In Valmalenco/Capitolo XI
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Commenti al telegrafo.
Un gran carro, pieno di larici scortecciati, che potevano misurare da tre a quattro metri d’altezza, con forse trenta centimetri di diametro, discendeva a passo di bue da Chiesa verso Lanzada; e, ogni tanto, in luogo, pare, preventivamente fissato, la voce del conduttore fermava la triplice coppia dei buoi, quindi aiutato da qualcuno dei curiosi che l’avevano seguito per via, il carradore scaricava un albero, si rimetteva alla testa della comitiva, e, avanti, senza rispondere a domande, senza accettar vino alle frazioni, senza neppure un cenno di risposta a chi parlava con lui, proprio come fosse diventato sordo e muto.
Il carro, reso mano mano leggero, si liberò dell’ultimo larice quasi in faccia al prestino con offelleria, e il carradore mosse verso la casa del curato.
Intanto, quelli che lo avevano seguito cicalando, metti insieme una cosa con l’altra, aggiungi notizia a notizia, ricorda specialmente alcune parolone, dette da non so quale autorità del paese, riescono a capire che si tratta del telegrafo.
Due o tre giorni dopo, infatti, i pali vengono rizzati: col tempo, in cima ad ognuno di essi si conficca un arpione con in testa una scodelletta capovolta di ceramica bianca, e, finalmente, nella scanalatura, appena arrivato il permesso ministeriale, si accomoda il filo di ferro zincato che deve trasmettere, come un fulmine, le notizie.
Ma la cosa era andata troppo per le lunghe, gli abitanti dalla curiosità erano passati all’indifferenza; i ragazzi soli avevano creduto bene quando il filo ancora non c’era, d’interessarsi della novità: infatti avevano incominciato a fermarsi in crocchio, torno torno ai pali, e avevano raccattati dei sassi per colpire il cappellino bianco che luceva nel sole. Ma, poi che il divertimento non era stato suggellato da uno dei soliti scopaccioni del babbo, non ci trovaron più sugo, e le scodellette bianche furono rispettate.
„Ora Lanzada“ aveva asserito l’autorità paesana ricordata più su, „non è tagliata fuori dal mondo, essa forma con gli altri paesi che hanno il telegrafo, con o senza fili, una cosa, un impasto...dirò così una pianta sola e noi siamo un tronco“.
La cosa, l’impasto, la pianta col tronco fecero poca, anzi nessuna impressione su chi l’ascoltava: non per questo l’autorità si credette obbligata a tacere; tutt’altro, essa parlò di una forza maggiore, e come maggiore! di quella di un toro, che poteva valere quindici, trenta, mille cavalli...questa forza venuta in paese avrebbe...
Tale notizia mise in fuga l’indifterenza: qualcuno degli ascoltatori si spaventò seriamente; per un’improvvisa unione di pensieri, aveva messo insieme i pali e la forza: la forza poteva far rotare come mazze i pali, e se uno solo, per disgrazia, gli avesse accarezzata la schiena... addio, Beppe!
Ma, delucidato questo che poteva essere un serio inconveniente, visto che i pali non si movevano, che le scodelline bianche si lasciavano colpire dai sassi; che il filo di ferro zincato, conduttore della forza, ospitava le rondini, le paure vanirono, e gli abitanti, incapaci forse di comprendere l’importanza del telegrafo, incominciarono a sorriderne e appiccicarono, per di più, a quell’autorità che ne aveva loro parlato, il nomignolo di ol talegrafo coi fill perchè aveva due braccia e due gambe che il padre eterno gli avrebbe invidiate.
Ma io, senza accorgermi, maledico di certe persone alle quali devo un po’ di riconoscenza, e dalle quali ho molto imparato: se essi non hanno avuto il modo, il tempo, la necessità di istruirsi per possedere la teoria delle cose, ne hanno acquistata la pratica, e per questo solo meritano lodi sincere.
Appena ragazzi sono stati buttati nella vita e la loro esperienza fu acquistata a mezzo di sudori, di fatiche di privazioni accettate di giorno in giorno con serenità: io invece, entro oggi, solo nella vita, e quel po’ di cognizioni, quella teoria vaga delle cose di cui m’ha infarinato la scuola, mi potrebbe domani, insufficiente a un bisogno, far desiderare la praticità dei campagnoli, sulla quale ho forse troppo leggermente sentenziato.
Del resto ho la certezza, che, fra poco, gli abitanti di Lanzada avranno acquistato del telegrafo quel senso pratico che sarà loro utile per usarne a proposito e senza ridere più.
Quello però che mi ha fatto brutta impressione fu il dover riconoscere la quasi cattiva accoglienza toccata al telegrafo, in confronto della buona prodigata all’automobile rumorosa.
È certo che se il telegrafo avesse avuta una manifestazione trombettante e fantastica come l’automobile; avesse esplicato in modo diverso che coi pali e coi fili quella forza elettrica della quale si era prima discusso con certo timore; se preceduto da timpani e da catube, e accompagnato da un codazzo di barconi, come al bel tempo del nostro carnevalone, fosse entrato in paese, impressionando coi colori, coi suoni, coi simboli i lanzadaschi; è certo che tutti, o la maggior parte, avrebbero poi fatta una ressa incredibile intorno alla macchinetta telegrafica, spendendo con entusiasmo quel poco risparmio, pur di sentirne il picchiettio discorde, nel quale c’era un saluto, un augurio, che poteva correre in America, più veloce di un uccello, e là, entrando improvviso in una cameruccia, in uno stabilimento, in una fattoria, far nascere un sorriso sopra labbra contratte per la pena, far spuntare una lacrima di gioia in un occhio avvezzo a un luccicchio di dolore.
Invece tutto questo è mancato: la scienza non ha bisogno di mascherate per convincere e progredire: batte la sua strada, severamente austera, rimorchiando chi si oppone, chi cede, chi aspetta con una tenacia che non patisce ostacoli, con una calma attinta nella sua forza e nella bontà del suo fine, ineluttabile e fatale, come nei tempi mitologici il destino.
Quindi anche i lanzadaschi, indifferenti per ora a ciò che non hanno capito, si troveranno rimorchiati dalla corrente gagliarda, e, mano mano, senza fatica e senza accorgersi, l’incomprensibile diventerà facile alle loro menti, finché un’onda nuova, con iscoperte e con applicazioni nuove, li raggiungerà, lasciandoli storditi ed increduli dapprima, facendoli convinti e coscienti dopo.
Da che mondo è mondo le cose sono andate così, ed io non ho merito alcuno d’aver messo fra questi commenti al telegrafo una verità semplicissima, della quale sono testimonianza indiscutibile la storia, che ci tesse la vita e il continuo cammino ascendente dei popoli, e le religioni medesime, fra le quali primeggia, per impulso al bene, al grande, al bello, la religione di Cristo....
Capisco che il telegrafo possa portar molto lontano, ma io mi sono fin troppo allontanato, ed è meglio che, pure rimanendo nella medesima corrente che mi ha fin qui trasportato, io raccolga i remi nella barca, e lasci ai sociologi, ai critici, ai pedagogisti di parlare delle diverse ed utili applicazioni del telegrafo nella vita. Io mi sono accontentato di notare qualcosa di esso, l’effetto che può produrre sopra una popolazione primitiva come questa.
Certo mi sarei aspettato di più; ma, rimanendo a quello che ho visto e sentito, mi parrebbe fuor di proposito criticare i lanzadaschi per quel che non hanno fatto e che io mi figurava di essere per vedere e sentire.
L’opinione mia sul telegrafo a Lanzada non è però di lode al Governo, ed io mi domando per quale motivo sia stato messo qui e non piuttosto in altri paesi, dove è certo più necessario ed urgente.
Nessuno a Lanzada ha assoluto bisogno di corrispondere telegraficamente per affari impellenti, nessuno forse l’ha chiesto con insistenza motivata e logica; forse è stato concesso per isbaglio... o per fine politico.
C’erano ben altre cose più necessarie da compiere che non il telegrafo a Lanzada: l’edificio scolastico, l’asilo sono indispensabili; per essi il povero e buon curato ha detto, predicato, speso con pochissimo frutto; e, se non si voleva aiutare la scuola, sarebbe stato molto meglio e molto più a proposito costruire una piccola posta. La necessità del telegrafo sarebbe venuta da sè, più tardi, quando cresciuti i bisogni e gli affari pubblici e domestici, se ne fosse sentita la mancanza.
Per ora, così rimanendo le cose, Lanzada mi fa l’effetto di un uomo in camicia con la tuba in testa, e mi fa ridere il pensiero che questo gran cappello a staio gliel’abbia dato il ministro: certo, col tempo, indosserà anche le mutande, i pantaloni e la giubba, ma per ora, chi osserva oggettivamente, deve farsi l’idea, comica alquanto, di Lanzada presa da costipazione e da tosse in causa del suo curioso déshabillé: il quale ha molta importanza, perchè è l’indice di un disordine che ha le sue radici, precisamente là dove ci dovrebbe essere la testa, che ci guida al futuro.
Ed è liberando questa disapprovazione ai papaveri alti, che io, più minuscolo di un filettino d’erba, sento in me un sacro tremito, ma non certo per l’arditezza della mia freccia, che non potrà mai toccare la méta; perchè mi sembra che, tutto quanto ho detto di male, a fin di bene, lanciato così, verso l’alto, debba pur trovare, ricadendo, un capro espiatorio.
E temo che il capro sia il telegrafo di Lanzada; ma intendiamoci, io mi figuro il telegrafo in modo molto materiale, considerandolo solo in quanto è palo, filo e cappellino bianco; e credo che, anche così materialmente considerato, legno, ferro e ceramica abbiano patito e patiscano di più per le mie parole, di quanto patirebbero i papaveri alti, se dovessero, per combinazione impossibile, conoscerle.
Ed è per questo che io rivolgo in ultimo ai pali, ai fili, ai cappelletti bianchi una voce di conforto e mi commovo scrivendola.
„Poveretti!“ che colpa avete mai commesso per essere condannati a rimanere allato d’una strada, ritti nel sole ed inerti, con le braccia inutilmente aperte, come a ricevere qualcuno, qualche cosa che vi doni la vita?
„Che colpa avete commessa per essere schiaffeggiati, come stamane, da una raffica improvvisa che vi ha fatto fremere di rabbia e ha dato al vostro filo un gemito lungo d’angoscia?
„Non so, e qua non vale certo la teoria che le colpe dei padri le scontano i figli! Avete avuto un babbo colpevole, voi?
„Poveretti! quando vi guardo e comprendo dal fremito del filo che avete trasmessa una notizia, che siete stati utili a qualche cosa, ho un sorriso involontario di compiacenza sulle labbra; ma se osservando meglio, m’accorgo che il fremere del filo era dovuto ad una fuga di rondini, mi cruccio per voi e vi desidero altrove, in una grande città, dove tutto si agita, dove suonano i magli e rombano e stridono velocemente le macchine: dove tutto è febbre di lavoro e di vita, e dove anche per voi, ci sarebbe sempre il picchiettio discorde, voce della vostra anima; dove anche voi, forse, gioireste per una buona notizia data, piangereste per una triste, avendo uno scatto di sdegno quando vi si comunicasse un’infamia!
„Vi hanno portato qui troppo presto, siete come le primavere sbocciate a un alito tepido di primo febbraio, che avvizziscono ad un soffio di freddo.
„Ma voi siete robusti, resistete!
„La fiorita che dovevate coronare e avete invece preceduta, verrà; e allora vi sarà dolce ricordare gli schiaffi della raffica, l’ardenza del sole, i sassi tirati da una mano birichina, ed anche, e questo mi lusingo vi debba essere ancora più dolce, ed anche questi commenti miei.“