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rava imparare, che cercava di comprendere: dunque, un essere pericoloso. Dal comprendere all’odiare il dispotismo non v’ha che un passo.

Il tipo del buon suddito è sempre stato in ogni tempo e dappertutto un asino santo — qualcosa, insomma, che rassomiglia ad un Francescano.

La carta di soggiorno, il certificato di aver assiduamente assistito alla Congregazione, il biglietto di confessione, le informazioni che il commissario di polizia di tanto in tanto veniva a cercare dai professori, erano tante catene — senza contar le spie — che tenevano uno studente in una camera oscura, ove egli non percepiva nulla che avesse l’ombra di libertà, di libero pensiero, di sentimento, di patria, d’onore, di dignità umana.

Il sole di Napoli pioveva tenebre. Il cielo di Napoli abbrutiva e degradava. I confini del regno erano come le molle di una camiciuola di forza, nella quale otto milioni di anime in putrefazione si dibattevano. La religione era il narcotico della politica, la politica il boa constrictor della religione e, fra questi due strettoi inesorabili, lo studente si logorava, si spossava, diveniva moralmente laido e bruto: l’anima si anchilosava.

Bruto cadde in questa fossa di torpedini. La prima scarica fu orribile. Egli passava dall’indifferenza dei parenti e del maestro, alla vigilanza sospettosa ed astuta d’un prete e di un birro. Cadeva da Voltaire in Sant’Ignazio; dal patriarcato del villaggio passava alle convenienze della città, alle esigenze della vita più