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gran cappello a staio gliel’abbia dato il ministro: certo, col tempo, indosserà anche le mutande, i pantaloni e la giubba, ma per ora, chi osserva oggettivamente, deve farsi l’idea, comica alquanto, di Lanzada presa da costipazione e da tosse in causa del suo curioso déshabillé: il quale ha molta importanza, perchè è l’indice di un disordine che ha le sue radici, precisamente là dove ci dovrebbe essere la testa, che ci guida al futuro.
Ed è liberando questa disapprovazione ai papaveri alti, che io, più minuscolo di un filettino d’erba, sento in me un sacro tremito, ma non certo per l’arditezza della mia freccia, che non potrà mai toccare la méta; perchè mi sembra che, tutto quanto ho detto di male, a fin di bene, lanciato così, verso l’alto, debba pur trovare, ricadendo, un capro espiatorio.
E temo che il capro sia il telegrafo di Lanzada; ma intendiamoci, io mi figuro il telegrafo in modo molto materiale, considerandolo solo in quanto è palo, filo e cappellino bianco; e credo che, anche così materialmente considerato, legno, ferro e ceramica abbiano patito e patiscano di più per le mie parole, di quanto patirebbero i papaveri alti, se dovessero, per combinazione impossibile, conoscerle.
Ed è per questo che io rivolgo in ultimo ai pali, ai fili, ai cappelletti bianchi una voce di conforto e mi commovo scrivendola.
„Poveretti!“ che colpa avete mai commesso per essere condannati a rimanere allato d’una strada, ritti nel sole ed inerti, con le braccia inutil-