Il sorbetto della regina/Parte prima/III

Parte prima - III. Don Noè

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CAPITOLO III.


Don Noè.


Nel secolo scorso la botanica sociale produceva una pianta, il cui seme sarebbe interamente perduto, se non lo si ritrovasse nelle tradizioni della commedia — lo zio d’America.

Oggi, gli zii lasciano piuttosto debiti che eredità; danno più facilmente ai loro nipoti dei consigli che del danaro; fumano sigari di costoro, fanno la corte alle loro amanti, s’insediano alla loro tavola ed attingono nella loro borsa. Se però è avaro, uno zio scapolo è ancora una incognita, che arride nell’avvenire, una probabilità fortunata, uno sguardo d’amore del destino; e molti falli della gioventù si accomodano, molti progetti spuntano fuori al raggio di questa fortuna che brilla in lontananza.

Don Noè, zio di Bruto, rassomigliava un po’ a tutti gli zii. Era venuto a Napoli quasi bambino, con un’arpa sulla schiena, mendicando sotto pretesto di musica. Messo insieme un po’ di scudi, ritornò al paese per darsi al commercio dei formaggi. Dio favorì la sua ambi[p. 23 modifica]zione e la sua pietà. Ritornò allora a Napoli per istabilirvisi e noi ve lo ritroviamo sagrestano nella chiesa di San Matteo.

Il curato gli aveva ceduto, al settimo piano, due bugigattoli che davano in un vicolo sudicio e stretto; gli regalava di tanto in tanto una vecchia sottana e gli pagava trenta carlini al mese. Il curato si mostrava generoso, perchè alla sua volta don Noè eseguiva le piccole commissioni di Sua Reverenza.

I due buchi abitati dal sagrestano erano poverissimi di mobili e molto ricchi di lampade, di imagini di santi, di madonne e d’insetti. I muri, impiastrati d’una tinta gialla, sostenevano un soffitto coperto di una carta dell’istesso colore a fiorellini turchini, vecchia di cinquant’anni e che cadeva a pezzi. L’aria che si respirava lì dentro moveva nausea.

Vi si sentiva il tanfo di rinchiuso, l’umidità, il grasso condensato delle costolette arrostite sul carbone, ogni sorta di puzza cumulata agli odori della cucina che si faceva in un angolo sur un piccolo seggio. Una delle stanzucce, tramezzate da una impalcatura a cui si arrampicava per una scala mobile, serviva di camera da letto alla vecchia serva di don Noè.

Il sagrestano era piccolo, ma lautamente provvisto di due gobbe. Aveva la testa affondata nel collo, il collo nel torace, il torace nell’addome, il tronco cascante sulle cosce, le cosce confuse colle gambe, le gambe sprofondate in due enormi stivaloni alla scudiera, regalatigli da un abate, che nell’inverno vestiva da secolare. [p. 24 modifica]

Don Noè rassomigliava ad un cannocchiale rientrato. Di più, egli era calvo: aveva la fronte protuberante, gli occhi vivi, le labbra grosse, la faccia gialla, il naso venato in rosso a zigzag, i denti lerci. E, oltre a tutto ciò, era goloso ed avaro.

Mastro Zungo gli aveva annunziato per lettere la partenza di suo figlio. Don Noè aspettava, dunque, Bruto. Difatti, quattro dì dopo aver lasciato Moliterno, un bel giorno di sole, verso le quattro, Bruto arrivò da suo zio. Il corricolo che l’aveva condotto fino alla porta, aveva fatto venire tutto il vicinato alle finestre, co’ suoi cavalli, più ricchi di campanelli che di carne, e coi due cappuccini, che tenevano seduto sui ginocchi questo bel giovanotto, che spirava la vita e la salute.

In meno di due minuti si sparse la voce che era il nipote del sagrestano e donne officiose e tutto cuore — come è in generale la plebe napoletana — precedettero Bruto al settimo piano per annunziarlo a suo zio.

A questa nuova e alla vista di quel pezzo di giovane, don Noè interruppe il suo lavoro (faceva calze), e montò sopra una scranna per giungere a livello di Bruto, la cui testa era a circa sei piedi dal suolo. Bruto riconobbe suo zio senza grande fatica. Gli corse incontro, aperse le braccia, se lo strinse al petto e lo abbracciò con tanta veemenza, che lo sgraziato don Noè credette di soffocare.

Mastro Zungo aveva imposto a suo figlio di mostrarsi affettuoso e carezzevole.

Bruto, trattosi indietro per un momento, si [p. 25 modifica]disponeva a tornar alla carica coi suoi abbracci.

Don Noè fissò gli occhi sopra di lui spalancati e spaventati e gli fece cenno di star queto. Poi, dopo averlo misurato e contemplato da capo a piedi, brontolò freddamente:

— È tutto suo padre! un bestione.

Mastro Zungo aveva inoltre ingiunto a suo figlio di non mentir mai e di non contraddire suo zio. Bruto rispose quindi:

— Sì, caro zio, sono proprio della famiglia, un bestione.

— Che fa tuo padre? e la tua buona mamma?

— Sempre lo stesso, sempre la stessa, caro zio. Mio padre salassa, sbarba e porta in giro le notizie; mia madre mastica quotidianamente dieci centesimi di tabacco e tre o quattrocento Pater e Ave per la conversione della Francia.

— I miei buoni amici di Moliterno si ricordan essi di me? Che cosa dicono!

— Gli uni, che siete un ignorante prodigioso; le donne, che siete un incomparabile suonatore di campane; mio padre, che siete un avaro; mia madre, che siete un santo. Io vi dirò la mia opinione quando ci saremo un po’ meglio conosciuti.

— Impertinenti! sclamò il sagrestano. Ma se si cavassero dal villaggio codesti intriganti cinguettatori....

— Non ci resterebbe più che il sergente Sacco-e-Fuoco, che trova il re eccessivamente clemente nell’accordare ai Napoletani il privilegio di tenersi una testa sulle spalle.

— Sai, nipote, che le tue maniere mi vanno [p. 26 modifica]a sangue? disse don Noè, dopo aver osservato il giovane con attenzione.

— Faccia Iddio che vi aggradisca egualmente il mio appetito, caro zio! rispose Bruto di aria mezzo sorridente e mezzo triste, per far capire a don Noè che aveva fame.

A queste parole lo zio fece una smorfia.

— Questi nipoti di provincia sono tutti compagni, mormorò egli; pieni di buone intenzioni, ed affamati. Le buone intenzioni svaniscono, la fame resta.

Nel frattempo Bruto dava un’occhiata in giro all’appartamento, come un usciere che si prepara a far sequestro. S’avvide allora che c’era in un angolo qualche cosa che si moveva, rannicchiato sopra sè stesso, con un rosario di corno di bufalo tra le mani, gli occhi stupidamente sbarrati sullo zio e sul nipote, la testa e le orecchie tese in avanti come chi si sforza di udire e di comprendere. Bruto allora chiese:

— Chi è quel gnomo, vecchio come la strega di Andorra e scheletrito come San Girolamo?

Il sagrestano si grattò di un’aria grama il cranio calvo e borbottò:

— Tutti li stessi questi ragazzi! E’ non si adattano a ciò che accettiamo noi. Ah! che bel mobile mi ho acquistato!

La vecchia serva, che Bruto aveva chiamata gnomo, non mosse palpebra. Don Noè soggiunse:

— A proposito, non vedo che tu abbi con te nessun baule. Come stiamo a vestiti, eh?

— I miei parenti detestano la pluralità.

— E a denaro? [p. 27 modifica]

— Do la mentita più completa ai filosofi, i quali dichiararono che la natura ha orrore del vuoto.

— Hai dei libri almeno?

— Nessuno. Ma gli è inutile, caro zio, che vi ostiniate a fare un inventario. Compongo io solo tutto l’inventario; rappresento, quale mi vedete, la nostra famiglia, il cuore pieno di speranze, la testa di progetti, lo stomaco d’appetito.

Poi, mentre lo zio rifletteva, si mise a cantarellare:


                              Ve lo dico in pochi motti,
                              Nel fardello ho due biscotti.
                              Ho la terra che percorro,
                              Ho il presente e l’avvenire.

— Anche poeta, esclamò don Noè, lasciando scappare un gran sospiro.

Mentre il sagrestano faceva preparare un po’ di desinare, Bruto, che veniva dall’aria aperta, dall’aria pura, sentendosi soffocare, corse alla finestra e l’aprì. Guardava il cielo. Uno scroscio di riso, che gli risuonò di faccia, lo richiamò alla terra. Guardò, arrossì, ed allungò il collo per meglio vedere.

Una voce argentina e giovane, ricominciando a ridere, soggiunse:

— Sbarcato da Calabria, fresco, fresco!

— Ah! di già! sclamò don Noè.

E senza dar tempo a quella voce di aggiungere altre osservazioni, si avvicinò al nipote, si rizzò sulla punta dei piedi, lo prese per le orecchie onde cavarlo dalla sua contempla[p. 28 modifica]zione, lo spinse da parte, salutò e chiuse la finestra.

Bruto restò confuso e pensieroso.

Al domani don Noè si occupò dei vestiti di suo nipote, poichè non era possibile di mandarlo nè a scuola, nè dove che sia, nell’arnese in cui era venuto da Moliterno.

Don Noè lo condusse alla Giudea vecchia, da un mercante di sua conoscenza, che lo servì da amico, cioè caro e male. L’onesto giudeo fece indossare a Bruto un saione che aveva servito da abito festivo ad un usciere, il quale cambiava più spesso di moglie legittima che di vestito. Vi accoppiò un panciotto, la cui stoffa, dopo aver brillato nel corredo da nozze della moglie d’un avvocato e aver coperto un sofà, era destinata a fiorire sul petto di Bruto. Calzoni, stivali, cappello, ogni addobbo aveva una genealogia ed una storia.

Ma, sia noncuranza, sia altro motivo, Bruto non se ne mostrò scontento. Quanto a due birichini, che si permisero di fare delle osservazioni scherzose sul suo aspetto, ad uno regalò una pesca su un occhio, all’altro slogò la clavicola.

Don Noè, vedendolo così azzimato, disse con compiacenza a Tartaruga, la serva:

— Eh! che te ne pare, Tartaruga, di mio nipote?

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Bruto entrava nelle battaglie della vita.