In morte di Lorenzo Mascheroni (1831)/Canto V
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Canto Quinto
Non mi fèce risposta quell’acerbo,
Ma riguardommi colla testa eretta
3A guisa di leon queto e superbo.
Qual uomo io stava che a scusar s’affretta
Involontaria offesa, e più coll’atto
6Che col disdirsi, umil fa sua disdetta;
E lo spirto parea quei che distratto
Guata un oggetto, e in altro ha l’alma intesa;
9Finchè dal suo pensier sbattuto e ratto
Gridò con voce d’acre bile accesa:
«Oh d’ogni vizio fetida sentina,
12Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa1
Ch’or questa gente, or quella è tua reina
Che già serva ti fu! Dove lasciasti,
15Poltra vegliarda, la virtù latina?
La gola e ’l sonno ti spogliar de’ casti
Primi costumi, e fra l’altare e ’l trono
18Co’ tuoi mille tiranni adulterasti;
E mitre e gonne e ciondolini e suono
Di molli cetre abbandonar ti fenno
21Elmo ed asta, e tremar dell’armi al tuono:
Senza pace tra’ figli e senza senno,
Senza un Camillo, a che stupir se avaro
24Un’altra volta a’ danni tuoi vien Brenno?
Or va, coltiva il crin, fatti riparo
Delle tue psalmodíe; godi, se puoi,
27D’aver cangiato in pastoral l’acciaro.
Tacque ciò detto il disdegnoso. I suoi
Liberi accenti, e al crin gli avvolti allori,
30De’ poeti superbia e degli eroi,
M’eran già del suo nome accusatori,
All’intelletto mio manifestando
33Quel grande che cantò l’armi e gli amori;
Perch’io la fronte e ’l ciglio umìl chinando,
Oh gran vate, sclamai, per cui va pare
36D’Achille all’ira la follia d’Orlando!
Ben ti disdegni a dritto, e con amare
Parole Italia ne rampogni, in cui
39Dell’antico valore orma non pare;
Ma dimmi, o padre: chi da’ marmi bui
Suscitò l’ombra tua? Concittadino
42Amor, rispose, e dirò come il fui.
Fra i boati di barbaro latino
Son tre secoli omai ch’io mi dormia
45Nel tempio sacro al divo di Cassino.2
Pietosa cura della patria mia
Qui concesse più degna e taciturna
48Sede alla pietra che il mio fral copria.
Fra il canto delle Muse alla diurna
Luce fui tratto, e la mia polve anch’essa
51Riviver parve e s’agitò nell’urna.
Ma desto non foss’io, che manomessa
Non vedrei questa terra, e questi marmi
54Molli del pianto di mia gente oppressa!
Oh! qualunque tu sia, non dimandarmi
Le sue piaghe, e, per Dio! ma trar m’aita
57Di lassù la vendetta a consolarmi.
Di ragion, di pietade hanno schernita
I tiranni la voce; e fu delitto
60Supplicare e mostrar la sua ferita.
Fu chiamato ribelle ed interditto
Anche il sospiro, e il cittadin fedele
63Or per odio percosso, or per profitto;
E le preghiere intanto e le querele
Derise e storpie gemono alle porte
66Inesorate di pretor crudele.
Mentr’egli sì dicea, ferinne un forte
Muggir di fiumi, che tolte le sponde
69S’avean sul corno, orror portando e morte.
Stendean Reno e Panàr le indomit’onde
Con immensi volumi alla pianura;
72E struggendo venian le furibonde
La speranza de’ campi già matura:
Co’ piangenti figliuoi fugge compreso
75Di pietade il villano e di paura:
ed uno in braccio e un altro per man preso,
Ad or ad or si volge, e studia il passo,
78Pel compagno tremando e per lo peso;
Ch’alto il flutto l’insegue, e con fracasso
Le capanne ingoiando e i cari armenti,
81Fa vortice di tutto e piomba al basso.
Ed allora un rumor d’alti lamenti,
Un lagrimare, un dimandar mercede,
84Con voci che farían miti i serpenti.
Ma non le ascolta chi in eccelso siede
Correttor delle cose, e con asperso
87Auro di pianto al suo poter provvede.
Mentre che d’una parte in mar converso
Geme il pian ferrarese, ecco il secondo
90Strano lutto dall’altra e più diverso.
In terra, in mare e per lo ciel profondo
Ecco farsi silenzio; il sol tacere
93All’improvviso, e parer morto il mondo.
Le nubi in alto orribilmente nere
Altre stan come rupi, altre ne miri
96Senza vento passar basse e leggere.
Tutti dell’aure i garruli sospiri
Eran queti, e le foglie al suol cadute
99Si movean roteando in presti giri:
D’ogni parte al coperto le pennute
Torme accorrono, e in tema di salvarse
102Empiono il ciel di querimonie acute;
Fiutan l’aria le vacche, e immote e sparse
Invitan sotto alle materne poppe
105Mugolando i lor nati a ripararse;
Ma con muso atterrato e avverse groppe
L’una all’altra s’addossano le agnelle,
108Pria le gagliarde e poi le stanche e zoppe.
Cupo regnava lo spavento; e in quelle
Meste sembianze di natura il core
111L’appressar già sentìa delle procelle:
Quando repente udissi alto un rumore
Qual se a’ tuoni commisto giù da’ monti
114Vien di molte e spezzate acque il fragore.
Quindi un grido: ecco il turbo: e mille fronti
Si fan bianche; e le nebbie e le tenébre
117Spazza il vento sì ratto, che più pronti
Vanno appena i pensier. S’alza di crebre
Stipe un nembo e di foglie e di rotata
120Polvere che serrar fa le palpebre.
Mugge volta a ritroso e spaventata
Dell’Eridano l’onda, e sotto i piedi
123Tremar senti la ripa affaticata.
Ruggiscono le selve, ed or le vedi
Come fiaccate rovesciarsi in giuso,
126E innabbissarsi se allo sguardo credi.
Or gemebonde rialzar diffuso
L’enorme capo, e giù chinarlo ancora,
129Qual pendolo che fa l’arco all’insuso.
Batte il turbo crudel l’ala sonora,
Schianta uccide le messi e le travolve;
132Poi con rapido vortice le vora,
E tratte in alto le diffonde e solve
Con immenso sparpaglio. Il crin si straccia
135Il pallido villan, che tra la polve
Scorge rasa de’ campi già la faccia,
E per l’aria dispersa la fatica
138Onde ai figli la vita e a sè procaccia;
E percosso l’ovil, svelta l’aprica
Vite appiè del marito olmo, che geme
141Con tronche braccia su la tolta amica.
Oh giorno di dolor! giorno d’estreme
Lagrime! E crudo chi cader le vede
144E non le asciuga, ma più rio le spreme!
E chi le spreme? Chi in eccelso siede
Correttor delle cose, e con ôr lordo
147Di sangue e pianto al suo poter provvede.
Poichè al duol di sua gente ogni cor sordo
Vide il cantore della gran follía,
150E di pietà sprezzato ogni ricordo,
Mise un grido e sparì. Mentre fuggía,
Si percotea l’irata ombra la testa
153Col chiuso pugno, e mormorar s’udía.
Già il sol cadendo raccogliea la mesta
Luce dal campo della strage orrenda;
156Ed io, com’uom che pavido si desta,
Nè sa ben per timor qual via si prenda,
Smarrito errava, e alla città giungea
159Che spinge obbliqua al ciel la Carisenda.3
Cercai la sua grandezza; e non vedea
Che mestizia e squallor, tanto che appena
162Il memore pensier la conoscea:
Ne cercai l’ardimento; e nella piena
De’ suoi mali esalava ire e disdegni
165Che parean di lion messo in catena:
Ne cercai le bell’arti e i sacri ingegni,
Che alzar sublime le facean la fronte
168E toccar tutti del sapere i segni;
Ed il Felsineo vidi Anacreonte
Cacciato di suo seggio,4 e da profani
171Labbri inquinato d’eloquenza il fonte;
Vidi in vuoto liceo spander Palcani5
Del suo senno i tesori, e in tenebroso
174Ciel la stella languir di Canterzani;6
E per la notte intanto un lamentoso
Chieder pane s’udía di poverelli
177Che agli orecchi toglieva ogni riposo.
Giacean squallidi, mudi, irti i capelli,
E di lampe notturne al chiaror tetro
180Larve uscite parean dai mesti avelli.
Batte la Fame ad ogni porta, e dietro
Le vien la febbre, e l’agonía, e la dira
183Che locato il suo trono ha sul ferétro.
Mentre presso al suo fin l’egro sospira,
Entra la Forza, e grida: cittadino,
186Muori, ma paga: e il miser paga e spira.
Oh virtù! come crudo è il tuo destino!7
Io so ben, che più bello è mantenuto
189Pur dai delitti il tuo splendor divino;
So che sono gli affanni il tuo tributo;
Ma perchè spesso al cor che ti rinserra,
192Forz’è il blasfema proferir di Bruto?
Con la sventura al fianco su la terra
Dio ti mandò, ma inerme ed impotente
195De’ tuoi nemici a sostener la guerra.
E il reo felice, e il misero innocente
Fan sull’eterno provveder pur’anco
198Del saggio vacillar dubbia la mente.
Come che intorno il guardo io mova e’l fianco
Strazio tanto vedea, tante ruine,
201Che la memoria fugge, e il dir vien manco.
Langue cara a Minerva e alle divine
Muse la donna del Panàr, nè quella
204Più sembra che fu invidia alle vicine;
Ma sul Crostolo assisa la sorella
Freme, e l’ira premendo in suo segreto,
207Le sue piaghe contempla e non favella;
Freme Emilia, e col fianco irrequieto
Stanca del rubro fiumicel la riva,
210Che Cesare saltò, rotto il decreto.8
E de’ gemiti al suon che il ciel feriva,
D’ogni parte iracondo e senza posa,
213L’adriaco flutto ed il tirren muggiva.
Ripetea quel muggir l’alpe pietosa,
E alla Senna il mandava, che pentita
216Dell’indugio pareva e vergognosa:
E spero io ben che la promessa aita
Piena e presta sarà, chè la parola
219Di lui che diella non fu mai tradita:
Spero io ben ch’il mio Melzi a cui rivola
Della patria il sospiro....9 e più bramava
222Quel magnanimo dir; ma nella gola
Spense i detti una voce che gridava:
Pace al mondo: - e quel grido un improvviso
225Suon di cetere e d’arpe accompagnava.
Tutto quanto l’Olimpo era un sorriso
D’amor; nè dirlo nè spiegarlo appieno
228Pur lingua lo potrìa di paradiso.
Si rizzar tutte e quattro in un baleno
L’alme lombarde in piedi; e ver la plaga,
231D’onde il forte venìa nuovo sereno,
Con pupilla cercar intenta e vaga
Quest’atomo rotante, ove dell’ira
234E degli odii sì caro il fio si paga.
E largo un fiume dalla Senna uscire
Vider di luce, che la terra inonda,
237E ne fa parte al ciel nel suo salire.
Tutto di lei si fascia e si circonda
Un eroe, del cui brando alla ruina
240Tacea muta l’Europa e tremebonda.
Ed ei l’amava: e nella gran vagina
Rimesso il ferro, offrì l’olivo al crudo
243Avversario maggior della meschina,
E col terror del nome e coll’ignudo
Petto e col senno disarmollo, e pose
246Fine al lungo di Marte orrido ludo.
Sovra il libero mar le rugiadose
Figlie di Dori uscìr,10 che de’ metalli
249Fluttuanti il tonar tenea nascose:
Drimo, Nemerte, e Glauce de’ cavalli
Di Nettuno custode, e Toe vermiglia,
252Di zoofiti amante e di coralli;
Galatea, che nel sen della conchiglia
La prima perla invenne, e Doto e Proto,
255E tutta di Nereo l’ampia famiglia,
Tra cui confuse de’ Tritoni a nuoto
Van le torme proterve. In mezzo a tutti
258Dell’onde il re, da’ gorghi imi commoto,
Sporge il capo divino, e al carro addutti
Gli alipedi immortali, il mar trascorre
261Su le rote volanti e adegua i flutti.
Cade al commercio, che ritorte abborre,
Il britannico ceppo, e per le tarde
264Vene la vita che languía ricorre.
Al destarsi, al fiorir delle gagliarde
Membra del nume, la percossa ed egra
267Europa a nuova sanità riarde.
Nuova lena le genti erge e rintegra:
E tu di questo, o patria mia, se saggio
270Farai pensiero, andrai più ch’altri allegra;
E le piaghe tue tante, e l’alto oltraggio
Emenderai, che fèrti anime ingorde
273Di libertà più ria che lo servaggio;
Anime stolte, svergognate e lorde
D’ogni sozzura. Or fa che tu ti forba
276Di tal peste, e il passato ti ricorde.
E voi che in questa procellosa e torba
Laguna di dolore il piè ponete,
279Onde il puzzo purgarne che n’ammorba;
Voi ch’alla mano il temo vi mettete
Di conquassata nave (e tal vi move
282Senno e valor, che in porto la trarrete)
Voi della patria le speranze nuove
Tutte adempite, e di giustizia il telo
285Animosi vibrando, udir vi giove
Che disse in terra, e che poi disse in cielo
Lo scrittor dei delitti e delle pene;
288Ei di parlarvi, e voi rimosso il velo
D’ascoltar degni il ver che v’appartiene.
Note
- ↑ [p. 122 modifica]Ariosto, Orl. Fur., Canto XVII, 76.
- ↑ [p. 122 modifica]L’Ariosto, morto in Ferrara il 6 giugno del 1533, era stato sepolto senza alcun onore nella chiesa de’ Benedettini. (È noto che S. Benedetto fu il primo istitutore della vita monastica in occidente e fondatore del monastero di Monte Cassino). Quarant’anni dopo, Agostino Mosti, gentiluomo ferrarese, ornò la tomba di quell’illustre con iscrizioni e bassi rilievi: ma nel 1612 un pronipote del poeta gli fece erigere un magnifico sarcofago, ove con sacra cerimonia ne fece deporre le ossa. Un terzo trasporto più [p. 123 modifica]solenne fu fatto non solo delle sue ceneri, ma pur anco di tutto il gran deposito, dalla lontana chiesa di S. Benedetto sino al palazzo delle scuole, detto volgarmente lo Studio pubblico e vicinissimo all’antica paterna casa dell’Ariosto, dove in faccia alla seconda sala della Biblioteca fu onorevolmente collocato. In questa circostanza i mortali avanzi del poeta, trovati sepolti in terra sotto al monumento e in luogo assai umido, furono riposti, con medaglia di metallo, entro cassa di cipresso e chiusi in alto dietro la grande iscrizione in pietra nera. Questa cerimonia, solennizzata per due giorni di festa e da prose e rime stampate, ebbe luogo dopo la seconda venuta de’ francesi in Italia nel 1801, e nel giorno anniversario della morte dell’Ariosto. Il Monti, per una licenza convenevole alla poesia, fa un anacronismo indietreggiando questo avvenimento di qualche anno.
- ↑ [p. 123 modifica]E questa una torre in Bologna, detta anche la torre mozza, la quale è inclinata in guisa che sembra voglia cadere.
- ↑ [p. 123 modifica]Il conte Lodovico Savioli senatore bolognese e autore delle eleganti canzonette intitolate AMORI. Malcontento delle riforme che il cardinale Buoncompagni voleva introdurre in Bologna, si unì agli oppositori, onde fu nel numero de’ senatori disgraziati dal papa. Al contrario, favoreggiatore delle nuove opinioni repubblicane, fu dalla [p. 124 modifica]repubblica Cispadana spedito deputato a Parigi, e nel 1803 dalla repubblica italiana ai Comizj di Lione. Nominato da Napoleone membro del Corpo legislativo, abbandonò bentosto questa carica per quella di professore di diplomazia a Bologna, dove morì nel 1804.
- ↑ [p. 124 modifica]Luigi Palcani di Bologna fu professore di eloquenza nella patria università e morì in Milano nel 1803, di ritorno dai Comizj di Lione, dov’era stato spedito dalla repubblica italiana. Egli, uomo saggio, erudito e profondo, e più dedito ai pacifici studj che agl’intrighi dell’ambizione, prese poca parte alle vicende de’ suoi tempi. Ci rimangono di lui alcune prose dove si vede come sapess’egli costringere molta dottrina in poco volume.
- ↑ [p. 124 modifica]Canterzani esimio professore di Matematica nell’università di Bologna sua patria. Avendo egli pure favoreggiato le nuove opinioni repubblicane, fu nel 1799 privato della carica e molestato da non pochi disgusti.
- ↑ [p. 124 modifica]Il Monti per le cabale de’ suoi nemici, tra i quali il Gianni, privato d’ogni carica ed in istrettissime angustie, intendeva recarsi a Roma, dove gli era stato promesso un nuovo collocamento; ma accortisi i suoi avversarj, brigarono tanto che, ov’egli non fosse stato trattenuto tuttavia in Milano dalle istanze del Paradisi e del [p. 125 modifica]Containi, avrebbe intrapreso un viaggio indarno e fors’anco alla sua peggiore. Le seguenti parole sue serviranno a schiarimento de’ suoi versi. “Questa inaudita persecuzione, questo inumano disegno di non lasciarmi angolo della terra che mi accogliesse, mi prostrò, lo confesso, tutte le forze, e colla spada del dolore nell’anima stetti per profferire la bestemmia di Bruto. La soffocò una consolante sentenza di Socrate: gli Dei hanno mandata la virtù sulla terra, accompagnata dalla sventura. Questa considerazione ravvivò il mio coraggio abbattuto„. — Lettera al Bettinelli.
Bruto, essendo presso ad uccidersi, esclamò, secondo che narra Plutarco: O virtù, che se’ tu mai se non che un nome vano sulla terra, dacchè la fortuna di continuo ti soverchia. Anche Luciano pinge, in un suo dialogo, la virtù avvilita e calpestata dalla fortuna, nuda e lacera, che aspetta giustizia alla porta della casa di Giove. - ↑ [p. 125 modifica]Il Rubicone era la linea di confine del governo delle Gallie affidato a Giulio Cesare dal senato.
- ↑ [p. 125 modifica]Francesco Melzi di Eril, in appresso duca di Lodi, fu uno de’ più saggi e più illuminati cittadini di Milano. Riparatosi a Parigi per l’invasione degli austro-russi, fu dopo la battaglia di Marengo nominato da Bonaparte a vice-presidente della repubblica italiana, che governò per quattro anni con molto senno e prudenza.
- ↑ [p. 126 modifica]Allude al trattato d’Amiens tra la Francia e l’Inghilterra, per cui restava libero il commercio marittimo; ma che non durò che un momento perchè quest’ultima negò di rendere Malta, siccom’era convenuto. Così l’egoistico possesso di quell’isola per gl’inglesi costò all’Europa lo sterminio di più milioni d’uomini e un mare di pianto.