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— Leggete questa lettera, rispose Bruto, dandogli la missiva del veterano.

Don Gabriele fissò i suoi sguardi sopra Bruto come un uomo che risponde ad una provocazione, poi aggiunse freddamente:

— Più tardi! Non è necessario che io legga ora la vostra lettera. Lasciatemi dirvi anzitutto che io abito questa camera da nove o dieci anni e che prima di me era occupata da uno studente abruzzese, che è tornato al suo paese. Dalla cantina al tetto tutti i pigionali della casa si son cambiati quattro o cinque volte dal 1814 in qua, ed i più vecchi datano da tre anni. Se desiderate notizie di questa comare, credete pure che, per Dio, non è qui che le avrete. In ogni caso domandate....

— Gli è inutile, poichè non ne sapete niente. Sarei stato lieto per altro di rendere questo piccolo servizio al mio povero sergente.

— Ma di che si tratta, insomma? domandò don Gabriele.

— Ne so tanto come voi. Probabilmente di una donna che il sergente amava nel 1814 e che, a quel che pare, ricorda ancora. Quel diavolo d’invalido è un uomo tenace.

— Con quegli indizi, ragazzo mio, non c’è mezzo di venirne a capo, nè voi, nè io, nè il curato, nè la municipalità e forse neppure la polizia. Giuseppina? ma le Giuseppine pullulano. Tortora? vi sono tante tortore e tortorelle. Pesca un’ostrica nel Fusaro, se puoi. E poi ci vuole tempo, pazienza, danaro e assiduità... 1814! Diamine; ma sarà morta quattro volte o sarà divenuta colonnella, la sergentessa.