In Valmalenco/Capitolo XXV
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In Val Brutta.
XXV.
Passata la parte più ripida della salita della Lua, un sentiero a zig-zag nella montagna conduce in Val Brutta.
Un’altra strada dicesi immetta in questo angolo chiuso, così bizzarramente denominato, ma non la consiglio, per due ragioni: perchè non l’ho passata io stesso e quindi non ne posso riferire e perchè, chi l’ha tentata e ne parla, fa rizzare i capelli in testa a chi ascolta.
Questa seconda via parrebbe la più naturale, perchè non fa che risalire il corso del Lanterna, invece è, se non inaccessibile, certo pericolosa, emozionante, e, in alcune stagioni, impraticabile: chi volesse tentarla deve, rimontando il corso del fiume, arrampicarsi per un dirupato scoscendimento della montagna, allato le mugghianti cascate, arrivare fino alla gola, dalla quale si slanciano le acque e, di lì, passare nella valle, che sta subito dietro la sella cupa e vischiosa.
Migliore certo il primo sentiero accennato; seguendolo si discende per breve tratto in mezzo ai detriti delle cave d’amianto, si procede attraverso un graziosissimo avvallamento erboso, qua e là rotto da macchie di pini e di larici, quindi si imbocca una quasi galleria formata da due speroni del monte che s’avvicinano rocciosi, cenati, zeppi di grandi lastre franate.
Quest’ultimo punto in modo speciale mi pare pittoresco; è il degno peristilio di Val Brutta.
Io e Radice, soffermatici alquanto in ammirazione dinnanzi l’effetto strano e piacente di quei grandi blocchi disordinati, per communicarci la nostra impressione e studiarla un poco, ci siamo persuasi della bellezza e dell’orrore del luogo, tanto da provar dispiacere per non aver portato con noi la macchina fotografica.
Proseguiamo, ed ecco, al termine dell’anfrattuosità scheggiata e nera che ci guida, aprirsi, scendendo ripida, Val Brutta.
E il piede si ferma, l’anima è sospesa.
A differenza dell’altre valli, questa ci si presenta quasi rotonda e, torno torno la sua periferia, come scattate improvvise e diritte nell’aria per una forza endogena potentissima, balzano e stanno le montagne alte, acute, verdastre: giù nel pianoro erboso e ondulato, di un verde che ha grande intensità di colore, corre biancastro il Lanterna; sulle rive è qualche catapecchia bassa e cupa.
Ciò che suggestiona al limitare della valle è il contrasto fra il piano e i monti che lo chiudono.
Non ho mai visto, altrove, nella natura, un’antitesi così stridente!
È bello questo angolo di Valmalenco?
Certo produce in noi qualcosa di indefinibile.
Guardando giù Val Brutta io credo notare in me uno spavento simile a quello si prova per un pericolo ignoto e lontano, lo sconforto che assale chi, d’un tratto, conosce la sua piccolezza e la sua miseria; ne so spiegarmi il perchè di un così strano sentire.
C è anche, questo forse più sensibile e quindi più avvertito, una parte di noi, quella fatta di senso oscuro, di ribellioni, di ferocie tramandateci dagli avi primi e soffocata dall’educazione, dall’ambiente, dalle convenzionalità; che sorge, torna in cima all’anima nostra, rompendone, sconvolgendone gli strati dei quali è idealmente contesta, per communicare in modo più diretto con la natura selvaggia che la circonda, poichè fra l’una e l’altra ci sono rapporti di violenza e d’orrore.
E la pianura, giù in fondo, così morbida, così bella; stretta fra i monti arcigni e minacciosi ci appare come terreno di conquista, e noi caliamo ebri di vandalismo, felici di trovare ogni tratto cave d’amianto lacerate ancor dalle mine, dove il piccone ha ferita la valle e l’ha frugata, quasi a sorprenderne ed a violarne la verginità dolce ed antica.
Corriamo giù e il sentimento nostro nella discesa si trasforma.
Forse per l’erba tenera è molle?
Sono le prime ondulazioni della valle che smussano gli angoli aspri del nostro pensiero?
È invece la reazione logica di esso che si va formando in noi, o piuttosto il rifiorire di un sentimento insito nell’anima nostra, che ci vuole dolci, che ci chiama alla bontà e all’amore?
Quando siamo discesi e ci troviamo in mezzo alla prateria larga, l’anima nostra è ritornata buona, pervasa un po’ ancora da una malinconia sottile: camminiamo sul tappeto, fra le zolle soffici, guardati dai monti che minacciano rigidi, e che appaiono più tetri, più nudi, più alti e più acuti, solo perchè sorgenti da un pascolo così fresco e verde: vedute dal basso, le catene che strozzano Val Brutta, acquistano forma e carattere di guardiani sordidi, intenti a sorvegliare una preda agognata e gentilissima, stretti sopra di essa per timore di una ribellione o di una fuga, e nel medesimo tempo egoisticamente felici del possesso, come lupi famelici che abbiano azzannata una pecora bianca.
Così la Cima Sassa, l’Alpe Campaccio, l’Alpe Palù di Caspoggio, il sasso d’Agneda ed Argone Inferiore, eterni custodi della valle sono riusciti per l’orridezza loro a farla denominare con l’appellativo che conosciamo.
È brutto davvero quest’angolo di Valmalenco?
Io trovo ora di aver formulate due domande opposte, certo di non poter rispondere nè all’una, nè all’altra.
Le impressioni così strane e divergenti, che la valle mi ha suscitato, mi costringono però ad assicurare che siamo dinnanzi ad un gran bel brutto.
Non giuoco sulle parole, basterebbe a dimostrare la sincerità della mia frase, uno sguardo alla sella che il Lanterna ha scavato fra la Cima Sassa ed Argone Inferiore.
Io mi sono spinto verso la gola, - seguendo la corrente che presso il valico si fa più irrequieta, diventa più mossa, inarca le sue creste, batte contro i massi, si ripiega, si gonfia e ribolle sempre biancastra, sempre più veloce - e mi sono portato sopra uno degli speroni neri, che si avvicinano come per chiuderle il passo.
Superando la cresta, dove c’è una traccia minima di sentiero, sono arrivato all’inizio delle cascate.
Qui l’orrido è sublime!
La valanga d’acqua bianchissima, tuona, precipitandosi nel baratro; s’infrange contro gli scogli acuti, cozza contro massi enormi, rimbalza, riascende per ricadere più furiosa e più urlante, investita da un fiotto nuovo, contro cui si ribella invano.
Così schiacciata, polverizzata, nivea, trascinando nell’émpeto macigni che rimbalzano con tonfi spaventosi; si divide per gli ostacoli inamovibili, in parecchie cascate; ma si riunisce più sotto, e allora spumeggia, si torce, flagella le roccie, schiaffeggia i pinnacoli che la spezzano, si cinge di vapori, come per celare la sua maestà crosciante e la sua bianchezza luminosa; investe con tutte, le sue forze, nell'ultimo salto maraviglioso, il piede del monte, rigurgita violentissima con úlulo impotente, s’incanala fremendo rotta e smania, prosegue con veemenza ancora, s’allarga... poi la sua foga cede, s’ammorza fiottando: qua e là ruotano gli ultimi gorghi minacciosi, quindi le onde mano mano si quetano finchè diventano increspature lievi e l’acqua, riacquistato il suo colore biancastro, va regolare e piana.
Tutto questo frastuono e questo candore fa contrasto col nero umido delle montagne che si avvallano improvvisamente ed echeggiano.
Come non si può commoversi, esaltarsi dinnanzi a simili orride bellezze?
Io mi domando dove mai ho visto un alveo di torrente più pauroso, più tormentato; e la mia immaginazione mi ricorda le rive slabbrate del fiume Dezzo, in Val di Scalve, là dove incomincia la via Mala Bergamasca; io rivedo certi scoscendimenti formati dalla corrosione delle acque nel Cadore, il pensiero mi rappresenta in tutto il loro pericoloso precipitare altre strade montanine già troppo lontane nei miei ricordi alpinistici: ma nessuna ha la caratteristica di questo letto del Lanterna, al cui fianco, or si or no, appare la traccia minima del sentiero che vorrebbe condurre alla valle, e sembra invece guidar giù diritti a fracassarci le ossa.
Si racconta infatti, e una croce messa sul sentiero della Lua, quasi in faccia alle cascate, resta a testimoniare la tradizione commovente, che un tempo, una giovinetta bulla e gentile, trasportata dalla furia dell’acqua, sia rotolata giù e del suo corpo non siasi trovata più traccia.
Alcuno assicura che ella, inconscia dal pericolo, volesse discendere per il sentiero a fianco delle cascate, guidando le capre; altri invece che, balzata nell’onda per togliervi un’agnella caduta, non potesse resistere all’irruenza del torrente; qualcuno crede a una morte volontaria dovuta ai begli occhi di un pastore infedele.
Sia come si vuole: se la leggenda parla di vittime umane, la storia di ogni giorno può ricordare le sue catastrofi, ed ognuno di quei massi, battuti dalle spume bianche, può dire il gemito dei ruinanti.1
Ed è questa forse l’impressione maggiore che a me ed all’amico mio ha lasciato Val Brutta; poichè il suo orrido aspetto, che il pianoro verde fa più tetro, i suoi pericoli veri o fittizii, le sue acque, perfino le sue catapecchie che paiono tombe crollanti, ci hanno insinuato nell’anima il senso tragico della morte violenta.
C’è qualcuno che vuol provar tutto nella vita?
Avanti allora, omai sa quali strade conducano in Val Brutta e quali sensazioni ella dia.
Note
- ↑ Triste è la postilla che aggiungo a questo capitolo.
L’amico mio, il mio fratello d’anima, Pier Ruggero Radice, pochi mesi dopo, per un’improvvisa ricaduta, si spegneva a Milano; e, in una delle ultime notti di sua vita, per un desiderio ansioso d’aria pura e di salute, mi ripeteva frammentariamente, ansando, le impressioni ricevute da Valmalenco e quelle violenti che gli aveva lasciate Val Brutta.
Mentr’io sentiva la sua mano sudata rabbrividir per la febbre nella mia, tremare forse pel desiderio d’abbrancarsi alle rupi, sotto il sole e i venti, un parallelo tragico fra Val Brutta e la rovina della sua giovine esistenza mi si levò spietatamente nell’anima.
E allora, anche l’anima mia, anche le mie mani tremarono in un brivido angoscioso, anche le lagrime mi tremarono negli occhi e le rattenni a stento per non arrecargli dolore...