In Valmalenco/Capitolo XIII
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A mezzo nella fossa.
Le cave d’amianto hanno avuto un passato; oggi qualche principio di galleria, qualche rombo di mina, preceduta dal suono rauco del tritone avvertono il visitatore che si tenta nuovamente di ricercare una vena, con la speranza di ricondurre in paese la ricchezza di un tempo.
Fatica quasi sprecata: l’amianto diventa sempre più raro e gli appaltatori, lodevoli per lo sforzo e meritevoli certo di fortuna, sono invece costretti a lasciare il piccone e la zappa, ritraendo dall’impresa, non sempre interi, i capitali arrischiati.
Per questo ammontano ad un numero discreto le cave abbandonate e, ad ogni colpo di mina che squarcia il seno alla montagna, palpita di speranza il proprietario, ma inutilmente, perchè il filamento candido, argentino, del quale si è fatto troppo raccolta, si è perduto o nascosto. Ha però surrogato l’amianto un altro prodotto; la pietra ollare o serpentino, e questa tocca forse l’apogeo della sua parabola ascendente, ridotta dalla mano del lavoratore a laveggi, a scodelle, a truogoli, che sono piuttosto leggeri ma assai resistenti.
Nell’ultima gita fatta a Primolo dai villeggianti di Lanzada, ci siamo portati a visitare le cave di serpentino, e quindi abbiamo assistito alla lavorazione dei laveggi.
Gli operai sono disseminati ciascuno in una catapecchia, che riceve luce da una porta senza uscio, e dietro la quale la natura o l’artificio ha portato un discreto gettito d’acqua. Nel mezzo del baitello è scavata una fossa, profonda poco meno di un metro, sul cui margine è seduto i lavoratore con le spalle rivolte al vano, donde gli entra l’aria e la luce e di dove esce la polvere densa della pietra raschiata.
Quando noi entrammo, un torso d’uomo nero e villoso appariva su dalla buca come Farinata de gli Uberti:
I’ avea già il mio viso nel suo fitto |
. . . . . . al piè della sua tomba fui |
“Eh, buon uomo,” gli risposi per me e per gli altri: “vi si vuol veder lavorare un laveggio.
Il buon uomo saltò fuor dalla fossa, uscì dalla baita per cercare un pezzo di pietra, che a colpi di piccone era già stato regolato in modo da presentare quasi la forma d’un uovo, troncato e liscio alle due estremità; quindi, rientrato, attizzò il fuoco che rosseggiava in un angolo, scaldò del catrame e con esso unì saldamente una delle due parti liscie con un cuneo di legno tagliato però sulla cima.
“È la prima funzione,” disse, appoggiando alla parete il lavoro compiuto, “per fare questo laveggio bisogna attender che asciughi.”
“E ci vuol molto?”
“Tre o quattr’ore al massimo!”
“Allora voi...”
“Io ne taglierò un altro già preparato.”
Cercò e riordinò gli strumenti, tolse da un angolo un blocco di pietra verde col cuneo, ne osservò la saldatura e si rimise nella fossa, mentre noi ci allineammo al suo fianco, in modo da non lasciarlo nell’ombra.
Dinnanzi a lui, che si era seduto sul margine, avendo i piedi nel vano, si allungava un palo robusto che, assottigliatosi ad una scanalatura del margine opposto dove girava su un perno, tornava ad ingrossarsi, per restringersi ancora e passare, da parte a parte, la parete della baita.
Al di là l’operaio ci disse che il palo era conficcato al centro di una piccola ruota di molino, nelle cui spatole giocava l’acqua d’un aereo canale. L’imboccatura di esso batteva proprio contro una ramola e l’onda, uscendo, la investiva e la muoveva, facendo muovere il mulinetto e con esso il palo, sul principio del quale, proprio dinnanzi al lavoratore, c’era un cavo che combaciava perfettamente col cuneo, appiccicato sotto al laveggio.
Così laveggio, palo e molino formavano una cosa sola, che girava vorticosamente sopra se stessa, quando l’acqua si precipitava fra le piccole ramole; e che rimaneva invece inerte, o cigolava in bilico, quando il lavoratore, cambiando la direzione della corrente, toglieva il moto al congegno.
Ma la frase: — cambiando la direzione della corrente — può aver spaventato qualcuno; mi affretto quindi a spiegarla ed a metterla in quella luce di semplicità che le conviene.
A portata della mano di chi lavora c’è un’asta lunga, che esce pure dalla parete a destra, un po’ più su del palo; vien detta la lata: fuori l’asta incontra ed incrocia il canale aereo passandogli sotto.
Quando il lavoratore abbassa l’estremità della lata che ha sotto mano, l’altra, esterna, s’eleva, sposta il canaletto e l’acqua passa al di sopra delle gualchiere senza toccarle; così il mulino si ferma: per rimetterlo in moto basterà levar la pressione, spingendo in senso inverso la lata, e allora il getto tornerà a balzar giù battendo nei vani del piccolo mulino, bianco, spruzzando, vaporizzandosi, recinto anche da un mutevole arcobaleno.
Compreso il meccanismo non c’è quasi più nulla da dire. Il pezzo di pietra ollare, che dovrà diventar laveggio e passerà nelle case, sui fuochi per cuocere la polenta e la minestra, gira intorno a se stesso, intanto che l’operaio, con un istrumento, chiamato verga, descrive un piccolo solco laterale interno e lo allarga e lo approfondisce, finchè gli pare d’esser vicino alla parte inferiore della pietra: allora, con altro strumento speciale, che ha nome misura, tasteggia la profondità e, se è sufficiente, lascia la verga per usare il sedone, ferro ricurvo in fondo e appuntito, che introduce nel solco, mantenendone la punta nell’interno del laveggio.
Quando però essa è entrata tutta, ed ha tagliato in modo orizzontale una breve porzione di pietra sul fondo, bisogna cambiare il sedone, pigliandone uno con la punta più lunga; questa raschierà per un altro tratto, avvicinandosi man mano al centro inferiore del laveggio, e, surrogata da un’altra ancora più lunga, finirà per raggiungerlo: allora dal blocco verde vedremo uscire un solido, in tutto simile a un cono tronco, e dinnanzi all’occhio nostro apparirà perfetta la conca del paiolo.
Ma l’operaio che lavora, chino sopra la pila, con l’occhio intento, perchè la pietra non si screpoli, cinto dalla polvere che gli entra nello stomaco, nelle orecchie, che gli vela la vista e gli fa grigi i capelli, non potrà certo continuare per molti anni l’ingrato mestiere.
“A noi duole troppo spesso qua!” mi diceva toccandosi il petto e liberandosi, col dorso della mano, le ciglia e gli occhi dalla polvere che vi si era posata.
Non gli risposi, perchè non avrei saputo che dire: quell’uomo, robusto ancora, che si era rizzato nella sua buca, mostrandomi orgoglioso il suo lavoro e il suo dolore; quell’uomo, livido per la polvere verdastra, mi fece l’effetto di un risuscitato, che, rotta improvvisamente la pietra funeraria, si fosse tolto a stento dal suo ultimo letto per ammonirmi, ed anche per offrire a me, giovane pellegrino della vita, in quel suo vaso di pietra, tutti i suoi sudori, le sue fatiche, le sue lacrime, perchè le facessi conoscere e perlomeno i suoi figli potessero attingere una vita più feconda e molto meno sudata.
Si uscì e discendemmo; la discussione si accese, ma senza nessuna controversia: era forse la prima volta che ci si trovava tutti d’accordo.
E si parlò della diversità di condizioni fra l’operaio che avevamo visto poco prima al lavoro e quello invece della città, in particolare di Milano.
Le differenze sono innumerevoli; non le noto per non tediare inutilmente; ma, davvero, se c’è qualcuno che deve far comprendere la sua triste condizione, che deve gridare ai quattro venti tutte le sue necessità, oserei quasi dire che deve insorgere per conquistarsi un posto migliore nella vita, o perlomeno una retribuzione più equa e più umana, è certo il lavoratore che sciupa la sua esistenza fra la polvere dei laveggi. Discendemmo ancora un poco; e, fermatici sopra un dosso, potemmo vedere, sul monte, le catapecchie polverose, giù, il grande Hôtel Malenco, le civettuole villette Pesenti... e confrontammo...
D’un tratto, sentii, dall’alto, la voce di Ninì: “Ohe, Bepi!”
La birichina mi raggiunse, veniva dai Corni di Primolo, anch’ella erasi fermata nelle baite con la rozza guida che l’accompagnava, aveva veduto lavorare i laveggi e parlò commossa, impetuosa, anche un po’ ironica; noi si ascoltò, si rispose: così la discussione si fece più viva e poi.... poi...
“Io vorrei” disse Ninì “io vorrei mandare una di quelle buone dame patrizie, che dispensano talvolta parte delle loro ricchezze fra i poveri, a visitare il lavoro che questi operai semisepolti fanno di giorno in giorno, senza lamentarsi mai, come se non sapessero che ci sono altri che, pure faticando la vita, godono benefici e sollievi, e vorrei, dopo, interrogarla, certa di sentirmi rispondere in lingua infranciosata: Ah! davvero che choses... non avremmo mai creduto, mah!... cosa volete? il faut ètre enclume ou marteau a questo mondo: noi però non siamo nè l’una ne l’altro, bon Dieu!; ma gli operai devono adattarsi alle circostanze, noi faremo il possibile: capisco che aux grands maux les grands remèdes; ma che rimedio volete portare? danaro?! argent?! certo, ma ventre affamè n’a point d’oreilles.... e continuerebbe così la buona dama patrizia lasciandomi capire però, fra l’altre cose, che ha allentato i nodi della borsa, e che, perlomeno, a quelque chose malheur est bon, poichè permette ai signori di beneficare, di rendersi utili e cari”.
Disse così Ninì, deliziosa specialmente quando parlava in francese, ma io le risposi che non si trattava di elemosina offensiva: “ci vuol altro! capisci? bisogna levar gli operai da quella fossa, studiare e trovare un mezzo (forse ci sarà già, ma, nè io nè i lavoratori di lavaggi lo conosciamo) perchè tutta quella polvere sottile non entri nel loro stomaco, a formare come una crosta di pietra; bisogna escogitare una posizione più felice per il lavoro che sono costretti a fare, talvolta coi piedi nel fango, perchè il terreno è friabile, poroso e l’acqua del canale filtra nella fossa: anche sarebbe necessaria più ventilazione, più luce; giacchè, se una metà della tomba è la buca che tu conosci, l’altra metà si può considerare formata dalla catapecchia che ne è come il coperchio”.
“Sì, vero, verissimo, hai tutte le ragioni” interruppe Ninì guardandomi negli occhi e accettando l’aiuto della mano che le offersi in un passo difficile.
“E forse ancora migliore,” continuai animato dalla sua approvazione, “sarebbe lo strapparli a questo mestiere inutile, offrendo loro altri mezzi per guadagnarsi la vita: ma qui nella valle c’è una ricchezza da sfruttare, l’acqua; su stabilimenti, avanti con l’elettricità...” e le porsi di| nuovo la mano, perchè il sentiero si faceva stretto e tortuoso.
“Avanti con l’elettricità,” ripetè la signorina stringendo la mia destra e guardandomi nuovamente negli occhi.
“Già.., avanti... certo... proprio... con l’elettricità,” farfugliai un poco imbrogliato, tornando a listarla nelle vive pupille azzurre e premendo la mano morbida....
“Senti,” fece Ninì d’improvviso, “perchè non ti sei mai fatto vedere?”
I compagni erano indietro e discendevano calmi, noi, senza volerlo, li avevamo un po’ troppo preceduti; e l’elettricità dal discorso passava dentro l’anima, passava negli occhi e nelle destre che si stringevano forte.