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tido, azzurro, infinito, il saliente s’appoggia sull’alpenstok, ammira, pensa e si sente sperduto nell’immensità, un nulla in mezzo alla natura grande.

Io penso così, mi sento così microscopico, guardando in faccia a me, verso oriente, il massiccio verde sassoso del Senevero e precisamente il Pizzo delle Zocche; alla mia destra, sopra il dosso erboso che mi ospita, e sul quale spiccano nerastre le baite e si muovono scampanellando le capre e le vacche, stanno orridi, nudi, in alcuni vertici appuntiti come parafulmini, i pizzi della Pirola, che si raggiungono arrampicandosi per i scarpe di calcare giallastro, saltando fra masso e masso, aggrappandosi talvolta a ciuffi d’erba selvatica che punge. Dietro me è il Zizzone, sotto il Lavezzeda; a fianco dell’uno e dell’altro il monte Rosso e il ghiacciaio del Forno che si vede per iscorcio, velato da una nube sottile di nebbia.

Dopo la montagna rossa, che deve il suo nome ad una rete pallidamente sanguigna di vene, di sentieruzzi e di scoscendimenti liberi d’erba, stai più basso, formando due selle, il monte Muretto. Si accede alla sella destra (passo del Muretto) per una strada mulattiera, facile, subito dopo la quale il pendio s’eleva ripido e, alla mia sinistra, scorgo l’alpe dell’Oro, a sassi, a boschi, a prati, che gira e si nasconde dietro il Senevero, pigliando i nomi diversi di Solco e di Fora: visibilissima, dietro e sopra quest’alpe, è la catena Tramoggia col passo omonimo e, più lontano, destra, l’Entova che ci nasconde il suo lago.