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capo; fissò il giovanotto con un viso imperturbabile e rispose serio serio:

— Sono proprio lei.

Bruto, risvegliato da questa risposta burlesca, scorse che il suo interlocutore era un vecchietto d’una cinquantina d’anni, giallo, magro, tozzo, con un testone coperto da capelli grigi arruffati; un paio di calzoni giallastri; un soprabito nero nella sua infanzia, grigio ora e bucato ai gomiti; una cravatta rossa e un berretto di pelle. Aveva mustacchi neri ed enormi sopracciglia; il tutto rischiarato da due occhi che fiammeggiavano e ch’era impossibile di fissare nel loro movimento continuo. Quello sguardo rifletteva un’anima.

— Scusate, disse alla fine Bruto arrossendo. Ero distratto e preoccupato. In realtà vengo qui per domandare notizie di cotesta Giuseppina.

— Se desiderate l’imperatrice Giuseppina, la moglie di Bonaparte, ve la presento all’istante. Io, piccino mio, non ne conosco d’altre.

— Quella che io cerco è una persona seria, rispose Bruto. Ella abitava questa camera nel 1814.

— Se non avete notizie più recenti, caro amico (rispose l’uomo dai legumi, cui tagliuzzava e ficcava nella marmitta), vi consiglio di dirigervi al diavolo o alla polizia.

— Al diavolo sì, se me ne date l’indirizzo; alla polizia, no.

— Hehm! pare che non siamo molto in buona colla polizia. Non monta; che Dio la soffochi ed allora crederò in Lui. Ma veniamo alla Giuseppina del 1814. Parlate sul serio, piccino?