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ho visto e che mi ha intenerito come non avrei certo creduto; ma, dove mi fermai, estatico, dimenticando a un tratto la fatica del viaggio ed il freddo che mi assiderava, fu sul tratto di strada che separa Torre da Chiesa.

Quivi, non so come si chiamino e può darsi che non abbiano neppur nome geografico, dalla montagna, alta e rocciosa, piombano giù, tutte a lingue, a creste, ad urti, le acque spumeggianti di un affluente del Mallero, che, sotto la luna, sembrano trasparenti e luminose come fatte di meduse o di lucciole.

È uno spettacolo che non ho mai goduto e mi fermo, e penso intanto ai miei amici pittori, che non riusciranno forse mai a riprodurre un simile effetto lunare, e, generalizzando, penso anche all’uomo capace di imitare spesso, ma non di creare e neppure di offrirci, nella sua integrità, una sola delle maraviglie della natura.

Però riesce a far qualcosa anche l’uomo, poichè là in fondo, sopra la fioca luce di Chiesa, fiammeggia, per la luce elettrica sprazzata dalle sue finestre aperte, il grande Hôtel Malenco, costruzione splendida e massiccia ove si ricovera l’aristocrazia lombarda, fra la cima e la valle, timorosa troppo spesso dell’una e dell’altra.

Io proseguo, e, appena oltrepassata Chiesa, sulla strada, vedo alcunchè semovente e lancio uno dei miei richiami acuti, al quale risponde qualche fischio, delle grida, poi un correre e un chiamar forte per nome.

“Sì, sono io... io... io!” rispondo, trovando non