In Valmalenco/Capitolo XXVI

Capitolo XVI. A cavalier del Muretto.

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Capitolo XVI. A cavalier del Muretto.
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A cavalier del Muretto.


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XXVI.


Quando, arrivato a Chiareggio, entrai nella piccola ed unica osteria del paesucolo e, salita la scala tarlata e lurida, fui nella stanza che serve tanto agli avventori come alla famiglia dell’oste, mi venne incontro e mi sorrise, riconoscendomi, il vecchietto arzillo e secco che mi aveva già ricevuto un mese prima col maestro e Gervaso.

“Solo?” mi domandò nel suo dialetto romancio, maravigliandosi un poco.

“Solo!” risposi sedendo in un angolo, sur una panca, dinnanzi un tavolaccio; e salutai con la mano una bionda che allattava un bimbo grasso e sporco nell’angolo opposto.

“Vuol tornare, su, al lago, a pescare?”

“No, no: vo’ fare il passo, se il tempo si mantiene buono, discendere al Maloia e poi tornar súbito indietro.

“Portatemi da bere” dissi all’oste, “e fatemi preparar un letto”. [p. 272 modifica]

Mangiai una parte delle mie provviste, scorsi due o tre numeri di un giornale socialista, unica biblioteca del luogo, poi, condotto in una stamberga attigua, mi buttai sul giaciglio preparato apposta per me.

Il frastuono del torrente e il pensiero d’essere così vicino ai confini d’Italia, che il giorno dopo avrei raggiunti e varcati, mi impedì di prendere sonno: stetti così sveglio gran tempo: infine gettai indietro la coperta, scesi, giunsi tasteggiando alla finestra e ne spalancai le imposte massiccie. C’era un bel chiaro di luna e una parte della vallata, quella visibile dal mio posto d’osservazione, biancheggiava bellissima. Volli uscire, per abbracciar collo sguardo tutto l’altopiano di Chiareggio sotto il placido incanto lunare, ed uscii infatti, soffermandomi in mezzo alla piazzetta deserta che dà sul torrente. Qui mi volsi a riguardar la catapecchia che m’ospitava; nel lume d’argento, essa, e le cinque o sei casupole del paese, con la chiesetta di Sant’Anna a sinistra, e una stalla a destra, dietro la quale spiccavano candidi i muri della caserma in costruzione, acquistavano un aspetto nuovo, poetico; simile a quello delle casette che tutti abbiamo veduto biancheggiare nei presepii, sotto la coda di una cometa raggiante.

Io stetti a riguardare, preso da un senso d’ammirazione sempre più viva: ad est la valle appariva chiusa dal Monte Nero che la luna faceva azzurrognolo, alla sua sinistra, biancastro e crestoso, si profilava il Sasso d’Entova, ed, a nord, [p. 273 modifica]il Fora poderoso e gigante. Mi volsi a riosservar ancora quella parte della valle che aveva potuto guardar dalla finestra, e vidi i corni della Pirola di buona memoria, splendere quasi nel cielo: Strada per il Sasso ed il lago d’Entova. scorsi anche il Pizzo di S. Martino, il Monte Bissone, la cima di Rosso, e fermai la sguardo sulle sue vedrette, che riflettevano la luce argentina, brillando. [p. 274 modifica]

Guardava da un po’ allorchè un coro di voci giovani e maschie superò il muggir del torrente.

Il canto veniva dalla vecchia caserma dei finanzieri, che io distinguevo benissimo sulla destra, fuor dal paese.

Che effetto strano producevano le voci perdentesi nell’ampia distesa illuminata, sotto il cielo di un azzurro terso ed oscuro!

Poi il canto tacque...

Il fiotto bianco del torrente fragoroso, riprese il sopravvento; e il suo scroscio continuo ed uguale, mi fece, per contrasto, sentire più solenne e più alta la grande pace che regnava sull’altopiano di Chiareggio.

* * *

L’aurora mi trovò a mezzo l’Alpe dell’Oro1 su per il vallone, spoglio d’ogni arbusto, rotto e bizzarramente intersecato da massi giallastri, venato qua e là, nei solchi, da filoni di neve, orrido in alcuni punti per il soprastar di roccie o lo sprofondare di chine, noioso in certi altri per la mancanza d’ombra e di verde.

Era in cammino, tutto solo, da un’ora: partito da Chiareggio aveva seguito la strada mulattiera, girando la base dell’Alpe, era poi salito, tenendo [p. 275 modifica]sempre il sentiero e costeggiando a tratti il Mallero, che offriva ogni poco allo sguardo rapide e cascate, ed ora speravo d’arrivar presto alla Zocca, di passar veloce attraverso il nevaio e di fermarmi a mezzo lo sbocco, fra l’Italia e la Svizzera, per veder finalmente il paese vigilato dagli spiriti austeri di Segantini e di Nietsche.

Con questo bisogno che si faceva sempre più vivo, diventando quasi ansia, raggiunsi la Zocca, e incominciai a salire per il nevaio.

Qui non fui più solo: il mio pensiero mi finse allato un compagno, Bertacchi, il cantore del Muretto e della sua nube; e, in mezzo alla neve, dove per me non c’era nessuna buona fedeltà di orma, mi tornarono alla mente certe sue strofi semplici e scultorie, nelle quali, oltre alla bellezza e alla verità del paesaggio, aveva sentito palpitare l’anima e l’umiltà del poeta.

Anche Bertacchi ha camminato faticosamente per la mulattiera disagevole, egli ha voluto attingere una nube limpida, calma, pura, che stava quasi a fiore del clivo, bella come un sogno bianco, brillante come un velo di rugiada, e:


.... nell’ansia d’un ultimo conato,
puntando il piede, curvando la fronte,
col petto anelo e l’occhio abbacinato
quell’ostinato margine di monte
fu vinto alfine. S’allentò la fiera
fatica e l’ansia su la curva altura.
Ma l’anelata nuvola non era
                         lassù: limpida pura

si librava lontano, alta nell’aria.

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Dunque il cammino era stato inutile?

No!

La nube non s’era lasciata toccare, ma il poeta, a cavalier del varco, rivolgendosi alla forma pellegrina ed aerea aveva potuto prorompere con sincerità pari all’entusiasmo:


     Divino inganno, che vivendo amai
più della salda realtà vivente,
nube dei monti, nube dei nevai
sempre offerta allo sguardo eppur fuggente;
se ho durato per te nei nembi cupi,
se cercai come un figlio i focolari,
se ho potuto salir per nevi e rupi
               ai varchi aperti e chiari,

un mio scopo di fede ho anch’io raggiunto,
la mia parte di bene ho anch’io compita
e ne sia lode al fascino inconsunto
che tu m’offristi al sommo della vita.
Per te, santa straniera, oltre il mio mondo,
come in una promessa alba remota
perenne spaziò l’aereo sfondo,
                    la lontananza ignota.

Bello salir la montagna con simili strofi nell’anima, che fanno più larga e comprensiva la visione della vita e del paese!

Bello anche per chi s’arrampica, non per toccare il suo sogno, la sua nube; ma per ammirare e comprendere il grande sogno degli altri.

E fui io pure a cavalier del Muretto e vidi giù, dalla parte opposta, la scarpa dirupata, il grande nevaio di Pian Canino, la selva e poi dietro tutta l’Alta Engadina con i suoi laghi azzurri e [p. 277 modifica]palpitanti e con le sue montagne enormi; vidi i ghiacciai di Roseg e della Bernina; sentii come effusa nell’aria, come distesa sul panorama, ed imminente sopra l’anima mia una sensazione illimitata di grandezza.

Senza passato andrò senza avvenire,


dice Bertacchi nel suo Un inverno al Maloia, appena può spingere l’occhio sul candido e muto altopiano dell’Engadina: e la sintesi di questa regione, chiusa in un verso solo, e riflessa sopra l’anima medesima che l’ha così colpita e sentita, non potrebbe essere più vera e più intensa.

Che cos’è il passato e che cosa potrà essere l’avvenire, di fronte alla visione di questo lembo fortunato di terra, che occupa di sè tutto il nostro presente?

Noi non sappiamo più che strada abbiamo battuta ieri, e dove andremo domani; il presente, con la sua magnificenza, ha distrutto il passato, ed invaso l’avvenire; noi non vediamo, non respiriamo, non ci esaltiamo che per la grandezza e per la bellezza che trionfa dinnanzi a noi, sulle vette, nelle conche, in mezzo ai laghi ed in cielo.

Quando poi pensiamo che una parte, per quanto piccola, di questa Engadina è geograficamente nostra, il godimento e l’entusiasmo si fanno maggiori, diventano quasi legittimi.

È per questo che anch’io, per un bisogno dello spirito, dopo che tanti altri l’hanno ripetuto a sazietà, grido tutto il mio amore per l’Engadina [p. 278 modifica]e rimango su questo confin della storia2 oltre l’uomo ed oltre il tempo3 ad estasiarmi e a sognare Ecco: sotto me l’oasi, con la striscia dell’Inn, si vela, si perde lontano...

I grandi acrocori che la fiancheggiano, dallo scintillio delle vette, passano all’aspro grigiore delle roccie, quindi al cupo raccoglimento delle pinete, per sorridere ed offrirsi come una culla nel chiaro verdeggiar dei prati; sui quali è diffusa una flora tenue e variopinta, che mette nella chiarezza un senso di misticismo soave.

Chi è riuscito ad approfondire l’arte di Segantini prova più viva, dinnanzi l’originale che ha ispirato il pittore, la suggestione di forza e di delicatezza, la poesia selvaggia e mite che si eleva da questa valle di grazia e di potenza....

... Io guardo e sogno...

Per inavvertiti ritorni letterari mi balza nel pensiero:

Ischia, amor di poeti, isola vaga4


tragicamente fessa dal terremoto; che, dopo la catastrofe, deve aver assunto un aspetto per certi riguardi simile all’Engadina, pieno cioè di crepe, [p. 279 modifica]di pericoli, di morte e bellissimo ancora per distese verdi e per margini in fiore...

Discendo dal varco, e, mano mano, l’orizzonte si restringe e la sensazione infinita di grandezza scema: il presente non assorbe più ne il passato nè l’avvenire.

E la storia di questa regione mi passa a volo nell’anima!

Io vedo, nell’alba lontana della nostra civiltà, uno dei primi popoli italici, gli Etruschi, rifugiarsi su queste alture per isfuggire al dominio dei Galli: poi l’epoca romana; i nomi stessi dei luoghi, sparsi laggiù fra le pendici, a specchio dei laghi, sono testimoni della sua grandezza!

Chi di noi non si commove passando per la via Julia, per il colle del Septimer, per la vai di Druso; e sopratutto udendo il dialetto indigeno, che ritiene la dolcezza fluida e pastosa della lingua latina?

E più innanzi nella storia, ecco il medio-evo!

Crociati e pellegrini, mercanti e guerrieri, tutti, per la via Julia, venendo dal Reno passarono di qui diretti a Venezia, alla Grecia, all’Egitto, alla sacra Gerusalemme.

Nei tempi moderni, quando Grigioni e Valtellinesi combatterono alcune delle più aspre guerre che la storia ricordi, i confederati delle tre leghe, ancora per irrompere in Italia, percorsero questa strada e valicarono questi monti, portando lo sterminio e la desolazione nei paesi soggiogati.

Un’aureola di gloria, e una gora purpurea di sangue avvolgono questo ridente lembo del mondo, [p. 280 modifica]che fa tramite di ogni idea civile e testimone di ogni barbara ferocia.

Mentre sulle deserte cime dell’Alpe è la storia della natura che ci si rivela, qui è la storia dell’uomo: mentre là sono le remote e fredde epoche geologiche, che ci confidano i loro secreti, qui sono gli evi dell’umanità, frementi ancora di passioni e di ire, di gesti magnanimi e di émpeti generosi, che si svolgono dinnanzi agli occhi della nostra mente.

E c’è qualche cosa, nella storia degli uomini, di più profondo e di più vicino a noi, che nella storia della natura; le bufere del mondo morale sono più terribili talvolta degli sconvolgimenti del mondo fisico; la sofferenza e la gloria di un popolo ci interessano più che l’increspamento di uno strato di roccia...5.

E basti questo scorcio di un grande passato e di un grande martirio a dimostrare vieppiù la bellezza engadinese, che fu e che sarà d’ogni tempo.

Basti: poichè bellezza e martirio sono spesso [p. 281 modifica]sinonimi ed è forse per loro che l’Engadina si trasforma in una maga, afferra il visitatore e l’affascina e lo domina. Però, finchè egli è nel suo intero conspecto l’anima sua non può ricordare la storia, l’anima sua non può sognare il futuro.

* * *

A notte, quando la luna lumeggiò placida, salii al piccolo cimitero dove riposa Segantini.

Sulla fossa, distribuiti da non so chi, c’erano a manelle i fior d’Engadina.

Vidi, sotto il raggio lunare, gli anemoni gialli, le genziane azzurre e i rododendri scarlatti; vidi anche le soldanelle flessibili e i fior di stella bianchi: in mezzo c’era un gran ramo di pino.

Io rimasi sul margine erboso; il bosco, al di là del muricciolo, taceva, la convalle non aveva che il fioco brusir dell’Inn e dell’Orbegna: per tutta la montagna era un silenzio immenso.

E mi parve che in quel silenzio, dalla fossa profumata, in mezzo al biancor del paesaggio, si levasse una forma nuda, bellissima: la statua di Leonardo Bistolfi che riproduce l’opera e l’anima di Segantini.

La vidi candida, perfetta, uscir dal suo macigno e adergersi, trasfigurata, dentro la luce bianca e nella quiete solenne.



Note

  1. Il passo del Muretto illustrato con fedeltà e chiarezza da Ottone Brentari nel Corriere della Sera del 30 Agosto 1906.
  2. Un inverno al Maloia, sopra citato.
  3. “A 6000 piedi, oltre l’uomo ed oltre il tempo” inscrisse Federico Nietsche a sommo del foglio in cui fermò la grande e fantastica idea dell’eterno ritorno dell’identico quando questa gli balenò in una delle foreste circostanti al lago di Silvapiana.
  4. Poesie - Marradi.
  5. Un’indisposizione di Ruggero e il mio ritorno a Milano che non ammetteva dilazioni, mi costrinsero a tentar il passo da solo.
    Radice lo superò più tardi, e, benchè il desiderio di parlarne fosse grandissimo, volle usarmi la cortesia generosa di passar sotto silenzio il suo viaggio al Muretto, perchè restasse al mio lavoro un che di fresco e di nuovo.
    Io, ricordando la bontà dell’amico, e non è la sola, a distanza così breve dalla sua fine, per amore e per giustizia sento di dovergli molto e credo di far cosa grata alla sua memoria ricordando qualcuna delle idee grandi e belle che gli hanno in ultimo arriso.
    (“Suggestioni engadinesi. Alle sorgenti dell’Inn” - Osservatore Cattolico e Pensiero Latino, Settembre-Ottobre 1906).