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Il pievano di suo zio l’aveva raccomandato al professore Cosentini, un guercio di genio, un papa della scienza che non credeva nel suo messia; osservatore acuto ed ostinato, che a forza di voler vederci chiaro, di cercare il fondo delle cose, aveva finito col trovare il vuoto. Poichè nelle sue lezioni, dopo aver con una ispirata chiarezza di forma, scandagliato tutti i fatti, tutte le opinioni, tutte le dottrine, finiva sempre col dubbio e colla negazione.

Ciò spaventò Bruto. Studiare per imparare che non si sa nulla, diceva egli, tanto vale non studiar punto. Il finito è più ignoto e più inesplorabile dell’infinito.

Malgrado questo disinganno, egli continuò a frequentare la scuola dell’illustre professore. Le ore di queste lezioni eloquenti divennero anzi per lui ore d’incanto.

Un giorno, nel rientrare, Tartaruga gli consegnò una lettera da Moliterno. Era il sergente Sacco-e-Fuoco che gli scriveva queste linee misteriose:


“Mio caro Bruto,

“Se nei vortici di cotesta Babele, ti ricordi ancora del tuo povero maestro, che t’ha dato tante volte e con tanto gusto le staffilate, egli ti domanda un piccolo servigio. Va al vico del Sole (che non è mai visitato dal sole), presso San Pietro a Majella, cerca il numero 28, monta al quarto piano, a sinistra, e domanda di Giuseppina Tortora. Le dirai che son io che ti mando. La lasciai lì quando abbandonai Napoli, nel 1814, partendo per la guerra.