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aveva dormito, e il dolore acuto e soffocante che da tre giorni lo martoriava, lo investì come un brivido ed uno spasimo fisico, e lo fece balzare da letto e battere pazzamente la bella testa sul guanciale. Uscì dal portico, perchè la sua stanza era al pian terreno, in faccia all’altra ove dormivano Costanza, Domenico e Cicchedda, e quest’ultima, già levata, si fece premura di portargli un lavabo di latta pieno d’acqua.
Dal fico piovevano grosse goccie d’acqua, grigie e lente; nel cielo limpidissimo, ma scolorito, le ultime nubi si dissolvevano come masse di fumo, e il cortile era pieno di fango, di laghetti scuri che riflettevano la tristezza del mattino.
Mentre Alessio si lavava, Cicchedda stette a guardarlo imbambolata, ed egli sentì che questa creatura, la più misera fra le creature, lo compassionava pur essa; e ciò accrebbe la sua tristezza e il suo disgusto.
Cicchedda infatti lo trovava più che mai invecchiato, ma oltre che per pietà lo guardava infantilmente curiosa di veder come era fatto un grande dispiacere.
Il volto di Alessio aveva una tinta livida, i suoi folti ed irti capelli, la sua barba, i suoi baffi e le sue congiunte sopracciglia sembravano più nere ed abbondanti; la sua alta persona, d’una muscolosa e perfetta fattura, a cui il pittoresco costume nuorese dava una speciale eleganza di forme e di movimenti, s’era incurvata;