In Valmalenco/Capitolo XVII
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Verso il rifugio.
XVII.
La comitiva è guidata dal parroco di Lanzada, Don Luigi Parolini, ed è formata da quattro viaggiatori.
Don Luigi, vecchietto arzillo, dalla faccia larga, rossa, ridente e dalla testa d’avorio, cammina innanzi e il vento gli muove la gabanella nera e trasparente che indossa; ha nella destra l’alpenstok, nella sinistra il cappello di paglia nera a cono, e in bocca la pipa; dietro viene il canonico Spini, ercole vermiglio e tondo dal passo largo e pesante, vestito mezzo da prete e mezzo d’alpinista, il quale incomincia a ridere forte e tenta di fermarsi dinnanzi l’osteria del Peterella per una prima libazione; terzo sono io, superbo nell’abito di velluto che mi stringe alla vita e mi si allarga alle coscie, per chiudersi con uno sbuffo elegante sotto le ginocchia, e, al mio fianco, c’è Ottorino dalla pelle nera, dagli occhi neri, vivi, pronto a correre, ad arrampicarsi, a saltare, capretto intelligente e veloce.
Don Luigi si rivolge per rimproverare il canonico e me, fermi dinnanzi l’osteria, minaccia col bastone ferrato Peterella che ci versa il vino, e prosegue per la strada assolata lasciando indietro noi e Ganda.
Al primo svolto lo perdiamo di vista. Non perdiamo però il buon umore, beviamo con calma e riprendiamo la via con l’intenzione di raggiungerlo: attraversiamo così Vetto, Tornadri, ci spingiamo fuori verso la salita della Lua fino alla fontana, ma il curato è invisibile.
Dove s’è messo?
Innanzi no, perchè, dalla posizione raggiunta, vediamo il sentiero libero fino al primo capitello, indietro pare impossibile poichè ci precedeva.
Dove dunque?
Si è semplicemente nascosto per farci pagare il fio della nostra disubbidienza.
“Guai a chi beve vino in istrada!” aveva detto prima di uscire dal presbiterio, e noi, con serietà comica, avevamo promesso per non mantenere.
Siamo così costretti ad aspettarlo e quando mezz’ora dopo, lo vediamo apparire in fondo al sentiero, non possiamo neppure risentirci; egli: ha mille ragioni.
Si tira innanzi fino al capitello, si riposa, e poi su, per la salita, adagio adagio, sotto il sole del pomeriggio che dardeggia le nostre spalle e ci abbrucia la pelle delle mani, del collo, del viso.
Veniamo raggiunti da un guardiaboschi secco e segaligno, che accompagna un suo ragazzo e si unisce alla nostra comitiva, pronto a seguirci fino al Rifugio Marinelli, e pronto anche a prestarci il fucile, che reca scarico a spalla, per ispaventar qualche montanella e mettere in fuga qualche stormo d’uccelli.
Si monta, smozzicando rare parole fra i denti e barattando notizie sul Rifugio, quando, dall’alto, scende e s’avvicina, facendosi mano mano più sentito, uno scalpiccio, e, sulla strada tortuosa, appare un drappello di montanari, che ci è subito allato e si ferma per dare e per ricevere informazioni e notizie.
Vengono dallo Scerscen, e precisamente dal dosso sul quale è costruita la capanna Marinelli, dove hanno lavorato due mesi per fabbricare un rifugio più capace, a fianco del primo.
Don Luigi domanda loro la chiave della capanna, ma quelli assicurano che è aperta e guardata da un apposito custode: con vicendevole cordialità ci auguriamo buon viaggio e la brigata degli operai discende, noi risaliamo.
Ci si ferma a bere ad una sorgente freschissima, si arriva ad una santella scalcinata e sbiadita, dove la strada si biforca, si prosegue, alla nostra sinistra, per quella che conduce al Dosso delle Vette e, avanti!
Che profumo olezzano le erbe dei prati e le prime piante del bosco! com’è bella la strada che corre talora sprofondata fra due grandi rive di macigno, oppure va sul margine molle di un maggengo! Talvolta però si nasconde, riparata da una grande, sporgenza, che sembra pendere sopra di essa minacciosa, e tal’altra si snoda in alto, come per respirare aria più leggera e pura e per dominare il paesaggio.
Il quale è bello davvero!
Circondano il Dosso delle Vette ondulazioni erbose, dossetti, pianori, colline, cime impervie occupate ancora in parte dalla neve, e l’occhio nostro, girando ammirato, scorge in fondo, torreggiante nel cobalto nitido del cielo, il Pizzo Scalino, che, innondato di sole, sembra diventare incorporeo, trasparente, come se una parte della sua roccia sia diventata nebbiolina per ismussare un poco l’asperità del suo cuneo selvaggio: sotto vediamo Acquanera, rivestita di verde, che allunga la fila delle sue baite e si ricopre di piante; allato il passo del Canciano nevoso; più discosto l’Alpe Musella, poi Campacelo, Scerscen e Palù di Caspoggio.
Ma i nomi suonano aridi: bisogna venire quassù, perchè il godimento sia effettivo; quassù, dove alle maraviglie della montagna, non mai a sufficienza osservate, si unisce la maraviglia grande del cielo.
Io, dinnanzi a questa distesa azzurra, che corona l’alpe sassosa, e fa spiccare i ghiacci e le nevi, provo come una sensazione sottile di estasi, e l’anima mia s’allarga, s’eleva; pare anche a me di diventare incorporeo; mi distacco da ogni cosa terrena, capisco allora tutta la verità, la poesia della divina trasfigurazione di Raffaello; e mi pare che dentro l’anima si formi e fluisca una sorgiva d’amore, di gioia, ma semplice, per quanto fuori dall’umano, e comprendo, e invidio la natura degli angioli.
O se qualcuna di quelle forme vaporose di donna, angioli umani, che tante volte hanno sorriso ai miei sogni d’oro, fiorisse dinnanzi a me, sul monte, circonfusa di sole, d’azzurro; ed io ammirassi tutto quanto ne circonda, guidato dalla soavità del suo gesto e del suo viso; se, le nostre mani congiunte, ella mi avviasse nel cielo e gli spiriti nostri si unissero lassù, sciogliendosi da questo involucro di carne, per rivestirsi d’azzurro, e migrassero di stella in stella, ed ognuna ne donasse un raggio di luce, o allora come saprei descrivere la bellezza dei cieli, e, ritornato sul mondo, la magnificherei!
Com’è bello sognare così!
Ma non mi si lascia continuare; il canonico, il curato, la guardia, Ottorino e l’altro marmocchio hanno già incominciata la discesa, e mi chiamano ad una voce, da di sotto una grande arcata di verde, la strada lunga e bella che conduce a Campaccio.
Li raggiungo a passo di corsa, e arrivo appena a tempo per frenare e mitigare e comporre un azzuffio sorto fra Don Luigi e lo Spini.
L’uno vuole inaffiarsi le gorguzzole col vino, l’altro non lo vuole assolutamente permettere, intanto che essi comicamente si bisticciano, io metto qualche parola di pace, e, per troncare la discussione che minaccia di farsi interminabile, spedisco innanzi, a buon passo, la donna che reca in una gerla le nostre provviste, e le ordino di non fermarsi che a Musella.
Il povero canonico, rimasto a gola asciutta, si vendica alla prima polla freschissima e beve da scoppiare; il curato prosegue imperterrito, appoggiandosi al bastone, rimettendosi in bocca e riaccendendo la pipa.
E giù sempre, sotto il verde cupo, accompagnati dagli ùluli dello Scerscen, corrente nel fondo fra due rupi scoscese, giù sempre, finchè s’arriva al ponte, si passa e ci si trova dinnanzi una grande spianata sabbiosa. Campaccio, in cui lo Scerscen ed altri torrenti lingueggiano bianchi, trasportando sassi, che si odono rotolare negli alvei, e si vedono talvolta sporgersi neri e sparire.
Campaccio è così fatto: un corso d’acqua, una punta di terra, altro braccio del fiume, un’isoletta, un nuovo canale, un terzo o quarto margine; fino ai piedi dell’alpe Musella, in cima alla quale noi abbiam deciso di passare la notte.
Un po’ di stanchezza incomincia a toglierci lena; si riposa ai piedi dell’Alpe e si riguarda Campaccio, bello in mezzo al correre delle sue acque per i suoi lidi sassosi, e bello specialmente per i rilievi di terreno verdeggianti, dove, a branchi, si disperdono e brucano le capre snelle e dove, qua e là, placidamente, si sdraiano le vacche muggendo.
Dal luogo dove noi ci siamo fermati a riposare Campacelo, con le sue praterie, le bestie, le baite, gl’émpiti dell’acqua e il distendersi grigio dei sassi, presenta un colpo d’occhio pittorico straordinario; anche lo sfondo dei monti verdi cupi, rocciosi, aggiunge poesia, orrore, grandezza.
Il sole è già tramontato e l’ombra ha pervasa la valle; qualche nube si disegna all’orizzonte, soffice dapprima, poi densa: dietro la montagna è un lampeggiare stanco che dà barbagli, su in alto.
Si mette a piovere, legger leggero, ed io, che ho lasciata la mia giacca di velluto alla donna, per essere più libero, ora, in maniche di camicia, sono alla mercè dell’acqua, che mi è però molto cortese.
Tuttavia corro per arrivare il più presto, e dietro me, più o meno veloci, proseguono gli altri: Ottorino e il compagno ci hanno preceduti da tempo e appaiono, ad ogni tratto, richiamando la nostra attenzione con istrilli acuti e, improvvisi.
S’arriva così, sotto l’acqua, alle baite basse di Insella, dove mi vedo venir incontro la nostra portatrice che mi reca la giacca, la indosso e avanti ancora fino alle baite alte.
Don Luigi, il canonico, la guardia sono conosciuti e accolti colle migliori manifestazioni di stima e di compiacenza. Io sono guardato come un animale raro, ma, passata la prima diffidenza, tra me e montisti subentra grande cordialità, suggellata da una più grande scodella di latte, che essi mungono allora allora, e che io bevo centellinando, per poterne gustare l’aroma delicato e tiepido, unitamente al piacentissimo sapore. Il latte di Musella è un poema; la polenta, cucinata dal curato, e il salame, tolto dalla gerla di vimini, sono cantiche alate; il vino, per detta del canonico che lo tracanna gorgogliando, è un paradiso.
Ci raccogliamo tutti intorno al grande fuoco acceso nella bella baita del Serafin e, mentre, beatamente si fuma e ci si crogiola alla vampa, ascoltiamo, attenti, quanto i montisti ci vengono raccontando della loro vita, delle loro fatiche, delle loro bestie, dei caci, dei forastieri che hanno, pernottato sul monte e sono ritornati sani e spellati, per il freddo dei ghiacci e il caldo del sole, di quelli invece che furono riportati a braccia; e qualche cosa si muove, trema dentro di noi, non è vero canonico Spini?
Ma su coraggio, domattina, dopo aver dormito saporitamente come altrettanti principi di Condé, ci lancieremo all’assalto, gagliardi; toccheremo la capanna, ci avventeremo anche più su, verso la Bernina ghiacciata e colossale.
Ma su, coraggio, non bisogna tremare, perchè tutte le energie nostre si rinnovino, perchè noi possiamo comprendere tutto il fascino dell’avvenire che ci aspetta, perchè la sfinge che simboleggia la nostra vita ci sveli mille dolcezze, ci dia mille baci, ci avviluppi dentro mille speranze, bisogna, o canonico Spini, bisogna aver guardata in faccia la morte.