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d’importanza, e Agada parea provar tanto dolore da restarne impalata sulla porta; un dolore che non le permetteva neppure d’invitar la comare ad entrare ed a sedersi. Franzisca però scorgeva benissimo la caffettiera sul fuoco, e allungava la sua missione col desiderio di buscarsi una tazza di caffè. Cicchedda, dentro, spazzava e tendeva le orecchie; a un tratto fece un salto, perchè la caffettiera bolliva e l’acqua si versava sul fuoco e cominciò a gridare: — La padrona! la padrona, venite qui!
Agada, scandolezzata, non si volse neppure, ma comare Franzisca capì ch’era inutile restare e s’avviò per andarsene. Salvatore era giù uscito per recarsi da Maria.
— Ora sveglio Costanza e vengo subito — disse Agada, accompagnando la donna per il cortile.
— Ah, una cosa dimenticavo! Bisogna portar qui il bambino.
— Lo porteremo. Andate con Dio.
— Costanza? — chiamò poi Agada battendo le dita sulla porta della camera terrena. — Levati subito.
Rientrando in cucina vide Cicchedda rider silenziosamente, mostrando tutti i suoi denti bianchissimi e dicendo: — L’ho fatta andar via io! Non la finiva più; aveva voglia di caffè, ma ha fatto fiasco. Se poi glielo aveste dato, vi avrebbe criticato dicendo: — Guarda, guarda, non è preoccupata della disgrazia!