampo
Dei vincitor del tempo eterni libri,
Fugge ignoranza; e dietro lei le larve
D’error pasciute, e timide del Sole.
Opra è infinita i tanti aspetti e i nomi
Ad uno ad uno annoverar. Tu questo,
Lesbia, non isdegnar gentil volume
Che s’offre a te: da l’onorata sede
Volar vorrebbe all’alma autrice incontro.
D’ambe le parti immobili si stanno.
Serbando il loco a lui, Colonna e Stampa
Quel pur ti prega, che non più consenta
A l’alme rime tue, vaghe sorelle,
Andar divise; onde odono fra ’l plauso
Talor sonar dolce lamento: al novo
Vedremo allor volume aureo cresciuto,
Ceder loco maggior Stampa e Colonna.
Or de gli estinti ne le mute case,
Non ti parrà quasi calar giù viva,
Su l’esempio di lui, da la cui cetra
Tanta in te d’armonia parte discese?
Scarnata ed ossea su l’entrar s’avventa
Del can la forma: ah non è questo il crudo
Cerber trifauce, cui placar tu deggia
Con medicata cialda: invano mostra
Gli acuti denti: ei dorme un sonno eterno
Ossee dintorno a lui, con cento aspetti,
Stanno silvestri e mansuete fere:
Sta senza chioma il fier leon, su l’orma
Immoto è il daino; è senza polpe il bieco
Cinghiai feroce: senza vene il lupo,
Senza ululato, e non lo punge fame
De le bianche ossa de l’agnel vicino.
Piaccia ora a te quest’anglico cristallo
A’ leggiadri occhi sottoporre; ed ecco
Di verme vil giganteggiar le membra.
Come in antico bosco d’alte querce
Denso e di pini, le cognate piante
I rami intreccian, la confusa massa
Irta di ramuscei fende le nubi:
Così, ma con più bello ordin tu vedi
Quale, pel lungo de l’aperto dorso,
Va di tremila muscoli la selva.
Riconosci il gentil candido baco,
Cura de’ ricchi Sericani: forse
Di tua mano talor tu lo pascesti
De le di Tisbe e d’infelici amori
Memori foglie: oggi ti mostra quanti
Nervi affatichi, allor che a te sottili
E del seno e del crin prepara i veli.
Ve’ la cornuta chiocciola ritorta,
Cui di gemine nozze Amor fa dono:
Mira sotto qual parte ove si senta
Troncar dal ferro inaspettato il capo,
Ritiri i nodi de la cara vita:
Perchè, qualor l’inargentate corna
Ripigli in ciel la Luna, anch’ella possa
Uscir col novo capo a la campagna.
Altri a destra minuti, altri a sinistra
Ch’ebbero vita un dì, sospesi il ventre
Mostrano aperto: e tanti e di struttura
Tanto diversa li fe’ nascer Giove,
De’ sapïenti a tormentar l’ingegno.
Nel più interno de’ regni de la morte,
Scende da l’alto la luce smarrita.
Esangue i nervi e Tossa ond’uom si forma,
E le recise viscere (se puoi
Sostener ferma la sparuta scena)
Numera Anatomia: del cor son queste
Le regïon, che esperto ferro schiuse.
Non ti stupir se l’usbergo del petto
E l’ossa dure il muscolo carnoso
Potè romper cozzando: si lo sprona,
Con tal forza l’allarga Amor tiranno.
Osserva gl’intricati labirinti,
Dove nasce il pensier; mira le celle
De’ taciti sospir: nude le fibre
Appajon qui del moto, e là de’ sensi
Fide ministre, e in lungo giro erranti
Le delicate oiigin de la vita:
Serpeggia ne le vene il falso sangue.
L’arte ammirasti: ora men tristi oggetti,
Intendo il tuo guardar, l’animo cerca.
Andiamo, Lesbia; pullular vedrai
Entro tepide celle erbe salubri,
Dono di navi peregrine: stanno
Le prede di più climi in pochi solchi.
Aspettan te, chiara bellezza, i fiori
De l’Indo: avide al sen tuo voleranno
Le morbide fragranze Americane,
Argomento di studio e di diletto.
Come verdeggia il zucchero tu vedi,
A canna arcade simile: qual pende
Il legume d’Aleppo dal suo ramo,
A coronar le mense util bevanda,
Qual sorga l’ananas; come la palma
Incurvi, premio al vincitor, la fronda.
Ah non sia chi la man ponga a la scorza
De l’albero fallace avvelenato,
Se non vuol ch’aspre doglie a lui prepari
Rossa di larghi margini la pelle.
Questa pudica da le dita fugge;
La solcata mammella arma di spine
Il barbarico cacto; al Sol si gira
Clizia amorosa: sopra lor trasvola
L’ape ministra de l’aereo mele.
Dal calice succhiato, in ceppi stretta,
La mosca in seno al fior trova la tomba.
Qui pure il sonno con pigre ali, molle
Da l’erbe lasse conosciuto dio,
S’aggira; e al giunger d’Espero rinchiude
Con la man fresca le stillanti bocce,
Che aprirà ristorate il bel mattino.
E chi potesse udir de’ verdi rami
Le segrete parole, allor che i furti
Dolci fa il vento su gli aperti fiori
De gli odorati semi, e in giro porta
La speme de la prole a cento fronde:
Come al marito suo parria gemente
L’avida pianta susurrar! che nozze
Han pur le piante: e zefiro leggero
Discorritor de l’indiche pendici
A quei fecondi amor plaude aleggiando.
Erba gentil (nè v’è sospir di vento)
Vedi inquïeta tremolar sul gambo;
Non vive? e non dirai ch’ella pur senta?
Ricerca forse il patrio margo, e ’l rio;
E duolsi d’abbracciar con le radici
Estrania terra sotto stelle ignote,
E in Europea prigion bevere a stento
Brevi del Sol per lo spiraglio i rai.
E ancor chi sa, che in suo linguaggio i germi
Compagni, di quell’ora non avvisi
Che il Sol da noi fuggendo, a la lor patria
A la Spagna novella il giorno porta?
Noi, pur noi, Lesbia, a la magione invita...
Ma che non può su gl’ingannati sensi
Desir, che segga de la mente in cima!
Non era io teco? a te fean pur corona
Gl’illustri amici. A te salubri piante,
E belve e pesci e augei, marmi, metalli
Ne’ palladii ricinti iva io mostrando.
Certo guidar tuoi passi a me parea;
Certo udii le parole: e tu di Brembo
Oimè! lungo la riva anco tistai.