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troppi particolari, troppo si squarciava il petto per mostrarle il cuore vibrante d’ira, di passione e di spasimo.
Le scriveva: «Io soffrivo, io dubitavo da molto, ed anzi ero quasi certo della brutta verità, ma rifugiandomi in te come in un porto di salvezza, in un asilo santo ove potermi salvare e redimere nel giorno della sventura, non osavo confidarti nulla della mia storia e dei miei dolori, per rispetto della tua purità, del tuo candore, della tua santità», ma ora intanto, quasi dimenticasse la purità, il candore, la santità di lei, troppe cose dolorose le raccontava. Forse era uno sfogo inconsapevole e involontario, forse una grande punizione ch’egli s’infliggeva; ma Elena ne restava spaventata e talvolta offesa.
Viveva, in pochi giorni, come non aveva mai vissuto; dal suo angolo solitario e semplice vedeva il mondo in una tetra visione maligna, pieno di viltà e di male.
Eppure lo amava sempre più; pareva che l’amore diventasse più umano ed intenso a misura che il suo oggetto andava riavvicinandosi alla terra e alla realtà; e nell’infinita carità di quest’amore, l’anima buona scusava, compativa e riabilitava la figura diletta.
Ma di giorno in giorno, d’ora in ora, la triste figura di Sara si frapponeva, fra lei e l’immagine cara, dividendoli insidiosamente.
Elena pensava all’ebrea lontana e sconosciuta,