In Valmalenco/Capitolo XXVII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XXVI | Capitolo XXVIII | ► |
Il re del Disgrazia.
XXVII.
Uno scroscio unanime di risa accolse la superba frase del canonico.
Il più incredulo ero forse io che sapevo, con quali mezzi, con quante raccomandazioni a Dio, alla Madonna e ai Santi e con che tremiti il pover’uomo si era spinto fino alle nevi della Bernina; perciò, quando egli ripetè con la sua voce tonante:
“Io l’ho dominata per davvero!” gli ribattei súbito, ironico e scettico in mezzo al fuoco delle altre esclamazioni:
“Allora, canonico, racconti; vogliamo sentire, vogliamo ridere un poco, commoverci alle sue parole, strappar dal suo labbro la confessione di un attimo di paura, vogliamo vederla rimettersi così nei pericoli trascorsi da tremare per tutto il corpo”
Ma il canonico m’interrompe:
“Come se lei non avesse tremato!?”
“Chi? Io! mai!”
“Già!”
“Via, racconta!” sbraita il segretario.
“Racconti, sì, sì; badi però che non crediamo!”
“Pauroso!” gli dice il prevosto di Chiesa, minacciandolo con la mano.
“Veh!, veh che trema”
“Animo, dica!”
“Era una bella mattina,” incomincia Piero imitando la forte voce del prete.....
“No, no, annottava”
“.... quando io, baldo e ferrato! ....”
E le risate si rinnovano, mentre il canonico tentenna la testa, in mezzo al diluvio delle esclamazioni e dei frizzi.
D’un tratto il Sindaco afferra un bicchiere e brinda al nuovo volatile apparso nel cielo dell’Alpi, poichè egli dice, a don Flaminio Spini devono essere spuntate le ali.
Gian Paolo dà col palmo della mano sulle scapole polpose del tormentato annunciando:
“Non ci sono!”
Il curato di Caspoggio, che sa di storia e di leggenda, grida;
“Icaro, Icaro!”
Gli altri lo guardano sorpresi, afferrano il calice ricolmo e bevono, poichè l’ultimo lanciando l’apostrofe così strana ha preso il bicchiere ed ha tracannato il vino gorgogliando.
Icaro? Icaro vorrà dire bevi, bevi! Infatti, guarda! beve il canonico e bevono anche i villeggianti.
La gazzarra minaccia di ricominciare quando Don Flaminio, veduto il fondo del suo bricco valtellinese, si asciuga con una mano la bocca e con l’altra fa cenno di voler parlare. Ma non si dicono che poche frasi inutili, mentre una sorella di Don Luigi finisce di sparecchiare la tavola e l’altra porta gli zigari.
È dopo aver sbuffato tre o quattro soffi di fumo azzurrognolo che il canonico, ridendo del suo riso franco e sonoro, esclama:
“Eppure, io posso dire agli scettici,” e intanto guarda in modo speciale me e l’amico mio che s’è tirato presso la finestra per non respirare l’aria viziata dal fumo, “che ho proprio dominata la punta del Disgrazia, il pizzo Bello, come lo hanno chiamato alcuni turisti austriaci e posso aggiungere che forse, certi amici miei,” e qui altra occhiata significante, “non sarebbero riusciti a seguirmi, perchè....
“Perchè,” scatto io, “il canonico è una lumaca e noi siamo camosci....”
“No, no, lasciamo gli scherzi; loro....” e si rivolge a me e a Radice, “sono pronti ad accettare una scommessa?”
Entrambi rispondemmo:
“Súbito, certo, dica!”
“Ecco, se dimostro, e le prove per tale dimostrazione dovranno essere stabilite da loro, ch’io ho proprio fatta la salita del Disgrazia, lei e l’amico suo Radice offriranno una colazione a tutti i presenti, ed io... compilerò il menù; se invece non potrò addurre fatti, testimonianze, asserti sufficienti a convincere della faticosa ascensione i miei giovani amici e i loro increduli compagni, allora...”
“Allora,?” facemmo tutti ansiosi.
“Allora,” continuò il canonico fregandosi le mani e lanciando dalla bocca semi-aperta una densa voluta di fumo, “io pagherò a tutti la colazione e la farò seguire, a debita e necessaria distanza, da un pranzo coi fiocchi.”
Un applauso unanime salutò la fine della limpida proposta.
Non c’era che d’accordarci intorno alle prove e si decise súbito di pretenderne una sola, decisiva, la testimonianza della guida che doveva aver diretta la spedizione.
“Eccola!” tonò Don Flaminio rizzandosi e tendendo il braccio poderoso verso un angolo della sala dove pipava, beatamente, mastodontico e silenzioso il signor Schenatti.
Quello, così bruscamente disturbato, si tolse la pipa dalla bocca, sputò, si lisciò con la grossa mano i baffi ampii e spioventi, compresse con il pollice il dossetto di cenere che gli si era formato sopra l’orificio della pipa, e, finalmente, guardò noi tutti in faccia con i suoi occhi grandi, grigi, severi e aspettò che scemasse un poco la nuova esplosione di interiezioni e di grida, dovute alla parola ed al gesto dell’impetuoso canonico.
“Sì,” potè finalmente dire il burbero re del Disgrazia, con la sua voce ruvida e forte, “sì, ho condotto Don Flaminio su su fino alla cima!” poi si rimise la pipa fra le labbra carnose e continuò a fumare silenzioso e mastodontico, come se quel frastuono non lo riguardasse affatto.
Don Flaminio, rimasto in piedi in attesa delle parole di Schenatti, come l’ebbe sentite incrociò le braccia sul petto largo e dardeggiò uno sguardo sugli attoniti commensali, fermandosi per ultimo a saettar me e Piero, senza mutar posa; pieno di dignità e di legittimo orgoglio.
Pareva un antico imperatore romano della decadenza che, prima di salir sulla biga per presentarsi al pubblico trionfo, provasse gli atteggiamenti più nobili, studiasse i gesti più solenni e il folgorar dominatore degli occhi, per far più alto il clamor delle turbe e la propria vittoria.
“Puah! un fiore non fa primavera!” ebbi il coraggio di motteggiare in mezzo al silenzio sottentrato.
“Come?”
Poi il buon uomo, lasciando l’artificiosa e voluta maestosità, sedette, trincò, diè due o tre volute nell’aria già pregna di fumo, e:
“Dunque,” disse a incomincieremo come ha suggerito l’amico Radice.
“Era proprio una bella mattina, quando io, baldo e ferrato, non mai immaginando che un’escursione simile m’avrebbe dovuto fruttare a vent’anni di distanza una buona colazione, offerta con forzata cordialità, da miei ottimi amici era, ripeto, una bella mattina, quando io raggiunsi a Torre lo Schenatti e ci incamminammo entrambi per la valle del Torreggio seguendo la strada segnata coi dischi rossastri fino alla Capanna di Cornarossa.”
Questo il brioso canonico dice passando dalla posa dittatoriale a quella untuosa e tabaccosa del quaresimalista.
Noi godiamo la mimica e la parola comicissima, finchè lo Spini, riuscito ad imporre a sè ed a noi la serietà necessaria al racconto, prosegue semplice, così:
“Io cercherò d’essere breve e preciso, limitandomi quasi a dire il solo itinerario seguito, i commenti li faremo poi con l’aiuto di Schenatti: egli, che ha fatto, cento volte, proprio cento contate, la salita del Disgrazia ed è chiamato il re del Pizzo, ha il diritto e il dovere di dire una parola su di esso, più che non lo abbia io che, bene o male, l’ho toccato una volta.”
“Ah bene o male! incominciano le confessioni,” dice il farmacista, mentre lo Schenatti brontola qualcosa sputando.
“Via, per ischerzo,” continua il canonico, “si può atteggiarsi ad eroi, ma quando si vuol dire la verità, allora.... si è quello che si è; ed io già non sono mai stato un grande alpinista.”
“Lo sapevamo,” gridano insieme un fabbricere ed il Sass ammiccando.
“Viva la verità!” esclama il prevosto di Chiesa intanto che il curato di Caspoggio canta non so che pezzo di non so che opera, in cui e’ entra un — sii sincero, sii sincer, come il vino, come il vin! —
L’ultima, dirò così, modulazione è seguita da una generale levata di gomiti dopo la quale il canonico, riaccendendo lo zigaro, prosegue spedito:
“Ecco, vedete?” e fa un gran segno sopra la tavola, fra tre o quattro bicchieri preventivamente avvicinati, “questo è il sentiero saliente erto fino a Ciapponico e passante quindi per l’Alpe di Son, Acqua Bianca ed Airale, rappresentate ciascuna da un calice; qui poi, appena passata l’Alpe d’Airale, ecco il torrente....”
Non ha terminato di dire “ecco il torrente” che l’ampia sua manica rovescia un bicchiere ricolmo ed il liquido corre fra le basi dei calici, quasi a riprodurre la correntía mancante....
“Disastro!...” grida qualcuno ridendo.
“Ecco il torrente,” ripete forte il canonico, segnando il vino con il suo indice teso, “noi lo rimontiamo fino alle baite di Cassandra, proprio al piede del ghiacciaio omonimo e lo vediamo formarsi.... cader giù...”
“Come i calici....” interrompe il farmacista dal fondo.
“... in cascate ch’io non descriverò, perchè ci vorrebbe l’abilità oratoria de’ miei giovani amici:” e qui si rivolge verso di noi, palpandosi lo stomaco, facendo schioccare la lingua e strizzando l’occhio come per dire, che bontà, che cibi, che vini! “Non dirò neppure della difficoltà che presenta la strada in mezzo a dirupi scoscesi, a sterpi, a frane, perchè non saprei come presentarvi reali, orridi, eppur belli i luoghi veduti; dirò solo che, circa sette ore dopo la nostra partenza da Torre, abbiamo raggiunta la capanna di Cornarossa, inalzata sur un sasso che ha il medesimo nome.
Da questa posizione si vede il grande ghiacciaio di Predarossa che dovrà essere percorso quasi totalmente da chi vuole tentare la salita del Digrazia.
Mi hanno poi detto, e deve essere stato lo Schenatti a raccontarmelo, che ora della capanna di Cornarossa non restano che le mura laterali e il tetto, perchè il vandalismo del contrabbandiere ha distrutto o rubato ogni cosa; perciò chi volesse cercare ricovero dovrà scendere sul ghiacciaio, attraversarlo e portarsi alla capanna Cecilia, donde troverà anche una strada meno malagevole per l’ascensione.
“E qui, poi che siamo arrivati al Rifugio, facciamo pausa e permettete ch’io m’abbeveri e riposi prima di narrare, schematicamente, l’ultima parte del viaggio.”
“Siamo a metà predica?”
“Raccomanda l’elemosina abbondante!”
“Soffiati il naso!”
Ma il canonico tracanna invece un gran sorso dal suo bricco valtellinese il quale, in mezzo agli altri calici raffiguranti montagne, può simboleggiare il Gruppo del Disgrazia: riaccende lo zigaro spento, guarda noi che abbiamo spiegata una carta geografica ed ha negli occhi l’espressione gaudiosa di un Sardanapalo impenitente.
Quando ripiglia il racconto, i pochi che chiaccherano fra loro, o tentano di strappar qualche parola alla guida Schenatti, gli si aggruppano intorno e questo interesse generale anima il canonico che, sorridendo soddisfatto, descrive con vivacità la partenza dalla capanna Cecilia, i passi difficili sulla morena laterale del ghiacciaio che nella sua parte più bassa è un solo crepaccio, trova espressioni felicissime per raccontare l’assalto dato alle nevi compatte e ci fa assistere alla salita, in mezzo al barbaglio candido e continuo, per giungere allo sperone roccioso che sembra formare la spina dorsale del ghiacciaio di Predarossa e che si spinge direttamente lino alla vetta.
“È qui,” dice il canonico con la sua voce forte, nella quale c’è una tonalità nuova prodotta forse da una commozione invisibile, “è qui che, passati tutti, o quasi, i pericoli della salita, io ho respirato a pieni polmoni l’aria che batte le cime, e mi sono arrampicato su fino al cocuzzolo, fermandomi dopo cinque ore di cammino per ammirare, in mezzo al cielo limpido, lo spettacolo delle vette, dei ghiacciai, delle valli, e per ebriarmi dinnanzi a tanta bellezza.
“È impossibile ch’io sappia descrivere quello che ho veduto, bisognerebbe che lo Schenatti sapesse parlare... Ma pure, sentite! Sono passati vent’anni, quasi, da questa mia escursione, ed io sono tanto cambiato che gli amici miei mi hanno veduto impallidire, tremare anche, non lo nego, dinnanzi un pericolo sull’Alpe: ma se io fossi meno... sì, sì diciamolo, fossi meno mastodontico” e pronunciò la frase con un vero senso di dolore “e avessi un po’ dell’ardire che non manca quando si è giovani, vorrei proprio ritornare su, là, in alto, quasi in faccia a Dio e rivedere il panorama ed estasiarmi nell’ammirazione di Pizzo Badile, della Vallata del Masino, del Monte Bianco, del Monte Rosa, poichè si vedono anch’essi, lontani lontani, un po’ sfumati nel cielo!
“Ah che bellezze, amici! Ma è inutile parlarne; io non farei che dire dei nomi: e quelli che valore hanno? È tutta la grande corona dei monti che dominano con le loro foggie diverse, con le loro fisonomie speciali, con le loro sorprendenti maraviglie che ci ammaliano: è il complesso di tante creste vergini e ribelli che agisce sopra di noi: ah! sì, credetemi, in me c’è l’anima dell’alpinista, è la materia vecchia, sorda che non risponde, o piuttosto è...” e fece una pausa breve, “...è una disgrazia, una disgrazia grave, che m’ha fatto pusillanime in faccia alle montagne”.
Il canonico tacque con gli occhi pieni di lagrime. Qualche ricordo ben triste gli ritornava nell’anima; noi lo rispettammo: io ebbi rimorso d’aver qualche volta punto co’ frizzi quell’uomo che non meritava. “Povero Pin!” disse don Flaminio come parlando a se stesso “lo ricordate Schenatti?”
La guida, che aveva dinnanzi a se, fra i calici, la grande pipa spenta, e s’era tirata coi gomiti sull’orlo della tavola, appoggiando e richiudendo quasi la testa nelle manaccie pelose, non disse nulla, non fece neppure cenno di risposta.
Anche il canonico stette zitto un poco, poi, quasi intuito il nostro desiderio di sapere e di compiangere, raccontò, piano, commosso.
Non c’era nulla di nuovo nel suo racconto poichè tutte le catastrofi alpine si assomigliano, eppure, quando in poche parole tratteggiò la figura del Pin, la sua passione per la montagna e la sua fine in mezzo ai ghiacci che aveva tanto amati, noi ci sentimmo stringere il cuore.
Terminato il breve accenno nessuno ardi pronunciare parola: solo, dopo un lungo silenzio, don Luigi si alzò, si tolse la berretta e disse un requiem al quale noi tutti rispondemmo in piedi.
La guida piangeva.
Quando fu detto amen si rimise sulla testa il cappellaccio e tese la mano aperta verso di noi:
“Sentite,” gridò con voce più ruvida e più forte “il povero Pin, il vero re di tutte le nostre montagne, è morto; la montagna l’ha ucciso, è vero; ma se domani il mio angelo custode mi dicesse non andare, non andare, perchè oggi ci resti; io, capite, io...” ed ebbe nella voce un improvviso schianto che parve un ruggito “...io andrei! sì, sì. È perchè voi, non sapete, voi che parlate tanto! ma la montagna, o la montagna è bella, bella!...” e si strinse con la mano la gola per soffocar qualche cosa, ma i singhiozzi gli ruppero il petto gagliardo, e il re del Disgrazia con voce indimenticabile ripetè ancora: “È bella... è troppo bella!...”