In Valmalenco/Capitolo X

Capitolo X. Le due gamme.

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Le due gamme.


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In una delle ultime mattine, costeggiando il Lanterna per arrivare alle cascate, m’accadde una di quelle delusioni che meritano di essere ricordate e descritte.

Aveva, non so quando, non so come, pensato a riunire in un effetto solo, acustico e visivo, certamente maraviglioso, le cascate del Lanterna e il sole che le sfiora nella prima e rosea luce dell’alba. E nell’anima mia, poiché cercavo l’unione della gamma musicale del fiume con l’altra gamma iridata, che gli doveva ridere intorno, s’informò, quasi concreto, l’amalgama pensato, ed io vidi la luce e sentii il ritmo del torrente, come se l’una e l’altro, per miracolo nuovo, mi si fossero portate dinnanzi.

Il fenomeno psichico non era però così strano come potrebbe a prima vista sembrare. Io sono rientrato in me, ed ho cercato di studiarne le cause, delle quali una era assai remota, una seconda vicinissima, datava dal giorno prima: le altre, che si trovavano frammezzo, senza [p. 94 modifica] un’esatta circoscrizione, e nebulose, oltre che nei limiti anche nell’essenza, cangiavano variamente di forma, come se la sfumatura, la cosa, il fatto che le avevano determinate, si fossero modificati e si evolvessero ancora.

Così l’esame, per quanto minuzioso ed attento, mi diventava sempre più difficile e, l’io presente aveva quasi un risentimento contro l’io passato, perchè non mi sapeva ricordare la sfumatura, la cosa, il fatto iniziatore delle cause cercate.

Non riflettevo in quel momento all’azione subcoscente che essi avevano esercitata per riprodurmi dinnanzi concreti, il fiume e la luce: come non erano sfuggiti all’analisi, formando l’azione coscente, la causa remota e l’altra vicina, così io pretendevo che si sciogliessero dai veli anche le altre cause intermedie.

Ma era troppa pretesa; dovetti accontentarmi di riconoscere che la causa lontana era la visione di un quadro intitolato l’„Armonia del ruscello“, e la vicina invece, l’audizione di alcuni pezzi di musica, dopo un acuto desiderio di note, di accordi vibranti e di motivi appassionati resi da un’anima in fremito e da una mano nervosa.

Il dì prima infatti, Ninì e sua mamma, alloggiate al Grande Hôtel, erano venute a scovarmi ed a rimproverarmi per il mio isolamento. Ed io, perchè mi perdonassero, avevo condotto Ninì, l’esile amica dei miei vecchi giochi d’infanzia, a far visita al maestro del paese. Egli possedeva un’antica spinetta e...

Ma, tornando al quadro l’„Armonia del [p. 95 modifica]ruscello„, che delicatezza, che poesia, e che luce diffusa per tutta la tela e nell’acqua, che zampilla giù da una piccola conca, specialmente negli occhi della donna, che, con un’arpa minuscola in mano, si protende sulla vena d’argento, per sorprenderne il gemito doloroso, il garrulo salto e renderlo poi sulle corde! Nella musica invece c’erano degli accordi martellati, un vertiginoso balzare e rompersi di suoni, un incalzar rotto, anelante di ritmici singhiozzi, un incredibile foga d’émpiti, con qualche tenerezza sfumata, nel mezzo.

Eppure tutto questo effetto non era stato da me goduto in realtà.

Bisognò, perchè vivesse nella mia anima, riempendola dell’onda musicale accennata, ch’io facessi un’astrazione: distrussi, con la mente, la scordata spinetta, dai tasti della quale la suonatrice aveva suscitata la tempesta maravigliosa, per mettere al suo posto un Erad pieno, gagliardo e nello stesso tempo dolcissimo.

Così come sono riuscito a far comprendere, camminando verso le cascate del Lanterna, mi si svolgesse tutta la gamma musicale nella psiche, ma non son riuscito a far capire a me stesso il perchè di quell’altra gamma di luce.

Essa proveniva forse da quelle cause che ho chiamate prima intermedie, ed è strano che, avendo esse nebulosi i limiti e le essenze, effondessero invece quella colorazione calda, iridescente, quell’arcobaleno, che circondava il fascino del suono, col fascino di uno splendente e misterioso diadema. [p. 96 modifica]Io moveva quindi incontro ad un sogno che mi palpitava nel cuore, e, dopo averlo studiato in me stesso, lo voleva ammirare fuori di me, vero e grande come l’aveva sognato.

Curioso stato di cose che farà ridere qualcuno, ma farà riflettere qualche altro, il quale, cercando nel suo passato, e fors’anche limitandosi a ripensare il presente, si sarà trovato come me a perseguire un’idealità fiorita assimilando la parte migliore dell’essere, pure sapendo che questa idealità non si poteva trovare che nell’anima sua.

Ecco perchè, io, avendo i piedi nell’erba rugiadosa e il grande cappello bianco cacciato indietro per lasciar libera la fronte alla frizzante brezza del mattino, vedevo dinanzi a me, benché non fossi ancora arrivato il cadere giù a picco delle spumeggianti cascate, che, trovando un intoppo roccioso nel mezzo, si suddividevano con fracasso dapprima orrido, ma che diventato, poi famigliare, sembrava molto diverso.

Mi pareva in esso di sentire il piccolo murmure della polla, come quando nasce fra i sassi, sul monte e corre sotto la vedretta: la udivo raccontare il mistero dei ghiacci che si rompone degli arditi che si spingono su, infaticabilmente, e riposano alla sua melodica cadenza; di quelli che, disgraziati, commettono alla sua corrente l’ultimo grido disperato, perchè lo porti come un saluto, come un addio, a coloro che non vedranno più e che rimpiangono, che desiderano che sentono d’amare come non hanno mai amato perchè, nella caduta disastrosa, un lampo vividissimo fa loro conoscere tutta la vita. [p. 97 modifica]Mi pareva che, qualche altro più robusto zampillo, dicesse invece la bellezza delle cime nevose, dalle quali traeva la piccola esistenza, cantando un inno al bianco che fendeva l’azzurro del cielo, e riproducesse nel suo cadere il prolungato ululo del vento fra i massi!

E un terzo che più forte rompeva fra le roccie, mi narrava forse il boato delle valanghe, e poi un altro, un altro ancora, che si staccava da quello, riproduceva il belar delle pecore, il muggito delle vacche, l’agreste canto del guardiano e forse anche l’uggiolare del cane, il colpo morto di un pungolo.

E gli altri più teneri fili non parlavano dell’erba, dei fiori, e nel loro candido scintillare, non ritraevano l’immagine delle stelle alpine?

Poi, tutte, correndo alla medesima arteria, rombavano insieme, fermando in un solo concento tutto quanto riguardava la montagna, e, figlie dirette di essa, ne dicevano le glorie e gli orrori.

Ma le cascate, fumando il loro diafano vapore, si rivestivano dei colori dell’iride; e anche quelli parevano un ricordo del monte; poichè c’era il bianco delle vette, il violaceo delle valli lontane, il verde dei pochi strati d’erba, il rosso a ricordare catastrofi sanguinose, il giallo immagine del misero fieno, l’indaco delle sfumature crepuscolari e l’arancio del primo poetico bacio di sole.

Questa fusione così ideale, e forse troppo piena di poesia, sognavo io camminando verso le ca1 scale del Lanterna. [p. 98 modifica]Le gamme del suono e della luce, che s’erano nel mio interno sposate, mi avevano conquistato così che non ammiravo più nulla di quanto m’era d’intorno.

Dinnanzi a me, sul piccolo sentiero, dovevano, come acrobati invidiabili, descrivere piccole parabole le locuste, al lato destro i boschetti dovevano invitarmi alle loro ombre odorate, e, più dietro, le montagne, velate da una sottilissima nebbia, dovevano forse più del solito, perchè mattiniero, accennarmi qualcosa con lo svettar lento dei pini; ma io non vedevo, continuando la mia strada, che le cascate cinte da un nimbo di luce, non ne sentivo che il suono.

E finalmente arrivai.

In alto, sulla montagna, spiccava una zona di sole e, sotto, verso la metà del declivio, quasi uscisse dal cuore delle roccie, s’innalzava come tendendo al raggio d’oro, una nube bianchiccia e crosciava giù verso le viscere della terra um gran getto d’acqua, invisibile quasi per l’opacità della nebbia.

Il quadro era tutto qui; grandioso, bello forse per gli altri, ma non per me che l’avevo immaginato assai più grande e più bello.

La delusione mi rattristò, rimasi dinnanzi la realtà fredda delle cascate, provando il senso dil qualche cosa che si sfasciasse, dove e come non sapevo, poichè tutte le mie attività erano assorbite dal nuovo e non aspettato nè desiderato paesaggio.

Mi scossi, volli, come Narciso, ripiegarmi nel [p. 99 modifica]mio sogno di bellezza e invece, dentro di me, non ritrovai che una confusione grande, un disordine inaspettato e compresi che nel cozzo fra la realtà ed il sogno, quest’ultimo s’era sfasciato, forse per sempre.

Allora ebbi la necessità di studiare il paesaggio, spoglio della sua veste poetica, per vivere della sua realtà e palpitare della sua vera anima.

La gamma della luce era scomparsa, rimaneva quella del suono; ed io la intesi; ma senza esagerazione alcuna, e mi parve impossibile di averla pensata diversa1.

Però aveva troppo fantasticato per poter accontentarmi d’una realtà che mi sembrava quasi trascurabile, e, senza accorgermi, simboleggiai la grande cascata che si divideva in tante cascatelle, battendo sulla tastiera dei massi, ad una mano agile, irrequieta, nervosa che facesse balzare dai tasti una canora anima in fremito.

Come il giorno prima, dalla scordata spinetta s’era sprigionata una tempesta maravigliosa di accordi, un vertiginoso rompersi di suoni, un incalzar rotto, anelante, di ritmici singhiozzi, così oggi, dalla tastiera più ampia del monte, si levava ben forte e ben terribilmente maestoso un complesso orchestrale indescrivibile, che forse la mano e l’intelligenza dell’uomo non potrà rendere mai.

  1. Vedute dal basso le cascate del Lanterna, che serviranno prestissimo a produrre energia elettrica, non hanno gran che di notevole; appaiono invece bellissime osservate dall’alto; e precisamente dalla strozzatura di Val Brutta.