In Valmalenco/Capitolo XII
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Vicende particolari.
XII.
Ho parlato male del telegrafo a Lanzada, perchè voleva essere oggettivo, ma a me, il telegrafo ha reso l’altro giorno un servizio d’amico, uno di quei servizii che arrivano graditi come un’improvvisata, e che vi mettono in corpo una vita, un’allegria della quale siete costretti a maravigliarvi, mentre porgete a voi medesimi lodi e congratulazioni sentite.
Varii impegni imprevisti e non trascurabili, mi costringevano a dare un addio a Valmalenco prima del tempo stabilito; aveva però promesso alla simpatica compagnia conosciuta a Lanzada che, arrivato a Milano, avrei fatto il possibile per isbrigarmi prestissimo, coll’intenzione di ritornare poi a godere, per qualche giorno ancora, un po’ di fresco, di verde e di ciancie.
Accompagnato all’albergo Olivo di Chiesa, per accaparrare un posto in diligenza, ricevuti diversi e forse troppi incarichi per Milano, dati gli ultimi saluti con un certo stringimento di cuore e bevuta l’ultima birra per soffocare la commozione incipiente, m’afferrai alla cassetta con una mano e misi un piede sul predellino per balzare in carrozza.
Mi ferma, io non era nè dentro nè fuori, la grossa voce del vetturale:
“Completa, signore.”
“Va all’inferno!” gli avrei risposto con l’anima “quello non è ancora completo”; ma, per l’occasione, spianai la faccia che s’era già fatta rugosa e gli domandai, ritirando il piede dal predellino e la mano dalla cassetta, se mi avesse potuto cedere un po’ di posto al suo fianco.
“C’è un baule”, mi disse l’altro con la sua voce rozza e profonda, che in quel momento mi parve canzonatoria.
Gli avrei voluto, col permesso dei proprietari del baule, domandar licenza di potermici seder sopra, in qualche modo, magari volgendo anche le spalle al cavallo, se la posizione fosse stata più comoda; ma il curato, che m’accompagnava, mi toccò nel gomito e mi susurrò che, per la vettura, avrebbe provveduto egli stesso.
Fidando nella sua promessa mandai giù l’ultimo sorso amaro di birra, salutai i signori che dovevano partire con la diligenza e che mi guardavano beffardamente, e tenni dietro al buon curato, che aveva già qualche piano prestabilito in mente.
Mi seguì anche il resto della comitiva, divisa in due partiti che si combattevano accanitamente fra loro.
“Se non trova carrozza, vada a piedi!”
“Torni a Lanzada, partirà domani con la prima corsa.”
“Odess, odess,” fece il curato volgendosi, “la trœuvum, la troviamo, la troviamo.”
E la si trovò infatti, ma già accaparrata dal prevosto di Magenta, il quale mi avrebbe offerto un posticino, se la strada che doveva percorrere non fosse stata quasi opposta alla mia.
Nuovo battibecco fra i:
“Resti!”
“Vada a piedi!”
“Torni con noi!” troncato da un nuovo:
“Adess la trœuvum” del sor curato.
Invece, per tutta Chiesa, non c’era nè vettura nè cavallo; e allora, mentre si faceva più pressante intorno a me la ressa dei “vada” e dei “torni”; interrogato me stesso e le faccie di chi mi aveva accompagnato, stretta loro calorosamente la destra e detta non so quale facezia per commiato, mi allontanai a gran passi, volgendomi ogni tratto a salutar con la mano.
Da Chiesa a Sondrio la strada discende con pendío sensibile e costante, allungandosi bianca nei prati, o sul fianco delle montagne, e per ultimo costeggiando il Mallero che sembra ribollire fra i sassi: camminando così, sempre colla medesima andatura, oltrepassai ben presto Torre di Santa Maria, graziosa e bianca come un’anatrella che becchi in un prato, col suo ponte, il suo mulino e le osterie fresche e pulite come piccoli alberghi.
Un poco prima che la toccassi, mi raggiunse la diligenza e si alzò al mio indirizzo un coro di lodi e tutte le mani si sporsero, per essere strette o per salutare: non c’era più nessun’occhiata beffarda, la mia marcia forzata li aveva di colpo conquistati ed io, in quel momento, assurgevo all’altezza di celebrato podista.
E la corriera passò; ed io (quanta falsità nelle cose e nel mondo) strinsi dietro quella le pugna, minacciando quasi, ma, più che altro, invidiando coloro che mi avevano un attimo prima calorosamente applaudito.
E intanto continuavo a camminare; impiegai forse quarantacinque minuti da Chiesa a Torre; e a Prato ebbi il piacere grandissimo di ritrovare la posta, che, come al solito, era stata fermata, dinnanzi l’osteria.
Fui quasi stretto d’assedio:
“Un bicchiere di vino?”
“Di birra?”
“Ma su, beva signor... signor...?”
Non si sapeva il mio nome; io mi liberai, ringraziando, senza declinarlo, e continuai la mia strada, sempre col medesimo passo, che aveva meravigliato i viaggiatori, e che io batteva invece con facilità e con energia, come se, dal cittadino smorto e quasi sfasciato, fosse uscito, nuovo bruco dal bozzolo, il montanaro forte, agile, instancabile.
E, così continuando, attraversai il Mallero sopra il ponte di pietra, godendomi la frescura che saliva dal fiume e poi l’altra, meno intensa, della strada, fiancheggiata di verde e accompagnata dallo scroscio alto dell’acqua. Ponte Nuovo.
Ma, pure in mezzo al fresco, incominciavo a sudare e nel medesimo tempo non volevo rallentare la corsa: partito da Chiesa verso le quattro e un quarto pomeridiane, dovevo essere alla stazione di Sondrio non dopo le sei e un quarto, altrimenti avrei perduta la corsa: e cammina, cammina, va, costeggiando sempre il Mallero senza curarmi delle osterie disseminate lungo la strada, passando nei radi paesi come un candido fantasma seguito dagli sguardi attoniti dei montanari, temendo sempre di non arrivare per pochi minuti alla corsa; va, con il respiro mozzo, buttando, tratto tratto, la bisaccia dietro le spalle perchè m’ingombrava battendo sul fianco; va, con mille pensieri di rabbia contro la diligenza che per la seconda volta m’era passata dinanzi fulminea; va, con il pensiero e con il desiderio prima ancora che con tutto il resto del corpo... finalmente arrivai dove la strada discende a biscia e vidi sotto di me, non riprodotta dalla fata Morgana, ma vera e gentilissima, la cittadina di Sondrio, su cui domina, tetro ancora e spavaldo, il castello di pietra.
Avanti, avanti; non c’era tempo da perdere.
Mi precipitai giù per la strada, entrai nella città, e mossi veloce alla stazione. Sulla porta un gran pezzo d’uomo, circondato da un crocchio, gestiva battendo spesso la mano sur una carta gialla, che pareva avesse, per lui, un’importanza grandissima.
Ma, a mezzo il discorso, si ferma, taglia, come un nuotatore, il crocchio che lo serra, e mi balza incontro, chiedendomi a bruciapelo:
“ Lei è... ”
Il mio nome, detto dalla mia e dalla sua bocca contemporaneamente, suscita d’intorno le più strane esclamazioni. Io mi metto in guardia istintivamente.
“Pigli!” mi dice l’omone con un gesto che a me, in quelle condizioni, sembrò una minaccia; e mi compresse nella mano la carta gialla, semplice telegramma che mi riguardava.
Ed io, leggendo, compresi che, poco dopo la partenza da Lanzada, era arrivato al mio indirizzo un primo telegramma d’urgenza. Immaginarsi i pensieri, le ansie di chi mi aveva visto partire un momento prima.
Che fare? Aprirlo? Spedirmene un altro? Per dirmi che cosa?
Prevalse il parere di correre al telegrafo, dove l’impiegata poteva dare schiarimenti e consigli. Infatti, saputo da essa che, nel telegramma, mi si diceva di ritardare la dipartita fino a nuovo avviso, me ne fu subito battuto un altro, con la speranza che mi raggiungesse a Sondrio e mi facesse tornare.
Infatti tornai; alle sei e mezzo, lasciata la borsa all’Hôtel della Posta, per essere più spedito nei movimenti, era già in cima alla graziosa salita, dalla quale aveva, poco prima, ammirato il panorama della città.
Il sole occhieggiava calando fra i monti, alla base dei quali serpeggiava e saliva una penombra tenera di nebbia.
Dissi in cuor mio un “avanti!” gagliardo; mi chiusi nella giacca e ricominciai inversamente la strada, facendo il conto mentale dei chilometri percorsi e di quelli che volevo percorrere.
C’era da stancarsi davvero; ma io non me ne preoccupai: avevo deciso di pranzare a Lanzada, volevo ridere della sorpresa dei villeggianti, maravigliare i montanari e, per di più, svegliarmi il giorno dopo per tempo, e portarmi a visitare le cave di serpentino usato per fare i laveggi.
Il sole discese e il crepuscolo invase, mano mano, la valle: dietro me, pallida ancora, apparve nel cielo la luna, ed io cercai di affrettare il passo, poichè certi stimoli al petto e certi brontolii di ventre erano prodromi avanzati di un appetito da lupo.
Avanti allora, o, per essere più precisi, indietro, passando sotto gallerie verdi, sotto archi di rame fruscianti, solo, confondendomi nel bianco della strada e sentendo pure, con la stanchezza, un sentimento nuovo in me, prodotto dalla solitudine, dal frascheggiare delle piante, dall’imponente maestà delle montagne, su cui la luna pioveva la sua luce tranquilla, e dall’irrompere dell’acqua fra i macigni del Mallero.
Il sudore mi aveva rammolliti gli abiti addosso, una sete insaziabile mi bruciava la gola, ma non cedevo; anzi, continuando la strada, mentre la luce lunare usciva dalla sua prima timidezza affermandosi in tutto il suo splendore e la montagne nereggiavano e il fiume urlava più forte ed io mi sentiva più solo, provavo anche nell’anima maggiore la sensazione di tanta bellezza di paese, di luce, di suono, e mi pareva di essere circondato e chiuso nell’inviluppo mistico d’un sogno.
Non credo che la stanchezza mi abbia dato le traveggole; cerco di rendere ciò che realmente ho visto e che mi ha intenerito come non avrei certo creduto; ma, dove mi fermai, estatico, dimenticando a un tratto la fatica del viaggio ed il freddo che mi assiderava, fu sul tratto di strada che separa Torre da Chiesa.
Quivi, non so come si chiamino e può darsi che non abbiano neppur nome geografico, dalla montagna, alta e rocciosa, piombano giù, tutte a lingue, a creste, ad urti, le acque spumeggianti di un affluente del Mallero, che, sotto la luna, sembrano trasparenti e luminose come fatte di meduse o di lucciole.
È uno spettacolo che non ho mai goduto e mi fermo, e penso intanto ai miei amici pittori, che non riusciranno forse mai a riprodurre un simile effetto lunare, e, generalizzando, penso anche all’uomo capace di imitare spesso, ma non di creare e neppure di offrirci, nella sua integrità, una sola delle maraviglie della natura.
Però riesce a far qualcosa anche l’uomo, poichè là in fondo, sopra la fioca luce di Chiesa, fiammeggia, per la luce elettrica sprazzata dalle sue finestre aperte, il grande Hôtel Malenco, costruzione splendida e massiccia ove si ricovera l’aristocrazia lombarda, fra la cima e la valle, timorosa troppo spesso dell’una e dell’altra.
Io proseguo, e, appena oltrepassata Chiesa, sulla strada, vedo alcunchè semovente e lancio uno dei miei richiami acuti, al quale risponde qualche fischio, delle grida, poi un correre e un chiamar forte per nome.
“Sì, sono io... io... io!” rispondo, trovando non so dove la forza per gridare, e corro, alacre, versa la simpatica comitiva. Essa m’abbraccia, m’interroga, mi copre di scialli e di frizzi, mi trasporta quasi a Lanzada, entra con me in casa del curato e si siede intorno alla tavola, nel tinello, curiosa di vedere se alla forza delle gambe corrisponda quella dei denti e la capacità dello stomaco!...
Ho percorso trentaquattro chilometri in cinque ore, quindi...