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suo pasto e che si era allontanato momentaneamente. Bruto sedette e passò in rivista le mobiglie singolari di quella stanza.

Era molto vasta. Una finestra, che dava sulla corte, la rischiarava quanto bastava per farne spiccare la miseria, il sudiciume, la decrepitezza. Non si distingueva più la tinta primitiva delle pareti; era divenuta d’un colore sconosciuto nei raggi dell’iride. La camera sembrava scorticata e fessa in più luoghi. L’occhio seguiva le traccie che i rivolini d’umidità avevan lasciato colando dall’alto al basso e che avevano deposto una crosta di sale sordido.

Da un lato v’era un mucchio di tela bruna in forma di tenda. Dall’altro, un pagliericcio, coperto da una vecchia coltre di lana, senza lenzuola. Contro il muro vicino alla finestra, il fornello per cucinare. Poi una tavola di pioppo annerita dal grassume e due o tre sedie di paglia, zoppe tutte di un piede per lo meno.

Lungo l’altra parete, per un miracolo di statica, stava ritto un armadio senza battenti, pieno di pezzi di stoffe di tutti i colori e di tutte le qualità, dal panno comune al broccato d’oro, dalla flanella al velluto. Poi, tutto intorno alla stanza, disposti in ordine, appesi a chiodi, come in linea di battaglia, un centinaio o due di burattini di tutte le dimensioni, scolpiti e vestiti con tant’arte e verità che li avreste creduti viventi.

La debole luce del giorno, che era sul cadere, il riverbero cupo e rossastro dei carboni del fornello davano qualcosa di fantastico a quella stanza. Si sarebbe detto che quei piccoli spettri