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stodontico” e pronunciò la frase con un vero senso di dolore “e avessi un po’ dell’ardire che non manca quando si è giovani, vorrei proprio ritornare su, là, in alto, quasi in faccia a Dio e rivedere il panorama ed estasiarmi nell’ammirazione di Pizzo Badile, della Vallata del Masino, del Monte Bianco, del Monte Rosa, poichè si vedono anch’essi, lontani lontani, un po’ sfumati nel cielo!

“Ah che bellezze, amici! Ma è inutile parlarne; io non farei che dire dei nomi: e quelli che valore hanno? È tutta la grande corona dei monti che dominano con le loro foggie diverse, con le loro fisonomie speciali, con le loro sorprendenti maraviglie che ci ammaliano: è il complesso di tante creste vergini e ribelli che agisce sopra di noi: ah! sì, credetemi, in me c’è l’anima dell’alpinista, è la materia vecchia, sorda che non risponde, o piuttosto è...” e fece una pausa breve, “...è una disgrazia, una disgrazia grave, che m’ha fatto pusillanime in faccia alle montagne”.

Il canonico tacque con gli occhi pieni di lagrime. Qualche ricordo ben triste gli ritornava nell’anima; noi lo rispettammo: io ebbi rimorso d’aver qualche volta punto co’ frizzi quell’uomo che non meritava. “Povero Pin!” disse don Flaminio come parlando a se stesso “lo ricordate Schenatti?”

La guida, che aveva dinnanzi a se, fra i calici, la grande pipa spenta, e s’era tirata coi gomiti sull’orlo della tavola, appoggiando e richiudendo quasi la testa nelle manaccie pelose, non disse nulla, non fece neppure cenno di risposta.