Il sorbetto della regina/Parte prima/IV
Questo testo è completo. |
◄ | Parte prima - III | Parte prima - V | ► |
CAPITOLO IV.
Lo studente.
Non descriveremo minutamente le noie, le avventure, le gioie, le disgrazie, gli accidenti della vita di studente di Bruto. Si è tanto scritto sugli studenti dal tempo che Abele e Caino andavano a scuola, che gli è oramai inutile il tentare di far variazioni nuove sopra questo vecchio tema.
La vita dello studente napoletano, a quei dì, era miserabile oltre natura. Sotto la implacabile sorveglianza del commissario di polizia e del priore della Congregazione, guardato a vista dal governo, condotto a messa ed alle confessioni dai gendarmi, sempre in mezzo a due spie che non gli lasciavano mai pace — quella dello Stato e quella della Chiesa — il commissario Campobasso e monsignor Scotti... ecco qual era a quei tempi la vita d’uno studente napoletano.
Nessuno, del resto, si prendeva pensiero se studiasse o no, tanto peggio anzi, se studiava gli era segno che voleva istruirsi, che desiderava imparare, che cercava di comprendere: dunque, un essere pericoloso. Dal comprendere all’odiare il dispotismo non v’ha che un passo.
Il tipo del buon suddito è sempre stato in ogni tempo e dappertutto un asino santo — qualcosa, insomma, che rassomiglia ad un Francescano.
La carta di soggiorno, il certificato di aver assiduamente assistito alla Congregazione, il biglietto di confessione, le informazioni che il commissario di polizia di tanto in tanto veniva a cercare dai professori, erano tante catene — senza contar le spie — che tenevano uno studente in una camera oscura, ove egli non percepiva nulla che avesse l’ombra di libertà, di libero pensiero, di sentimento, di patria, d’onore, di dignità umana.
Il sole di Napoli pioveva tenebre. Il cielo di Napoli abbrutiva e degradava. I confini del regno erano come le molle di una camiciuola di forza, nella quale otto milioni di anime in putrefazione si dibattevano. La religione era il narcotico della politica, la politica il boa constrictor della religione e, fra questi due strettoi inesorabili, lo studente si logorava, si spossava, diveniva moralmente laido e bruto: l’anima si anchilosava.
Bruto cadde in questa fossa di torpedini. La prima scarica fu orribile. Egli passava dall’indifferenza dei parenti e del maestro, alla vigilanza sospettosa ed astuta d’un prete e di un birro. Cadeva da Voltaire in Sant’Ignazio; dal patriarcato del villaggio passava alle convenienze della città, alle esigenze della vita più educata, ai sarcasmi motteggiatori dei suoi condiscepoli.
Mal vestito, povero, senza un soldo in tasca, sgraziato, imbarazzato, troppo franco di mano e di lingua, trascurato in tutto, poco pulito e slanciato d’un tratto in un nuovo ordine di idee, in una corrente contraria ai suoi studi anteriori, annoiandosi facilmente, ma avido d’istruzione e di rendersi ragion di tutto, e perciò fastidioso ed importuno, poco socievole nel fondo e proclive a ridersi di tutto e di tutti, Bruto passò molto male i primi mesi della sua vita di studente.
Ogni cosa lo urtava. Era come un uomo nudo coricato sopra delle ortiche. Si bisticciò quindi colla polizia, con monsignor Scotti, col priore della Congregazione, con don Noè, con Tartaruga; fu lì lì per storpiare uno o due dei suoi camerati; corse rischio due o tre volte di esser schiacciato sotto le carrozze, non s’inginocchiò dinanzi al Santissimo che passeggiava nelle vie sotto un baldacchino; non levò il cappello mentre passava il re; fu distratto, di cattivo umore; camminò sopra i calli e sopra i piedi di non so quanta gente; cozzò con questi e con quegli e tirò avanti senza curarsi delle ingiurie lanciategli.
Alla scuola interruppe i professori con delle apostrofi, che lo misero sul punto di essere scacciato. Il fare, le maniere di città, lo facevano disperare; sentiva tutti gli stimoli della vita che si svegliava, della giovinezza che si imponeva e non poteva soddisfare nè i suoi gusti, nè i suoi appetiti.
Aveva perpetuamente vergogna.
Il pievano di suo zio l’aveva raccomandato al professore Cosentini, un guercio di genio, un papa della scienza che non credeva nel suo messia; osservatore acuto ed ostinato, che a forza di voler vederci chiaro, di cercare il fondo delle cose, aveva finito col trovare il vuoto. Poichè nelle sue lezioni, dopo aver con una ispirata chiarezza di forma, scandagliato tutti i fatti, tutte le opinioni, tutte le dottrine, finiva sempre col dubbio e colla negazione.
Ciò spaventò Bruto. Studiare per imparare che non si sa nulla, diceva egli, tanto vale non studiar punto. Il finito è più ignoto e più inesplorabile dell’infinito.
Malgrado questo disinganno, egli continuò a frequentare la scuola dell’illustre professore. Le ore di queste lezioni eloquenti divennero anzi per lui ore d’incanto.
Un giorno, nel rientrare, Tartaruga gli consegnò una lettera da Moliterno. Era il sergente Sacco-e-Fuoco che gli scriveva queste linee misteriose:
- “Mio caro Bruto,
“Se nei vortici di cotesta Babele, ti ricordi ancora del tuo povero maestro, che t’ha dato tante volte e con tanto gusto le staffilate, egli ti domanda un piccolo servigio. Va al vico del Sole (che non è mai visitato dal sole), presso San Pietro a Majella, cerca il numero 28, monta al quarto piano, a sinistra, e domanda di Giuseppina Tortora. Le dirai che son io che ti mando. La lasciai lì quando abbandonai Napoli, nel 1814, partendo per la guerra.
“Mi scriverai tutto. Il silenzio di vent’anni, che si è fatto intorno a me, non ha potuto farsi dentro di me. Fruga, trova, inventa, crea Giuseppina. Essa era là nel 1814. — Hai capito? Va, ragazzo mio, scrivimi una lettera di otto pagine. Studia, figliuolo. Addio. Tuo di cuore,
“Pietro Colini„
Questa lettera stordì Bruto, che non ci capì nulla. Eppure era chiarissima.
Il sergente ne aveva scritte almeno un centinaio calcate sopra quel modello, all’indirizzo del Vico del Sole, ferme in posta, ai suoi amici, ai suoi compagni d’arme. Aveva dato l’istessa commissione a cento altri compatriotti che erano andati a Napoli, non potendoci andare egli stesso, perchè la polizia e la miseria lo confinavano a Moliterno. Tutti gli avevano risposto l’istessa cosa. Il sergente non voleva esser convinto. Si rassegnava un giorno e al domani la sua anima riprendeva il volo.
Diciotto o vent’anni per lui erano un minuto. La sua vita si concentrava su un punto, sopra una data. Egli, che durante quindici anni aveva percorsa l’Europa, assistito a cento battaglie, aveva veduto tanto, fatto tanto, tanto sofferto, aveva traversato tante peripezie, tante orgie, tanti amori, delle giornate di mitraglia, delle notti di bivacco sotto il cannone nemico; egli che era ritornato dalla Russia in mezzo ad un nugolo di Cosacchi, a traverso il vento delle steppe, più micidiale del vento degli obizzi; quest’uomo incombustibile non si ricordava che di un’ora della sua vita; viveva interamente in quell’ora, come se fosse stato ieri, o questa mattina, viveva di quell’ora.
Il tempo che lo circondava non contava per lui. Non poteva comprendere che altri avvenimenti potessero esser accaduti, quantunque egli ne fosse l’attore e la vittima.
— Diavolo! Diavolo! disse Bruto tra sè, il mio sergente si emancipa! Va alla pesca delle vecchie vivandiere del 1814! Giuro a Dio! il cronometro del sergente è terribilmente in ritardo.
Pure, ingoiato in fretta in fretta in fretta un piatto di fagiuoli, senza neppur levarsi il cappello, Bruto corse al Vico del Sole.
La curiosità lo spronava; provava una certa emozione.
L’indirizzo era preciso.
Non c’era portinaio nella corte. Parigi non aveva ancora comunicata a Napoli questa piaga, che val bene quella che Napoli regalò ai compagni di Carlo VIII. Non avendo da indirizzarsi a nessuno, Bruto salì difilato al quarto piano, picchiò all’uscio a sinistra di quella cupa, fetida ed immonda casa. Non c’era battitoio, nè campanello. L’uscio era mezzo aperto. Bruto picchiò tuttavia colle mani. Nessuna risposta. Picchiò di nuovo; silenzio sempre.
Allora entrò.
La strana camera in cui si trovò, era in quel momento vuota; ma si vedeva che era abitata. Una pentola bolliva sopra un fornello di creta, sicuro segno che il pigionale di quell’appartamento era stato disturbato, mentre preparava il suo pasto e che si era allontanato momentaneamente. Bruto sedette e passò in rivista le mobiglie singolari di quella stanza.
Era molto vasta. Una finestra, che dava sulla corte, la rischiarava quanto bastava per farne spiccare la miseria, il sudiciume, la decrepitezza. Non si distingueva più la tinta primitiva delle pareti; era divenuta d’un colore sconosciuto nei raggi dell’iride. La camera sembrava scorticata e fessa in più luoghi. L’occhio seguiva le traccie che i rivolini d’umidità avevan lasciato colando dall’alto al basso e che avevano deposto una crosta di sale sordido.
Da un lato v’era un mucchio di tela bruna in forma di tenda. Dall’altro, un pagliericcio, coperto da una vecchia coltre di lana, senza lenzuola. Contro il muro vicino alla finestra, il fornello per cucinare. Poi una tavola di pioppo annerita dal grassume e due o tre sedie di paglia, zoppe tutte di un piede per lo meno.
Lungo l’altra parete, per un miracolo di statica, stava ritto un armadio senza battenti, pieno di pezzi di stoffe di tutti i colori e di tutte le qualità, dal panno comune al broccato d’oro, dalla flanella al velluto. Poi, tutto intorno alla stanza, disposti in ordine, appesi a chiodi, come in linea di battaglia, un centinaio o due di burattini di tutte le dimensioni, scolpiti e vestiti con tant’arte e verità che li avreste creduti viventi.
La debole luce del giorno, che era sul cadere, il riverbero cupo e rossastro dei carboni del fornello davano qualcosa di fantastico a quella stanza. Si sarebbe detto che quei piccoli spettri immobili non aspettassero che il segnale di un mago per istaccarsi dalle pareti, vivere, muoversi, principiare una danza fantastica di gnomi, di lemuri, di silfi mascherati.
V’erano tutti i personaggi della commedia sociale, dall’invenzione extra-umana, da Pulcinella a Cesare, da Colombina al diavolo, da Pagliaccio alla Vergine Maria; il birro e l’angelo; il grande di Spagna e il mal ladrone, il gendarme e il gesuita, la fanciulla ingenua ed il burbero tutore, Giuditta e la sua vecchia ed anche il capitano svizzero che rappresenta Oloferne.
Poi dei genii alati, delle fate, delle ballerine, degli spettri, dei terribili assassini armati di trombone. — C’era lì la storia della vita, la leggenda, la favola, la follìa, la storia sacra, le miserie della pubblica piazza, le delizie dei sogni di vent’anni. Pist! e tutto vola nell’aria, canta, freme, grugnisce, rugge di collera; è spuma del mare, ala di uccello, contorsione, scoppio di riso — una palpitante visione di hascis, o un pesante incubo di vino di Calabria.
Bruto subiva questa specie di vertigine da dieci minuti, quando l’abitante della stanza entrò serio, recando una manata di legumi. Egli gittò uno sguardo su Bruto, che si alzò ma senza far motto e corse alla pentola donde l’acqua scappava via nell’ebollizione e spegneva il fuoco. Bruto, confuso, distratto e spinto da un bisogno istintivo di dire alcun che, dimandò:
— Siete voi Giuseppina Tortora?
L’uomo, interpellato così, volse vivamente il capo; fissò il giovanotto con un viso imperturbabile e rispose serio serio:
— Sono proprio lei.
Bruto, risvegliato da questa risposta burlesca, scorse che il suo interlocutore era un vecchietto d’una cinquantina d’anni, giallo, magro, tozzo, con un testone coperto da capelli grigi arruffati; un paio di calzoni giallastri; un soprabito nero nella sua infanzia, grigio ora e bucato ai gomiti; una cravatta rossa e un berretto di pelle. Aveva mustacchi neri ed enormi sopracciglia; il tutto rischiarato da due occhi che fiammeggiavano e ch’era impossibile di fissare nel loro movimento continuo. Quello sguardo rifletteva un’anima.
— Scusate, disse alla fine Bruto arrossendo. Ero distratto e preoccupato. In realtà vengo qui per domandare notizie di cotesta Giuseppina.
— Se desiderate l’imperatrice Giuseppina, la moglie di Bonaparte, ve la presento all’istante. Io, piccino mio, non ne conosco d’altre.
— Quella che io cerco è una persona seria, rispose Bruto. Ella abitava questa camera nel 1814.
— Se non avete notizie più recenti, caro amico (rispose l’uomo dai legumi, cui tagliuzzava e ficcava nella marmitta), vi consiglio di dirigervi al diavolo o alla polizia.
— Al diavolo sì, se me ne date l’indirizzo; alla polizia, no.
— Hehm! pare che non siamo molto in buona colla polizia. Non monta; che Dio la soffochi ed allora crederò in Lui. Ma veniamo alla Giuseppina del 1814. Parlate sul serio, piccino?
— Leggete questa lettera, rispose Bruto, dandogli la missiva del veterano.
Don Gabriele fissò i suoi sguardi sopra Bruto come un uomo che risponde ad una provocazione, poi aggiunse freddamente:
— Più tardi! Non è necessario che io legga ora la vostra lettera. Lasciatemi dirvi anzitutto che io abito questa camera da nove o dieci anni e che prima di me era occupata da uno studente abruzzese, che è tornato al suo paese. Dalla cantina al tetto tutti i pigionali della casa si son cambiati quattro o cinque volte dal 1814 in qua, ed i più vecchi datano da tre anni. Se desiderate notizie di questa comare, credete pure che, per Dio, non è qui che le avrete. In ogni caso domandate....
— Gli è inutile, poichè non ne sapete niente. Sarei stato lieto per altro di rendere questo piccolo servizio al mio povero sergente.
— Ma di che si tratta, insomma? domandò don Gabriele.
— Ne so tanto come voi. Probabilmente di una donna che il sergente amava nel 1814 e che, a quel che pare, ricorda ancora. Quel diavolo d’invalido è un uomo tenace.
— Con quegli indizi, ragazzo mio, non c’è mezzo di venirne a capo, nè voi, nè io, nè il curato, nè la municipalità e forse neppure la polizia. Giuseppina? ma le Giuseppine pullulano. Tortora? vi sono tante tortore e tortorelle. Pesca un’ostrica nel Fusaro, se puoi. E poi ci vuole tempo, pazienza, danaro e assiduità... 1814! Diamine; ma sarà morta quattro volte o sarà divenuta colonnella, la sergentessa.
— Gli è impossibile, disse Bruto sospirando ed alzandosi.
— Per Dio, giovinotto, mi suggerite un’idea, gridò don Gabriele, battendosi la fronte e portando i suoi sguardi sopra un gruppo di marionette appese al muro. — Come si chiama il vostro sergente?
— Sacco-e-Fuoco.
— Magnifico! divino! Scommetto che ha fatte le campagne di Russia col principe Eugenio o con Murat.
— È stato in Russia, si è trovato a Waterloo, è monco di una mano, ha perduta una gamba, ha il viso cincischiato... ma non so nulla nè del principe Eugenio, nè di Murat. Il sergente non parla mai nè di sè stesso, nè delle sue vicende.
— Bravo! bravo! oh! come sarà applaudito! che leccornia! che frenesia! che emozione!... Andare alla guerra pel suo paese, lasciare una moglie ed una figlia, ritornare e ritrovare la moglie morta di fame, la figlia sedotta; domandare al seduttore che la sposi. Ciò non è possibile. Egli è ricco e nobile, ella è bella e nulla più. E poi è una popolana. Provocare quel miserabile.... benissimo. La polizia mette in prigione il padre e dà alla figlia, una patente di.... di....
— Ma voi farneticate, signor mio, disse Bruto; non c’è nulla di tutto ciò, nulla, assolutamente nulla.
— Zitto! zitto! continuò don Gabriele. Voi non capite che con una commedia, come questa, farò otto rappresentazioni al giorno? Che donna Peppa si arricchirà? Che tutta Napoli vorrà vedere il suo sergente Sacco-e-Fuoco? che vi saranno lagrime, grida, imprecazioni e buccie d’arancio sul capo del cavalier Polidoro? È il nome che voglio dare al seduttore di Fortunella. È magnifico! bravo giovinotto, grazie, grazie! Avete l’entrata gratis al mio teatro e ai primi posti.
Bruto, stordito, comprendeva appena e credeva comprender male. Vedeva il suo povero sergente trascinato in una bufera di avventure, di pericoli, di sventure, di miserie e sentivasi venir la voglia di prendere pel collo quel piccolo diavolo di uomo e dirgli: Basta così, brigante! Non voglio che tu mi sperperi così il mio veterano. Intanto don Gabriele dimenticava le sue carote, i suoi cavoli, la sua pentola e ruminava e parlava fra sè!
— Ma scusatemi, caro mio, disse Bruto alla fine, chi siete voi che mi prendete così il mio sergente e la sua Giuseppina per farne Dio sa che cosa? vi proibisco di toccare il sergente o la va a finir male.
Don Gabriele si mise a ridere e rispose: — Calmatevi, giovinotto, io son don Gabriele. Tutta Napoli conosce don Gabriele, il direttore del teatro di Donna Peppa. Scommetto che m’avete udito al Molo nel mio teatro ambulante di burattini; che avete riso cento volte delle mie storie e delle mie arguzie e che non m’avete mai dato un centesimo. Sta bene; lasciatemi fare adesso, lasciatemi il vostro sergente e vi prometto di occuparmi a trovare le tracce della Giuseppina. Per mia sventura, ho sovente a riveder taccoli colla Polizia, a causa del mio mestiere. Li conosco tutti quei cari agenti; m’informerò di quella donna. Datemi, però, qualche indicazione più precisa. Scrivete al vostro sergente e portatemi la sua risposta.
La transazione sembrò andar a sangue a Bruto. Inoltre, senza ch’egli se ne accorgesse, don Gabriele l’aveva colpito. La sua maniera di parlare, il suo slancio, l’accento, quell’impero indomabile che l’arte prende sull’uomo avevano aperto nello spirito di Bruto una via a nuove idee, ad un istinto nascosto, a dei desiderii sconosciuti, a delle speranze vaghe ed indefinite.
— Sia, diss’egli: ritornerò. Ma ad una condizione: che non metterete il mio sergente sugli avvisi, finchè io non sappia in che storia lo fate figurare. Per Dio! non voglio che faccia nè la figura d’imbecille, nè quella di un sacripante. Se lo sapesse, ci romperebbe le coste a voi ed a me.
— Non temete di nulla, giovanotto. Quando mi conoscerete meglio, capirete che la raccomandazione è inutile.
— E poi non mi piace che facciate morir Giuseppina. Ho un’idea....
— Dite, ragazzo, dite, sclamò don Gabriele ansioso.
— No: c’è di meglio a fare.
— Che cosa?
— A rivederci, ve lo dirò un’altra volta.