In Valmalenco/Capitolo XVI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XV | Capitolo XVII | ► |
All’Alpe Pirola.
XVI.
Ho riposato un poco, perchè la salita al Pirola è molto faticosa e molto erta, poi mi sono guardato d’intorno: mi circondano creste più o meno aguzze e nevose, seminate di roccie enormi e di gande, rotte da vedrette e raramente da strati d’erba etica, o da pini nani, piccoli, che paiono giocattoli da bimbo.
Sotto le creste, discendendo, i sassi e la neve scompaiono; i pini si fanno più alti, discendono a striscie allineate, alle quali si aggiungono lateralmente altre striscie, e il boschetto s’adagia sovra un prato tenero.
Abbassandosi ancora nella valle, il bosco s’allarga e l’erba si fa più fitta e più verde.
Ma chi è salito, se misura con l’occhio l’altezza raggiunta, prova un senso d’orgoglio; se guarda invece sopra di sè le altre vette, comprende la sua pochezza, e se, al di là di esse, è lo spazio nitido, azzurro, infinito, il saliente s’appoggia sull’alpenstok, ammira, pensa e si sente sperduto nell’immensità, un nulla in mezzo alla natura grande.
Io penso così, mi sento così microscopico, guardando in faccia a me, verso oriente, il massiccio verde sassoso del Senevero e precisamente il Pizzo delle Zocche; alla mia destra, sopra il dosso erboso che mi ospita, e sul quale spiccano nerastre le baite e si muovono scampanellando le capre e le vacche, stanno orridi, nudi, in alcuni vertici appuntiti come parafulmini, i pizzi della Pirola, che si raggiungono arrampicandosi per i scarpe di calcare giallastro, saltando fra masso e masso, aggrappandosi talvolta a ciuffi d’erba selvatica che punge. Dietro me è il Zizzone, sotto il Lavezzeda; a fianco dell’uno e dell’altro il monte Rosso e il ghiacciaio del Forno che si vede per iscorcio, velato da una nube sottile di nebbia.
Dopo la montagna rossa, che deve il suo nome ad una rete pallidamente sanguigna di vene, di sentieruzzi e di scoscendimenti liberi d’erba, stai più basso, formando due selle, il monte Muretto. Si accede alla sella destra (passo del Muretto) per una strada mulattiera, facile, subito dopo la quale il pendio s’eleva ripido e, alla mia sinistra, scorgo l’alpe dell’Oro, a sassi, a boschi, a prati, che gira e si nasconde dietro il Senevero, pigliando i nomi diversi di Solco e di Fora: visibilissima, dietro e sopra quest’alpe, è la catena Tramoggia col passo omonimo e, più lontano, destra, l’Entova che ci nasconde il suo lago.
Io guardo, penso e m’assale una nostalgia sottile; mi trovo fuori di posto in mezzo a queste montagne, dove quasi non c’è traccia umana, o, se appena è visibile, è così miserevole da fiaccare tutte le superbie, tutti i sogni di gloria, tutti gli impeti di giovinezza e d’audacia.
Io guardo, penso e mi domando che cosa è una baita fumosa a ridosso del monte, che cosa è un sentiero, che cosa è un grido, uniche opere e manifestazioni umane accessibili quassù, a confronto delle caverne, abitazioni di stalattiti e di quarzi, rispetto agli alvei dei torrenti, alle diritte incassate vie delle frane, anche rispetto ai boati delle vedrette che si dirompono pel sole? Non so e non posso rimanere molto in faccia alla grande natura, poi che essa mi affascina e nel medesimo tempo mi distrugge; ecco perchè io, i tutti credo, ci opponiamo a questo tentativo che l’universo fa per assorbirci chiudendo gli occhi, lasciando che il pensiero nostro corra ad altri luoghi, ad altre persone; specialmente ad altre persone, perchè la loro compagnia spirituale ci fa più forti, ci permette di resistere contro la natura o, perlomeno, di momentaneamente obliarla.
Ecco allora che tutte le nostre affezioni, le nostre abitudini, la nostra vita di un tempo, violentemente spezzate dalle impressioni diverse e nuove dell’ascesa, ci ritornano nell’anima gradite e vere: gradite, perchè ci distolgono dall’annullamento di noi medesimi prodotto dalla natura, vere perchè le affezioni, le abitudini, la vita nostra, che qualche volta sono disturbate da piccolezze, molestate da fastidii, annoiate da bizze, ci appaiono ora senza alcun contorno disturbatore, si librano sulla montagna dove l’aria è pura, nette e precise quasi uno stormo di falchi.
Come sono fiorite nell’anima mia le immagini dei miei cari! come la mamma mie apparsa nei suoi atteggiamenti diversi, sempre bella, sempre buona! come l’ho accompagnata passo passo, per tutta la sua vita, e mi sono avviticchiato alle sue gonne, come quando ero bambino pauroso! come l’ho rivista cullarmi, baciarmi, accarezzarmi, mettermi a sera le manine in croce, farmi pregare, pregare con me! come l’ho risentita piangere per le mie scappate più gravi e perdonarmi e benedirmi fra una lagrima e un sorriso! Qui, sulla montagna, dove per effetto nostalgico le affezioni si svelano in tutta la loro interezza, io ti comprendo veramente, o mamma, io ti sento in tutta la tua abnegazione, ti amo per i dolori fisici e morali che hai sopportato per me, e abbraccio tutto il tuo amore, che mi par più grande, che mi par più alto della montagna e della natura: io qui ti capisco sublime, o mamma!
Ma non te sola; l’immagine delle sorelle, quella viva, quelle morte, mi si presenta dolcissima e mi circonda di altri affetti gentili.
Io vi rivedo e vi riannodo tutte, per un filo solo di ricordanze soavi; anche la più piccina che non ho conosciuto, che non ho pianto; anche i nonni; e mi è caro rivedervi con gli occhi dell’anima e, per un ritorno di dolcezze e di dolori passati, commovermi, sentire che vi amo sempre.
In questo momento
non so... il cuore mi duole e trema tanto, |
.... Un grido, un richiamo:
“Ohe!”
Chi mi strappa a questa nostalgia che mi pervade e mi trasporta tanto lontano?
È Gervaso col maestro; i miei due compagni di viaggio: essi s’incamminano per raggiungere i pizzi, discendere al lago Pirola, gettar gli ami e pescare; io li seguo e, fra passo e passo, ricordo il cammino già fatto da Lanzada al Ponte del Curlo sul Mallero, poi, seguendo sempre il fiume, ricordo d’essere passato per le cave d’ardesia, d’aver faticato sui poggi e d’essere disceso in faccia a S. Giuseppe, d’aver continuato per due grandi spianate percorse da lingue d’acqua, poi, attraversato pinete fragranti, e, finalmente d’essermi fermato a Chiareggio: qui si è intrapresa la salita dell’alpe Pirola che continua tuttora. Si cammina, senza riposo, per la montagna disagevole, guardando tratto tratto fra i pizzi acuti e selvaggi, da dove scendono frane immani e dirupi.
E avanti, avanti! In cima d’uno di essi il maestro, che guida, ha un oh! lieve di soddisfazione e un gesto che prega di fare silenzio.
Gervaso ed io gli siamo ai fianchi.
Sotto di noi, quasi ai nostri piedi, è il lago Pirola, originalissimo per la limpidezza azzurro chiara delle sue acque, circondate da spiaggie rotte, acuminate, che pare abbiano terminato allora allora d’azzuffarsi e sieno rimaste in un disordine incredibile, indescrivibile.
La mia impressione prima, dinnanzi al lago Pirola, è quella di soprastare all’opera demolitrice di un’immensa mina, che, dilaniatoli vertice della montagna, abbia al fumo, alle fiamme, allo scroscio, lasciato sottentrare l’acqua azzurra e cristallina, nella quale, senza pericolo, guizzano le trote macchiettate di rosso.
Il lago ha meno di un chilometro di lunghezza e forse mezzo di larghezza; in esso si rispecchiano con tremolio leggero, quasi senza velo, le cime della Pirola che vi piombano a picco.
L’abbiamo girato, cercando di avvicinarci all’onda per buttar la filagna, ma non siamo riusciti ad altro che a stancar le braccia e le gambe in una ginnastica spesso pericolosa, perchè, se in alcuni punti il piede fallisse, addio! un capitombolo, che può variare da dieci a cento metri, e... dritti nel lago.
Ho cercato di indovinarne la profondità; mi è riuscito impossibile: ho gettato dei sassi e li ho visti discendere, adagio adagio, e li ho seguiti con l’occhio, finchè non son diventati ombre e non si sono confusi nel ceruleo dell’acqua.
I miei compagni, che dapprima parlavano a soffi per non disturbare i pesci, terminato il giro del lago senza averne infilato uno solo, si guardavano e mi guardavano con certe faccie avvilite, in pelle in pelle alle quali c’era un grosso dispetto, ed io, dimenticata per l’ultima ginnastica la nostalgia che mi pungeva, ricambiava le loro occhiate con certe altre che volevano essere ironiche, anche perchè accompagnate da un sorrisetto maligno.
Ma un frizzo, una barzelletta dissipano subito il dispetto, e si ridiscende ridendo alle baite, dove polenta e latte servono da misera cena; ma essa è condita da tanto buon umore e le risa sono così cordiali e schiette e lunghe, che io non so come, quando, e se ne potrò schiattar d’altrettali.
Fa le spese della conversazione una certa signora Cecilia, amica comune, mattacchiona simpatica, botte semovente, che dà poi certo vino tutto frizzi e punture, alla quale, pochi giorni prima, aveva dedicato ed inchiodato sulla porta un sonetto dal titolo: Grassa Cecilia.
Gli amici miei in gazzarra lo vogliono sentire ed io lo recito loro, con il gesto apposito e l’enfasi necessaria:
“Se voi siete stecchetti, o passanti,
qui davanti la casta dimora
rimanete, con timpani e canti,
tutti quanti, o passanti, lung’ora;
e pregate, con urla, con pianti,
o stecchetti, finchè venga fuora
e rimpolpi vostr’ossa crocchianti
una ben corpulenta signora!
Giù con ambo le mani e i ginocchi,
che nessuno la guardi e la tocchi;
ch’ella tutta la polpa vi dia
che le cresce davanti e di dria!
Vedi? Pure il mio corpo s’umilia,
o, rimpolpami, grassa Cecilia!”
E si ride, si ride, e si uniscono a noi, forse perchè il riso è attaccaticcio, i montisti che ci hanno ceduta parte della baita, e il cane, anche quello forse per compagnia, abbaia, scodinzola e su in cielo romba il tuono.
Si cerca riposo nella baita, si fa una fiammata, poi ci si butta sul fieno, ricoprendoci alla meglio, e si aspetta il sonno. Ma il sonno non viene, vengono invece fra gli interstizii e mi spruzzano piccole goccie d’acqua, e sento la baita, squassata dal tuono e dalla raffica, palpitare e rabbrividire come persona dolorante.
Poi, nei silenzii che seguono, mi rivedo sur uno dei pizzi più alti della Pirola, avendo dinnanzi maestoso, terribile, bianco il Disgrazia e ai piedi la val Leventina profonda, nebbiosa...
La nostalgia mi riprende.
O spiccare un volo fulmineo per arrivare fino alle mia casetta, alla mia terrazzina fiorita, ai miei cari!....