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vaga delle cose di cui m’ha infarinato la scuola, mi potrebbe domani, insufficiente a un bisogno, far desiderare la praticità dei campagnoli, sulla quale ho forse troppo leggermente sentenziato.

Del resto ho la certezza, che, fra poco, gli abitanti di Lanzada avranno acquistato del telegrafo quel senso pratico che sarà loro utile per usarne a proposito e senza ridere più.

Quello però che mi ha fatto brutta impressione fu il dover riconoscere la quasi cattiva accoglienza toccata al telegrafo, in confronto della buona prodigata all’automobile rumorosa.

È certo che se il telegrafo avesse avuta una manifestazione trombettante e fantastica come l’automobile; avesse esplicato in modo diverso che coi pali e coi fili quella forza elettrica della quale si era prima discusso con certo timore; se preceduto da timpani e da catube, e accompagnato da un codazzo di barconi, come al bel tempo del nostro carnevalone, fosse entrato in paese, impressionando coi colori, coi suoni, coi simboli i lanzadaschi; è certo che tutti, o la maggior parte, avrebbero poi fatta una ressa incredibile intorno alla macchinetta telegrafica, spendendo con entusiasmo quel poco risparmio, pur di sentirne il picchiettio discorde, nel quale c’era un saluto, un augurio, che poteva correre in America, più veloce di un uccello, e là, entrando improvviso in una cameruccia, in uno stabilimento, in una fattoria, far nascere un sorriso sopra labbra contratte per la pena, far spuntare una lacrima di gioia in un occhio avvezzo a un luccicchio di dolore.