Il tesoro (Deledda)/Capitolo XIII
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XIII.
In tutti quei giorni le lettere di Paolo si seguirono febbrilmente; egli doveva soffrire, e nel silenzio d’Elena, dopo la calma relativa portatagli dall’ultima lettera di lei, uno strazio senza misericordia lo investiva e lo struggeva. Mostrava una fede illimitata in Elena, e nella sua tempesta si aggrappava a lei come ad un’àncora di salvezza; pareva non dubitasse menomamente della carità, della pietà di lei, e le apriva tutto il suo cuore sanguinante.
Ma ella taceva.
Esitava prima di aprire le lettere e impallidiva nel riceverle: ancora prima di leggerle si sentiva serrare il cuore, e leggendole provava un intenso dolore, poi piangeva, restava esangue e sofferente, ma non rispondeva.
Eppure le aspettava ansiosamente, e sentiva che il giorno in cui Paolo avrebbe cessato di scriverle — e questo doveva accadere necessariamente, dato il silenzio di lei — non avrebbe più retto al dolore.
Ma egli le raccontava troppo spietatamente le sue vicende, le narrava il tradimento di Sara con troppi particolari, troppo si squarciava il petto per mostrarle il cuore vibrante d’ira, di passione e di spasimo.
Le scriveva: «Io soffrivo, io dubitavo da molto, ed anzi ero quasi certo della brutta verità, ma rifugiandomi in te come in un porto di salvezza, in un asilo santo ove potermi salvare e redimere nel giorno della sventura, non osavo confidarti nulla della mia storia e dei miei dolori, per rispetto della tua purità, del tuo candore, della tua santità», ma ora intanto, quasi dimenticasse la purità, il candore, la santità di lei, troppe cose dolorose le raccontava. Forse era uno sfogo inconsapevole e involontario, forse una grande punizione ch’egli s’infliggeva; ma Elena ne restava spaventata e talvolta offesa.
Viveva, in pochi giorni, come non aveva mai vissuto; dal suo angolo solitario e semplice vedeva il mondo in una tetra visione maligna, pieno di viltà e di male.
Eppure lo amava sempre più; pareva che l’amore diventasse più umano ed intenso a misura che il suo oggetto andava riavvicinandosi alla terra e alla realtà; e nell’infinita carità di quest’amore, l’anima buona scusava, compativa e riabilitava la figura diletta.
Ma di giorno in giorno, d’ora in ora, la triste figura di Sara si frapponeva, fra lei e l’immagine cara, dividendoli insidiosamente.
Elena pensava all’ebrea lontana e sconosciuta, con strana e dolorosa insistenza: ella, così buona e indulgente con tutti, non riusciva, pur provandovisi, a perdonarle alcun torto, anzi le addossava quelli di Paolo e la disprezzava e l’odiava con un’acre gelosia.
Mai, anche se Paolo avesse completamente dimenticato sua moglie, dividendosi anche moralmente da lei e separandosi dalla sua religione, anche consacrando tutto il resto della sua vita ad Elena, la figura odiosa sarebbe sparita fra loro.
Così passarono i primi giorni afosi di luglio.
— Signore, Signore, fatemi dimenticare! — pregava Elena — fatemi perdonare, rendete di pietra il mio cuore!
E desiderava che Paolo si stancasse di scriverle, o le scrivesse in modo da urtarla, offenderla, addolorata, così che il suo amore morisse completamente.
Gli scrisse finalmente una lettera freddissima e le parve che tutto, definitivamente, fosse finito. Ma nei giorni seguenti fu ripresa dall’angoscia e si pentì d’aver scritto, sentendo che oramai, con quella prima lettera aveva messo il piede nell’abisso.
Infatti, quando cinque giorni dopo Paolo le mandò una lettera straziante che finiva così: «Io sto male, male, male, ma se tu mi abbandoni, se tu mi disprezzi, Elena, io sento che sarò capace di fare qualche sproposito prima che la morte liberatrice venga a salvarmi,» ella pianse, e per pietà, per paura d’una disgrazia, per amore e per carità scrisse ancora....
Così passò un anno.
A poco a poco le lettere di Paolo diventarono più calme e serene. Pareva che la parola d’Elena, che pur gli si diceva «amica e nient’altro che amica,» lo rasserenassero e lo facessero obliare.
Un giorno scrisse che oramai considerava Sara come morta; infatti non la nominò più e parve dimenticarla completamente, e smettendo ogni ira parve tornare il Paolo di prima, dalla grande anima gravemente poetica, aperta a tutte le migliori vibrazioni della vita.
E tornò ad avvolgere Elena nell’incanto appassionato di un ultimo amore, puro e sublime come un tramonto d’autunno.
Ma Elena non era più la stessa.
Anche lei amava sempre, e in certi giorni tornava a godere le misteriose sensazioni d’una volta, piene di sogni e d’estasi, ma grandi nubi passavano, turbandola e gelandola.
Era sempre l’ombra dell’altra, impalpabile e fosca come una nuvola, che si frapponeva, si allargava, velando tutto l’infinito del sogno; dietro il triste ostacolo Elena sentiva Paolo sfuggirle, mentre era lei stessa che si allontanava da lui. Egli dimenticava, ed essa non poteva fare altrettanto; la sensazione amara, fredda e diffidente del primo giorno di dolore le era rimasta nel sangue e nei nervi come un veleno, e risorgeva al minimo urto.
Cosimo, un po’ per causa sua, un po’ per causa di sua moglie e molto per causa della fatalità, diventava sempre più infelice; le liti fra i due sposi, dopo un anno di matrimonio, si seguivano volgarmente, con molta violenza e molto scandalo.
Non trovando pace nel suo nido domestico Cosimo straviziava; passava le notti fuori, di giorno dormiva e non lavorava; s’indebitava fino agli occhi, si avviliva con avventure d’ogni genere, e pareva avesse perduto il senno. Sua moglie, protetta ed istigata dalla madre, spinta dalla sua indole volgare, sempre eretta come una vipera, invece di trattenerlo lo spingeva verso l’abisso. Non tutti i torti erano di Peppina, e la scusava un po’ l’infelicità propria, la condotta e la violenza di Cosimo; ad ogni modo pareva che una ineluttabile fatalità li avvolgesse in un turbine.
L’eco dei loro dissapori giungeva in casa Bancu, ed Elena ne soffriva assai, ricordando i suoi presentimenti e provando uno stupore doloroso nel vederli avverati.
Piangeva spesso, nel dubbio strano e grave che la sventura piombasse in casa sua attirata dalla sua passione ch’ella riteneva colpevole, e allora un gran buio l’accerchiava.
— Pur che Cosimo ritorni sereno — pensava — io non scriverò più a Paolo.
Non diceva: «non l’amerò più»; perchè sentiva che ciò era impossibile; ma anche non scrivere e non rispondere alle lettere di Paolo, che le portavano una felicità pura e profonda, che la rendevano tanto buona e pietosa, era come rinunziare al sole ed alla luce, e si smarriva al solo pensarci.
Così si tormentava continuamente. I suoi nervi delicati erano scossi, tutto l’organismo se ne risentiva, e diventava pallida, trasparente, quasi consumata da una misteriosa malattia.
Un giorno Cosimo parlò così amaramente che Elena credè di scorgere un disidrato proposito nelle sue parole. Fu in quel tempo che per un mese non scrisse a Paolo, con la speranza e la fede di commuover Dio col suo sacrifizio. Ed era un sacrifizio doloroso e sanguinante.
Intanto però gli avvenimenti proseguivano, e nulla impediva alla piaga di inasprirsi ogni giorno più. Una sera furono protestate a Cosimo sette mila lire di cambiali, furono sequestrati i mobili del suo appartamento, e siccome in un’ora d’amore, durante la luna di miele, una delle cambiali era stata firmata da Peppina, fu sequestrata anche una parte della sua dote. Ne seguì uno scandalo grandissimo: Cosimo giunse a percuotere sua moglie, poi passò la notte bevendo e giocando. Nel ritornare trovò la porta chiusa.
Allora rientrò in casa di sua madre, giurando d’abbandonare la moglie.
Furono giorni tristissimi e penosi per la famiglia; Cosimo pareva impazzisse, ed Elena, temendo sempre che si suicidasse, vegliava continuamente, con la più acuta angoscia dipinta sul volto, ed ogni più piccolo rumore la spaventava.
Vedeva soffrire sua madre e Giovanna, sentiva che anche loro avevano le sue stesse paure, celandosele scambievolmente e pietosamente, e davanti al dolore comune non si dava più neppure il conforto del desiderio di morire.
— Che sarebbe di loro — pensava — se io venissi a morire e se sapessero anche il mio dolore?
Donna Francesca intanto faceva di tutto per rimediare le cose, ma inutilmente; Peppina e Cosimo oramai, odiandosi, sentivano che la vita insieme era l’inferno e desideravano di non rivedersi più.
Ma ricordando i sanguinosi improperi con cui sua moglie l’aveva sferzato, Cosimo, più per orgoglio che per dovere, voleva lasciarle liberi gl’interessi, e soddisfare i creditori che non gli accordavano più alcuna dilazione. Ma non potè trovar denaro, neppure nei villaggi: a Nuoro poi una strana antipatia s’era sviluppata contro di lui, dopo la sua scandalosa separazione dalla moglie; tutti gli davano torto e ne parlavano male, malignamente contenti di vederlo infelice.
Egli sentiva una marea amara di odio e malignità, accerchiarlo, soffocarlo e vincerlo: il diamante dell’anello paterno aveva grigi bagliori sinistri, che gli si riflettevano negli occhi foschi.
Sentiva tutta la pesante tristezza che portava nella sua casa; e il viso buono della madre, e il viso d’Elena che s’affilava e impallidiva ogni giorno di più, e il viso fiorente di Giovanna che si reclinava come una rosa al soffio improvviso d’un vento maligno, gli passavano avanti quasi in una allucinazione. E il bisogno acuto di liberarsi da ogni possibile onta, per sentirsi e mostrarsi un po’ sereno, e così ridonare la tranquillità alla famiglia, lo stringeva tanto da indurlo alla disperazione. Un giorno donna Francesca gli propose di vender alcune terre, ma egli rifiutò vivacemente per lo scrupolo di non recar danno materiale alle sorelle.
Intanto i termini del sequestro scadevano, e Cosimo, un po’ coll’aiuto della famiglia, era riuscito a procurarsi solo quattro mila lire.
Fra otto giorni gli occorrevano le altre tre mila, assolutamente, e non potendole trovare, e pensando che fra una settimana i mobili e la dote di Peppina andrebbero all’asta, si sentiva impazzire.
Ma una sera donna Francesca pensò che forse Alessio Piscu possedeva denari, e lo disse a Cosimo. Egli sperò, e cercò subito d’Alessio.
— Non ne ho — rispose il giovane, così sinceramente che Cosimo gli credette.
Una relazione molto amichevole correva fra loro; quindi Alessio domandò a Bancu notizie sui dolorosi fatti.
Cosimo raccontò ogni cosa, e nonostante si sforzasse a parer forte, lasciò trapelare tanto i suoi affanni che Alessio si commosse.
— Tu hai fatto un brutto matrimonio! — disse semplicemente, tirandosi in avanti la berretta che gli scivolava sui nerissimi capelli. E per un momento fermò la mano sulla fronte, come vinto da un’idea decisiva. Quando furono per separarsi, pose la mano destra sul braccio di Cosimo:
— Senti una cosa — disse. — Io non ho denari, ma se tu vuoi posso procurarti le tre mila lire, e forse senza interessi...
E sorrise, un sorriso strano che gli disegnò una piega sulla fronte, e mise al nudo i suoi denti bianchi e forti.
— S’io voglio! — esclamò Cosimo. — Diavolo, s’io voglio!
— Sentimi. Dove vai domani?
— Domani? — fece Cosimo come interrogandosi. — In nessun posto. Perchè?
— Io vado in campagna. Bisogna che tu m’accompagni, per veder la persona che darà i denari.
Rimasero d’accordo, e Cosimo si rasserenò. L’indomani mattina montò a cavallo e tornò in cerca d’Alessio. Era da molto tempo che non cavalcava e non usciva in campagna, e quando insieme al paesano, che armato di fucile montava una cavalla bianca e pareva d’assai buon umore, si trovarono sullo stradale, egli provò una sensazione forte e piacevole, di vita e di speranza.
Gli parve di rinascere, dimenticando ogni dolore; l’orizzonte s’allargava, nitido e profondo, fuori e dentro di lui; sotto il sole d’agosto i campi pieni di stoppia inquadravano con lembi d’oro le vigne verdissime; le stradicciuole erano deserte, e solo il rauco latrare del gran cane grigio d’Alessio, dagli occhi rossi e il ventre sottile, si perdeva nella solitudine, destando l’eco fra i cespugli biondi intricati di cardi bronzini dalla testa argentea.
Arrivarono verso mezzodì in un ovile d’Alessio, posto in un luogo molto pittoresco e misterioso, tra una fitta boscaglia di roveri nane e contorte, che lasciavano sfuggire dai tronchi squarciati ciuffi di foglie dure, di un verde metallico, e proiettavano ombre oscure sul fieno secco e giallo.
Cosimo credeva d’incontrare qualche vecchio pastore avaro, con cui combinare il prestito delle tre mila lire. Invece Alessio, legati i cavalli e fatta una colazione di latticinii e pane, lo condusse più avanti.
Macchie di cisto, robustissime, s’intricavano con le roveri, dando all’aria ferma e luminosa del meriggio un profumo ardente; rocce grige, coperte dà muschio color ruggine s’accavallavano intorno; vacche nere macchiate in fronte e sul dorso di chiazze lattee pascolavano silenziose e sonnolente, tuffando il muso nel fieno e scuotendo lentamente la coda; una gazza fischiava dall’alto d’un sovero, e il suo fischio acuto, che pareva od era un grido di richiamo, risuonava lontano e dava tutta l’impressione di quella strana solitudine.
Cosimo percepì ogni cosa, e sentì un vago senso di mistero e d’inquietudine. Alessio lo fece salire sulle rocce, pregandolo di guardare per una fessura abbastanza larga, in fondo al bizzarro dolmen: per veder meglio egli spiò con un occhio solo, e le sue sopracciglia, aggrottandosi, ebbero un rapido tremore di raccapriccio e timore. Vide un uomo ammazzato in fondo alle rocce: vestiva da cacciatore e dalla sua posizione si scorgeva bene che, dopo ucciso, era stato gettato violentemente là dentro.
— Ebbene, Alessio? Ebbene? — domandò Cosimo sollevandosi; e Alessio disse che quel morto era Sebastiano Murta, soprannominato Scoppetta, da Nuoro, bandito gravato da una taglia di tremila lire. — Vivo o morto, capisci?
Cosimo capiva perfettamente, ma gli repugnò subito, fortemente, l’idea di guadagnarsi le tre mila lire andando a dire alle autorità:
— Signori, io sono in grado di consegnare il corpo del latitante Sebastiano Murta!
Tornò a guardar fissamente in fondo alle rocce, tenendosi stretta nella mano destra la barbetta rossa, e domandò:
— Ma è proprio lui? sicuro ne sei?
— Diavolo! — disse Alessio, ridendo come fra sè. — Ti avrei condotto qui se fosse stato altrimenti?
— Chi l’ha ucciso? Tu forse? — chiese l’altro, sollevandosi ancora e fissando i suoi occhi turchini sul viso del paesano. — Eravate nemici e ti recava molti danni....
— Ora, certo, non me ne farà più! — esclamò Alessio, evitando la prima domanda, che l’altro non rifece.
— Ti ho portato qui — disse poi, mentre s’allontanavano dalle rocce — affinchè tu sia in grado di dare indicazioni precise. Ora arrangiati, Cosimo.
— No! no! io non farò nulla! — rispose Cosimo vivamente; e restò a lungo assorto guardando le vacche, ascoltando il richiamo della gazza, che si perdeva lontano per il bosco.
— Che si direbbe di me? — disse a un tratto, con un sorriso amaro. — Si direbbe che l’ho ucciso io!
— Macchè! nessuno lo potrà sapere! — rispose Alessio con freddezza.
Allora Cosimo gli domandò perchè non ritirava lui stesso la taglia.
— A me basta che non mi molesti più, che non uccida il mio bestiame e non attenti alla mia vita e a quella di zio Salvatore Brindis. — rispose Alessio con fierezza.
Bancu ne provò sdegno e umiliazione, e parole amare gli vennero alle labbra, ma tacque, e durante il ritorno sotto l’ardente sole del pomeriggio cadde in una cupa tristezza.
Rientrando in città si separarono freddamente, ma allontanatosi di pochi passi, Alessio fece eseguire una giravolta alla cavalla e con un sorriso che gli spianava il volto disse:
— Eh, Cosimo, di’ a tua sorella Elena che uno di questi giorni devo venirle a parlare.
— Cosa vuole costui da Elena? — pensò Cosimo con disprezzo.
Volgendosi sulla sella fece un cenno con la testa, come per dire con indifferenza: — Sì, glielo dirò — e s’allontanò spronando il cavallo.
Appena rientrato, cercò di Elena, e provò una tristezza ancor più grave trovandola coricata e febbricitante.
— Cos’hai. Elena? — domandò timidamente.
— Oh, non è nulla! — diss’ella, ma rabbrividiva per la febbre, e tanta sofferenza fisica e morale traspariva dal suo volto, che egli s’inquietò maggiormente.
— Alessio mi ha detto che uno di questi giorni vuol parlarti. Perchè ti vuole?
Elena sorrise, ma vagamente, come fra sè, dicendo:
— Me lo immagino, perchè. Avete combinato il tuo affare? — domandò poi con tanto interesse ed inquietudine che Cosimo rispose:
— Sì, sì. Sta tranquilla.
Elena si rasserenò, ma più che negli altri giorni ella sentì una immane tristezza gravare sulla casa.
Anche donna Francesca e Giovanna erano pallide e sofferenti; camminavano in punta di piedi, e un gran silenzio dominava per le stanze nel luminoso crepuscolo d’agosto; nessuno parlava, e sul davanzale d’una finestra Lisbet con gli occhi freddamente verdi, socchiusi, guardava verso la montagna.
Cosimo venne ad appoggiarsi a questa finestra e guardò anch’egli la montagna, pensando che causa d’ogni tristezza domestica era lui; gli parve anzi d’essere egli stesso che emanava tutto il riflesso Tosco dei suoi errori e delle sue viltà.
Il volto pallido e sofferente d’Elena gli era innanzi come un rimprovero; ed a questa visione dolorosa s’univa stranamente il ricordo del fischio acuto della gazza, il suo richiamo vibrante nel bosco di soveri, che ancor gli sembrava di udir distintamente.
Si allontanò dalla finestra, e spogliandosi degli abiti da campagna estrasse dalla tasca della giacca il grosso revolver Warnant, di cui andava sempre munito. E lo tenne in mano un momento, guardandolo con gli occhi socchiusi. L’ombra delle lunghe ciglia bionde gli calava sulle guance un po’ dimagrite, e a poco a poco quell’ombra parve stenderglisi per tutto il viso. Il manico acciaiato e la canna del revolver avevano un riflesso freddo e livido; molte volte Bandi, osservando tristemente la sua arma, aveva provato una sottile sensazione di freddo e di terrore a quel riflesso; ma questa volta rimaneva quasi indifferente.
Vedeva sempre il pallido volto d’Elena sorridere con dolore e sentiva il grido acuto della gazza solitaria; a un certo punto gli sembrò che le due sensazioni si fondessero in una sola, in una voce che gli saliva dal profondo dell’essere, gridando:
— Rinnovarsi o morire!
Per ridonare la pace, il decoro e la serenità alla famiglia, bisognava ch’egli si rinnovasse, risorgendo ad una vita novella, ritornando in pace con la moglie, rendendola buona e felice, lavorando, sradicando dalla sua carne, dal suo sangue, dall’anima sua ogni vizio ed ogni viltà.
O altrimenti morire; perchè vivendo così la sua persona e la sua esistenza spargerebbero sempre per la casa, per la vita di sua moglie, di sua madre, di sue sorelle e di sè stesso un alito di dolore.
S’egli invece spariva una volta per sempre, dopo il primo dolore la pace sarebbe tornata nella casa, nel cuore di sua madre, delle sorelle e della sposa.
Gli parve anzi che la sua morte avrebbe prodotto l’effetto d’uno di quegli scoppi di polvere che si eseguiscono per purificar l’aria. E poichè sentì subito la sua impotenza di rinnovarsi, decise di morire.
In questa decisione percepì freddamente tutta la sua fiacchezza e la sua viltà, ma ciò non fece che accrescere la sua disperazione, e allora gli parve naturale e semplice il passo consigliatogli da Alessio. Disperando completamente di sè stesso, "vedendosi" più debole di quel che era, si domandò con meraviglia perchè, dopo quanto aveva fatto di cattivo e spregevole nella sua vita, ora sentiva scrupolo a seguire il consiglio di Alessio. E provò come uno scroscio di riso sardonico fra sè e sè, confessandosi che lo scrupolo non gli era stato causato da raffinatezza di coscienza, ma dalla volgarità stessa della cosa, che ripugnava al suo istinto signorile, superiore a certe bassezze troppo evidenti.
Allora esaminò lungamente quale delle due viltà era più volgare: o ritirare la taglia del bandito ucciso a tradimento, o lasciar mettere all’asta, per una somma miserabile, la dote di sua moglie. Vinto anche dal pensiero di non lasciar fastidi alle sorelle, verso cui Peppina poteva più tardi rivolgersi, scelse il primo corno del dilemma.
Nei giorni seguenti il corpo del bandito fu riportato a Nuoro, e Cosimo potè soddisfare i suoi creditori.
Elena stava già un po’ meglio.
Vedendo inutile il suo sacrifizio, aveva scritto ancora a Paolo, vinta da una grande tristezza, da un acuto bisogno di sollievo; e un po’ di conforto le era giunto con la lettera di risposta.
Paolo le scrisse d’aver tremato nel ricever la sua lettera, ed ella pianse lagrime dolcissime sul foglio di lui; provò la sensazione di essere stata attesa ansiosamente da Paolo; ora ch’ella ritornava egli la accoglieva tremando fra le sue braccia, entro il suo cuore già rattristato per l’assenza ingiusta di lei.
Ella sentì finalmente quanto era amata, e pianse anche pentendosi dei suoi dubbi tormentosi; ma fra la gioia quasi austera della lettera di Paolo, tremava come un velo di tristezza grave e profonda.
— No — disse Elena fra sè, baciando la lettera buona — io non ti lascerò più, io non diserterò più. Perdonami, Paolo; perdonami, adorato.
E nuovamente si sentì un po’ felice; le parve che Dio stesso la spingesse ad amare, e che benedicendo anzi il suo grande balsamico amore glielo mandasse per conforto dei dolori domestici.
Ma un giorno, agli ultimi di agosto, accadde un fatto assai doloroso.
Era un pomeriggio afoso e silenzioso; si respirava nell’aria l’odore soffocante di stoppie bruciate, e il cielo era così ardente da sembrar cinereo. Tutti riposavano, ed Elena, non potendo trovar pace in quella siesta pesante e caldissima, leggeva uno strano romanzo portatole da Cosimo il giorno avanti: Tarass Bulba di Gogol.
Era alle ultime pagine, ma leggeva svogliatamente, e le estreme scene della bizzarra epopea cosacca la lasciavano indifferente, mentre la notte prima aveva provato una forte impressione nel leggere la fine dei figli del vecchio Tarass.
Quando ebbe finito, chiuse il libro, si levò, e ricordò che Cosimo le aveva detto:
— Appena lo avrai finito lo leggerò io.
Prese il volume. — No, forse dorme — pensò, e lo ripose. Ma come spinta da una segreta voce lo riprese e scese piano le scale, ripetendo inconsciamente fra sè: Forse dorme, forse dorme. Arrivata al pian terreno, nel lungo andito su cui dava lo studio di Cosimo — che dopo il suo triste ritorno nella casa paterna, per non scomodare il nuovo ordine delle camere, s’era stabilito in quella stanza anche per dormire — Elena fu per avviarsi alla cucina e far preparare il caffè; ma ancora una volla l’istinto segreto la spinse verso lo studio; e proseguì sempre ripetendo: Forse dorme.
Nell’àndito, appena illuminato dall’alto, immerso in una gran freschezza silenziosa, Elena si avanzò in punta di piedi fino alla lucida e grigia porla dello studio, dove su una piccola lastra d’ottone era inciso il nome di Cosimo, e girò la maniglia di porcellana.
La porta s’aprì: Cosimo Bancu si puntava la pistola al cuore: ed Elena lo vide. Dio, come permette che gli astri s’incontrino nel loro corso, che i bastimenti s’investano e affondino con migliaia di creature innocenti, che l’oceano si sollevi e la terra tremi nelle sue viscere, che da una parola dipenda lo sterminio delle nazioni e da una invisibile trama penda il destino dell’uomo, Dio è sempre grande ne’ suoi occulti voleri.
Ed Elena mise tanto dolore nel suo grido, che Cosimo depose l’arma rabbrividendo e si sentì salvo. Ma da quella sera la salute di Elena fu irrimediabilmente perduta. Non vi fu alcuna crisi pericolosa, o almeno nessun segno esterno che la manifestasse; ma entro di sè ella sentì qualche cosa spezzarsi, come una canna che sebbene fragile avesse sin allora resistito.
La febbre prese a tormentarla continuamente; era una vertigine incessante, che le velava gli occhi e le idee; sentiva una profonda indifferenza per ogni cosa, eppur ogni cosa la disgustava, l’infastidiva e l’irritava.
Diventò come una bambina sofferente, capricciosa e molesta; ma ogni suo desiderio veniva appagato e Cosimo la vigilava di continuo. Oramai egli si sentiva mille volte più colpevole e più infelice di prima, ma s’imponeva la vita come un’espiazione; per contentar la madre e le sorelle fece dei passi onde riconciliarsi con la moglie e le scrisse una lettera savia; ma la risposta fu altera, fredda e negativa. In fondo egli ne provò sollievo, ma non lo dimostrò.