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cherano fra loro, o tentano di strappar qualche parola alla guida Schenatti, gli si aggruppano intorno e questo interesse generale anima il canonico che, sorridendo soddisfatto, descrive con vivacità la partenza dalla capanna Cecilia, i passi difficili sulla morena laterale del ghiacciaio che nella sua parte più bassa è un solo crepaccio, trova espressioni felicissime per raccontare l’assalto dato alle nevi compatte e ci fa assistere alla salita, in mezzo al barbaglio candido e continuo, per giungere allo sperone roccioso che sembra formare la spina dorsale del ghiacciaio di Predarossa e che si spinge direttamente lino alla vetta.

“È qui,” dice il canonico con la sua voce forte, nella quale c’è una tonalità nuova prodotta forse da una commozione invisibile, “è qui che, passati tutti, o quasi, i pericoli della salita, io ho respirato a pieni polmoni l’aria che batte le cime, e mi sono arrampicato su fino al cocuzzolo, fermandomi dopo cinque ore di cammino per ammirare, in mezzo al cielo limpido, lo spettacolo delle vette, dei ghiacciai, delle valli, e per ebriarmi dinnanzi a tanta bellezza.

“È impossibile ch’io sappia descrivere quello che ho veduto, bisognerebbe che lo Schenatti sapesse parlare... Ma pure, sentite! Sono passati vent’anni, quasi, da questa mia escursione, ed io sono tanto cambiato che gli amici miei mi hanno veduto impallidire, tremare anche, non lo nego, dinnanzi un pericolo sull’Alpe: ma se io fossi meno... sì, sì diciamolo, fossi meno ma-