Il servitore di due padroni/Atto II

Atto II

../Atto I ../Atto III IncludiIntestazione 26 marzo 2020 100% Da definire

Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Cortile in casa di Pantalone.

Silvio e il Dottore.

Silvio. Signor padre, vi prego lasciarmi stare.

Dottore. Fermati; rispondimi un poco.

Silvio. Sono fuori di me.

Dottore. Per qual motivo sei tu venuto nel cortile del signor Pantalone?

Silvio. Perchè voglio, o che egli mi mantenga quella parola che mi ha dato, o che mi renda conto del gravissimo affronto.

Dottore. Ma questa è una cosa che non conviene farla nella propria casa di Pantalone. Tu sei un pazzo a lasciarti trasportar dalla collera.

Silvio. Chi tratta male con noi, non merita alcun rispetto.

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Dottore. È vero1, ma non per questo si ha da precipitare. Lascia fare a me, Silvio mio, lascia un po’ ch’io gli parli; può essere ch’io lo illumini e gli faccia conoscere il suo dovere. Ritirati in qualche loco e aspettami; esci di questo cortile, non facciamo scene. Aspetterò io il signor Pantalone.

Silvio. Ma io, signor padre...

Dottore. Ma io, signor figliuolo, voglio poi esser obbedito.

Silvio. Sì, v’obbedirò. Me n’anderò. Parlategli. Vi aspetto dallo speziale. Ma se il signor Pantalone persiste, avrà che fare con me. (parte)

SCENA II.

Il Dottore, poi Pantalone.

Dottore. Povero figliuolo, lo compatisco. Non doveva mai il signor Pantalone lusingarlo a tal segno, prima di essere certo della morte del Torinese. Vorrei pure vederlo quieto, e non vorrei che la collera me lo facesse precipitare.

Pantalone. (Cossa fa el Dottor in casa mia?) (da sè)

Dottore. Oh, signor Pantalone, vi riverisco.

Pantalone. Schiavo, sior Dottor. Giusto adesso vegniva a cercar de vu e de vostro fio.

Dottore. Sì? Bravo; m’immagino che dovevate venir in traccia di noi, per assicurarci che la signora Clarice sarà moglie di Silvio.

Pantalone. Anzi vegniva per dirve... (mostrando difficoltà di parlare)

Dottore. No, non c’è bisogno di altre giustificazioni. Compatisco il caso, in cui vi siete trovato. Tutto vi si passa in grazia della buona amicizia.

Pantalone. Seguro2, che considerando la promessa fatta a sior Federigo... (titubando, come sopra)

Dottore. E colto all’improvviso da lui, non avete avuto tempo [p. 571 modifica] a riflettere; e non avete pensato all’affronto che si faceva alla nostra casa.

Pantalone. No se pol dir affronto, quando con un altro contratto...

Dottore. So che cosa volete dire. Pareva a prima vista che la promessa col Torinese fosse indissolubile, perchè stipulata per via di contratto. Ma quello era un contratto seguito fra voi e lui; e il nostro è confermato dalla fanciulla.

Pantalone. Xe vero; ma...

Dottore. E sapete bene che in materia di matrimoni: Consensus et non concubitus facit virum.

Pantalone. Mi no so de latin; ma ve digo...

Dottore. E le ragazze non bisogna sacrificarle.

Pantalone. Aveu altro da dir?

Dottore. Per me ho detto.

Pantalone. Aveu fenio.

Dottore. Ho finito.

Pantalone. Possio parlar?

Dottore. Parlate.

Pantalone. Sior Dottor caro, con tutta la vostra dottrina...

Dottore. Circa alla dote ci aggiusteremo. Poco più, poco meno, non guarderò.

Pantalone. Semo da capo. Voleu lassarme parlar?

Dottore. Parlate.

Pantalone. Ve digo che la vostra dottrina xe bella e bona; ma in sto caso no la conclude3.

Dottore. E voi comporterete che segua un tal matrimonio?

Pantalone. Per mi giera impegnà, che no me podeva cavar. Mia fìa xe contenta; che difficoltà possio4 aver? Vegniva a posta a cercar de vu o de sior Silvio, per dirve sta cossa. La me despiase assae, ma non ghe vedo remedio. [p. 572 modifica]

Dottore. Non mi maraviglio della vostra figliuola; mi maraviglio di voi, che trattiate sì malamente con me. Se non eravate sicuro della morte del signor Federigo, non avevate a impegnarvi col mio figliuolo; e se con lui vi siete impegnato, avete a mantener la parola a costo di tutto. La nuova della morte di Federigo giustificava bastantemente, anche presso di lui, la vostra nuova risoluzione, nè poteva egli rimproverarvi, nè aveva luogo a pretendere veruna soddisfazione. Gli sponsali contratti questa mattina fra la signora Clarice ed il mio figliuolo coram testibus, non potevano essere sciolti da una semplice parola data da voi ad un altro. Mi darebbe l’animo colle ragioni di mio figliuolo render nullo ogni nuovo contratto, e obbligar vostra figlia a prenderlo per marito; ma mi vergognerei d’avere in casa mia una nuora di così poca riputazione, una figlia di un uomo senza parola, come voi siete. Signor Pantalone, ricordatevi che l’avete fatta a me; che l’avete fatta alla casa Lombardi; verrà il tempo che forse me la dovrete pagare: sì, verrà il tempo: omnia tempus habent. (parte)

SCENA III.

Pantalone, poi Silvio.

Pantalone. Ande, che ve mando. No me n’importa un figo, e no gh’ho paura de vu. Stimo più la casa Rasponi de cento case Lombardi. Un fio unico e ricco de sta qualità, se stenta a trovarlo. L’ha da esser cussì.

Silvio. (Ha bel dire mio padre. Chi si può tenere, si tenga). (da sè)

Pantalone. (Adesso, alla segonda de cambio). (da sé, vedendo Silvio)

Silvio. Schiavo suo, signore. (bruscamente)

Pantalone. Patron reverito. (La ghe fuma). (da sè)

Silvio. Ho inteso da mio padre un certo non so che; crediamo poi che sia la verità?

Pantalone. Co ghe l’ha dito so sior padre, sarà vero.

Silvio. Sono dunque stabiliti gli sponsali della signora Clarice col signor Federigo? [p. 573 modifica]

Pantalone. Sior sì, stabilidi e conclusi.

Silvio. Mi maraviglio che me lo diciate con tanta temerità. Uomo senza parola5, senza riputazione.

Pantalone. Come parlela, patron? Co un omo vecchio della mia sorte la tratta cussì?6

Silvio. Non so chi mi tenga, che non vi passi da parte a parte.

Pantalone. No son miga una rana, patron. In casa mia se vien a far ste bulae?

Silvio. Venite fuori di questa casa.

Pantalone. Me maraveggio de eia, sior.

Silvio. Fuori, se siete un uomo d'onore.

Pantalone. Ai omeni della mia sorte se ghe porta respetto.

Silvio. Siete un vile, un codardo, un plebeo.

Pantalone. Sè un tocco de temerario.

Silvio. Eh, giuro al cielo... (mette mano alla spada)

Pantalone. Agiuto. (mette mano al pistolese)

SCENA IV.

Beatrice colla spada alla mano, e detti.

Beatrice. Eccomi; sono io in vostra difesa. (a Pantalone, e rivolta la spada contro Silvio)

Pantalone. Sior zenero, me raccomando. (a Beatrice)

Silvio. Con te per l’appunto desideravo di battermi. (a Beatrice)

Beatrice. (Son nell’impegno). (da sè)

Silvio. Rivolgi a me quella spada. (a Beatrice)

Pantalone. Ah, sior zenero... (timoroso)

Beatrice. Non è la prima volta che io mi sia cimentato. Son qui, non ho timore di voi. (presenta la spada a Silvio)

Pantalone. Aiuto. No gh’è nissun? (Parte correndo verso la strada. Beatrice e Silvio si battono. Silvio cade e lascia la spada in terra, e Beatrice gli presenta la punta al petto.) [p. 574 modifica]

SCENA V.

Clarice e detti.

Clarice. Oimè! Fermate. (a Beatrice)

Beatrice. Bella Clarice, in grazia vostra dono a Silvio la vita, e voi, in ricompensa della mia pietà, ricordatevi del giuramento. (parte)

SCENA VI.

Silvio e Clarice.

Clarice. Siete salvo, o mio caro? 7

Silvio. Ah, perfida ingannatrice! Caro a Silvio? Caro ad un amante schernito, ad uno sposo tradito?

Clarice. No, Silvio, non merito i vostri rimproveri. V’amo, V’adoro, vi son fedele.

Silvio. Ah menzognera! Mi sei fedele, eh? Fedeltà chiami prometter fede ad un altro amante?

Clarice. Ciò non feci, ne farò mai. Morirò, prima d’abbandonarvi8.

Silvio. Sento che vi ha impegnato con un giuramento.

Clarice. Il giuramento non mi obbliga ad isposarlo9.

Silvio. Che cosa dunque giuraste?

Clarice. Caro Silvio, compatitemi, non posso dirlo.

Silvio. Per qual ragione?

Clarice. Perchè giurai di tacere.

Silvio. Segno dunque che siete colpevole.

Clarice. No, sono innocente.

Silvio. Gl’innocenti non tacciono.

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Clarice. Eppure questa volta rea mi farei parlando.

Silvio. Questo silenzio a chi l’avete giurato?

Clarice. A Federigo.

Silvio. E con tanto zelo l'osserverete? 10

Clarice. L'osserverò per non divenire spergiura.

Silvio. E dite di non amarlo? Semplice chi vi crede. Non vi credo io già, barbara, ingannatrice! Toglietevi dagli occhi miei.

Clarice. Se non vi amassi, non sarei corsa qui a precipizio per difendere la vostra vita.

Silvio. Odio anche la vita, se ho da riconoscerla da un’ingrata.

Clarice. Vi amo con tutto il cuore.

Silvio. Vi aborrisco con tutta l’anima.

Clarice. Morirò, se non vi placate.

Silvio. Vedrei il vostro sangue più volentieri della infedeltà vostra.

Clarice. Saprò soddisfarvi11. (toglie la spada di terra)

Silvio. Sì quella spada potrebbe vendicare i miei torti.

Clarice. Così barbaro colla vostra Clarice?

Silvio. Voi mi avete insegnata la crudeltà.

Clarice. Dunque bramate la morte mia?

Silvio. Io non so dire che cosa brami.

Clarice. Vi saprò compiacere. (volta la punta al proprio seno)

SCENA VII.

Smeraldina e detti.

Smeraldina. Fermatevi, che diamine fate? (leva la spada a Clarice) E voi, cane rinnegato, l’avreste lasciata morire? (a Silvio) Che cuore avete di tigre, di leone, di diavolo? Guardate lì il bel suggettino, per cui le donne s’abbiano a sbudellare. Oh siete pur buona, signora padrona. Non vi vuole più forse? Chi non [p. 576 modifica] vi vuol, non vi merita. Vada all’inferno questo sicario, e voi venite meco, che degli uomini non ne mancano; m’impegno avanti sera trovarvene una dozzina. (getta la spada in terra e Silvio la prende)

Clarice. (piangendo) Ingrato! Possibile che la mia morte non vi costasse un sospiro? Sì, mi ucciderà il dolore; morirò, sarete contento. Però vi sarà nota un giorno la mia innocenza, e tardi allora, pentito di non avermi creduto, piangerete la mia sventura e la vostra barbara crudeltà. (parte)

SCENA VIII.

Silvio e Smeraldina.

Smeraldina. Questa è una cosa che non so capire. Veder una ragazza che si vuol ammazzare, e star lì a guardarla, come se vedeste rappresentare una scena di commedia.

Silvio. Pazza che sei! Credi tu ch’ella si volesse uccider davvero?

Smeraldina. Non so altro io; so che se non arrivavo a tempo, la poverina sarebbe ita.

Silvio. Vi voleva ancor tanto prima che la spada giungesse al petto.

Smeraldina. Sentite che bugiardo! Se stava lì lì per entrare.

Silvio. Tutte finzioni di voi altre donne.

Smeraldina. Sì, se fossimo come voi. Dirò come dice il proverbio: noi abbiamo le voci, e voi altri avete le noci. Le donne hanno la fama di essere infedeli e gli uomini commettono le infedeltà a più non posso. Delle donne si parla e degli uomini non si dice nulla. Noi siamo criticate, e a voi altri si passa tutto. Sapete perchè? Perchè le leggi le hanno fatte gli uomini; che se le avessero fatte le donne, si sentirebbe tutto il contrario. S’io comandassi, vorrei che tutti gli uomini infedeli portassero un ramo d’albero in mano e so che tutte le città diventerebbero boschi. (parte) [p. 577 modifica]

SCENA IX.

Silvio 'solo.

Sì, che Clarice è infedele, 12 e col pretesto di un giuramento affetta di voler celare la verità. Ella è una perfida, e l’atto di volersi ferire fu un’invenzione per ingannarmi, per muovermi a compassione di lei. Ma se il destino mi fece cadere a fronte del mio rivale, non lascierò mai il pensiero di vendicarmi. Morirà quell’indegno, e Clarice ingrata vedrà nel di lui sangue il frutto de’ suoi amori. (parte)

SCENA X.

Sala della locanda con due porte in prospetto e due laterali.

Truffaldino, poi Florindo.

Truffaldino. Mo gran desgrazia che l’è la mia! De do padroni nessun è vegnudo ancora a disnar. L’è do ore che è sonà mezzo zorno, e nissun se vede. I vegnirà pò tutti do in una volta, e mi sarò imbroiado; tutti do no li poderò servir, e se scovrirà la faccenda13. Zitto, zitto, che ghe n’è quà un. Manco mal.

Florindo. Ebbene, hai ritrovato codesto Pasquale?

Truffaldino. No avemio dito, signor, che el cercherò dopo che avremo disnà?

Florindo. Io sono impaziente.

Truffaldino. El doveva vegnir a disnar un poco più presto.

Florindo. (Non vi è modo ch’io possa assicurarmi se qui si trovi Beatrice). (da sè)

Truffaldino. El me dis, andemo a ordinar el pranzo, e pò el va fora de casa. La roba sarà andada de mal.

Florindo. Per ora non ho volontà di mangiare. (Vo’ tornare [p. 578 modifica] alla Posta. Ci voglio andare da me; qualche cosa forse rileverò). (da sè)

Truffaldino. La sappia, signor, che in sto paese bisogna magnar, e chi no magna, s’ammala.

Florindo. Devo uscire per un affar di premura. Se torno a pranzo, bene; quando no, mangerò questa sera. Tu, se vuoi, fatti dar da mangiare.

Truffaldino. Oh, non occorr’altro. Co l’è cussì, che el se comoda, che l’è patron.

Florindo. Questi danari mi pesano; tieni, mettili nel mio baule. Eccoti la chiave. (dà a Truffaldino la borsa dei cento ducati e la chiave)

Truffaldino. La servo e ghe porto la chiave.

Florindo. No, no, me la darai. Non mi vo’ trattenere. Se non torno a pranzo, vieni alla piazza; attenderò con impazienza che tu abbia ritrovato Pasquale. (parte)

SCENA XI.

Truffaldino, poi Beatrice con un foglio in mano.

Truffaldino. Manco mal, che l’ha dito che me fazza dar da magnar; cussì anderemo d’accordo. Se nol vol magnar lu, che el lassa star. La mia complession no l’è fatta per dezunar. Vôi metter via sta borsa e pò subito...

Beatrice. Ehi, Truffaldino?

Truffaldino. (Oh diavolo!) (da sè)

Beatrice. Il signor Pantalone de’ Bisognosi ti ha dato una borsa con cento ducati?

Truffaldino. Sior sì, el me l’ha dada.

Beatrice. E perchè dunque non me la dai?

Truffaldino. Mo vienla a Vussioria?

Beatrice. Se viene a me? Che cosa ti ha detto, quando ti ha dato la borsa?

Truffaldino. El m’ha dit che la daga al me patron.

Beatrice. Bene, il tuo padrone chi è?

Truffaldino. Vussioria. [p. 579 modifica]

Beatrice. E perchè domandi dunque, se la borsa è mia?

Truffaldino. Donca la sarà soa.

Beatrice. Dov’è la borsa?

Truffaldino. Eccola qua. (gli dà la borsa)

Beatrice. Sono giusti?

Truffaldino. Mi no li ho toccadi, signor.

Beatrice. (Li conterò poi). (da sè)

Truffaldino. (Aveva falà mi colla borsa; ma14 ho rimedià. Cossa dirà quell’altro? Se no i giera soi, noi dirà niente). (da sè)

Beatrice. Vi è il padrone della locanda?

Truffaldino. El gh’è, signor sì.

Beatrice. Digli che avrò un amico a pranzo con me; che presto presto procuri di accrescer la tavola più che può.

Truffaldino. Come vorla restar servida? Quanti piatti comandela?

Beatrice. Il signor Pantalone de’ Bisognosi non è uomo di gran soggezione. Digli che faccia cinque o sei piatti; qualche cosa di buono.

Truffaldino. Se remettela in mi?

Beatrice. Sì, ordina tu, fatti onore. Vado a prender l’amico, che è qui poco lontano; e quando torno, fa che sia preparato. (in atto di partire)

Truffaldino. La vederà, come la sarà servida.

Beatrice. Tieni questo foglio, mettilo nel baule. Bada bene veh, che è una lettera di cambio di quattromila scudi.

Truffaldino. No la se dubita, la metterò via subito.

Beatrice. Fa che sia tutto pronto. (Povero signor Pantalone, ha avuto la gran paura. Ha bisogno di essere divertito). (parte)

SCENA XII.

Truffaldino, poi Brighella.

Truffaldino. Qua bisogna veder de farse onor. La prima volta che sto me padron me ordena un disnar, voi farghe veder se [p. 580 modifica] son de bon gusto. Metterò via sta carta, e pò... la metterò via dopo, no vôi perder tempo. Oe de là; gh’è nissun? Chiameme missier Brighella, diseghe che ghe vôi parlar. (verso la scena) Non consiste tanto un bel disnar in te le piatanze, ma in tel bon ordine; val più una bella disposizion, che no vai una montagna de piatti.

Brighella. Cossa gh’è, sior Truffaldin? Cossa comandeu da mi?

Truffaldino. El me padron el gh’ha un amigo a disnar con lu; el vol che radoppiè la tavola, ma presto, subito. Aveu el bisogno in cusina?

Brighella. Da mi gh’è sempre de tutto. In mezz’ora posso metter all’ordine qualsesia disnar.

Truffaldino. Ben donca. Disìme cossa che ghe darè.

Brighella. Per do persone, faremo do portade de quattro piatti l’una; anderà ben?

Truffaldino. (L’ha dito cinque o sie piatti: sie o otto, no gh’è mal). Anderà ben. Cossa ghe sarà in sti piatti?

Brighella. Nella prima portada ghe daremo la zuppa, la frittura, el lesso e un fracandò.

Truffaldino. Tre piatti li cognosso; el quarto no so cossa che el sia.

Brighella. Un piatto alla francese15, un intingolo, una bona vivanda.

Truffaldino. Benissimo, la prima portada va ben; alla segonda.

Brighella. La segonda ghe daremo l’arrosto, l’insalata, un pezzo de carne pastizzada e un bodin.

Truffaldino. Anca qua gh’è un piatto che no cognosso; coss'è sto budellin?

Brighella. Ho dito un bodin, un piatto all’inglese, una cossa bona.

Truffaldino. Ben, son contento; ma come disponeremio le vivande in tavola?

Brighella. L’è una cossa facile. El camerier farà lu.

Truffaldino. No, amigo, me preme la scalcarìa; tutto consiste in saver metter in tola ben. [p. 581 modifica]

Brighella. Se metterà, per esempio, qua la soppa, qua el fritto, qua l’alesso e qua el fracandò. (accenna una qualche distribuzione)

Truffaldino. No, no me piase; e in mezzo no ghe mettè gnente?

Brighella. Bisognerave che fessimo cinque piatti.

Truffaldino. Ben, far cinque piatti.

Brighella. In mezzo ghe metteremo una salsa per el lesso.

Truffaldino. No, no savè gnente, caro amigo; la salsa no va ben in mezzo; in mezzo ghe va la minestra.

Brighella. E da una banda metteremo el lesso e da st’altra la salsa...

Truffaldino. Oibò16, no faremo gnente. Voi altri locandieri savì cusinar, ma no savì metter in tola. Ve insegnerò mi. Fe conto che questa sia la tavola. (s’inginocchia con un ginocchio e accenna il pavimento) Osservè come se distribuisse sti cinque piatti; per esempio: qua in mezzo la minestra. (straccia un pezzo della lettera di cambio e figura di mettere per esempio un piatto nel mezzo) Qua da sta parte el lesso. (fa lo stesso, stracciando un altro pezzo di lettera, mettendo il pezzo da un canto) Da st’altra parte el fritto. (fa lo stesso con un altro pezzo di lettera, ponendolo all’incontro dell’altro) Qua la salsa e qua el piatto che no cognosso. (con altri due pezzi della lettera compisce la figura di cinque piatti) Cossa ve par? Cussì anderala ben? (a Brighella)

Brighella. Va ben; ma la salsa l’è troppo lontana dal lesso.

Truffaldino. Adesso vederemo come se pol far a tirarla più da visin.

SCENA XIII.


Beatrice, Pantalone e detti

Beatrice. Che cosa fai ginocchioni? (a Truffaldino)

Truffaldino. Stava qua disegnando la scalcarìa. (s’alza)

Beatrice. Che foglio è quello?

Truffaldino. (Oh diavolo! La lettera che el m’ha dà!) (da sè) [p. 582 modifica]

Beatrice. Quella è la mia cambiale.

Truffaldino. La compatissa. La torneremo a unir...

Beatrice. Briccone! Così tieni conto delle cose mie? Di cose di tanta importanza? Tu meriteresti che io ti bastonassi. Che dite, signor Pantalone? Si può vedere una sciocchezza maggior di questa?

Pantalone. In verità che la xe da rider. Sarave mal se no ghe fusse caso de remediarghe; ma co mi ghe ne fazzo un’altra, la xe giustada.

Beatrice. Tant’era se la cambiale veniva di lontan paese. Ignorantaccio!

Truffaldino. Tutto el mal l’è vegnù, perchè Brighella no sa metter i piatti in tola.

Brighella. El trova difficoltà in tutto.

Truffaldino. Mi son un omo che sa...

Beatrice. Va via di qua. (a Truffaldino)

Truffaldino. Val più el bon ordine...

Beatrice. Va via, ti dico.

Truffaldino. In materia de scalcherìa no ghe la cedo al primo marescalco del mondo. (parte)

Brighella. No lo capisso quell’omo; qualche volta l’è furbo e qualche volta l’è alocco.

Beatrice. Lo fa lo sciocco, il briccone. Ebbene, ci darete voi da pranzo? (a Brighella)

Brighella. Se la vol cinque piatti per portada, ghe vol un poco de tempo.

Pantalone. Coss’è ste portade? Coss’è sti cinque piatti? Alla bona, alla bona. Quattro risi, un per de piatti, e schiavo. Mi no son omo da suggizion.

Beatrice. Sentite? Regolatevi voi. (a Brighella)

Brighella. Benissimo; ma averia gusto, se qualcossa ghe piasesse, che la me lo disesse.

Pantalone. Se ghe fusse delle polpette per mi, che stago mal de denti, le magneria volentiera.

Beatrice. Sentite? Delle polpette. (a Brighella) [p. 583 modifica]

Brighella. La sarà servida. La se comoda in quella camera, che adessadesso ghe mando in tola.

Beatrice. Dite a Truffaldino che venga a servire.

Brighella. Ghe lo dirò, signor. (parte)

SCENA XIV.

Beatrice, Pantalone, poi Camerieri, poi Truffaldino.

Beatrice. Il signor Pantalone si contenterà di quel poco che17 daranno.

Pantalone. Me maraveggio, cara eia; xe anca troppo l’incomodo che la se tol; quel che averave da far mi con elo, el fa elo con mi; ma la vede ben, gh’ho quella putta in casa; fin che no xe fatto tutto, no xe lecito che la staga insieme. Ho accettà le so grazie per devertirme un pochetto; tremo ancora dalla paura. Se no gieri vu, fio mio, quel cagadonao me sbasiva.

Beatrice. Ho piacere d’essere arrivato in tempo. (I camerieri portano nella camera indicata da Brighella tutto l’occorrente per preparare la tavola, con bicchieri, vino, pane ecc.)

Pantalone. In sta locanda i xe molto lesti.

Beatrice. Brighella è un uomo di garbo. In Torino serviva un gran cavaliere e porta ancora la sua livrea.

Pantalone. Ghe xe anca una certa locanda sora Canal Grando, in fazza alle Fabbriche de Rialto18, dove che se magna molto ben; son sta diverse volte con certi galantomeni, de quei della bona stampa, e son sta cussì ben, che co me l’arecordo, ancora me consolo. Tra le altre cosse me recordo d’un certo vin de Borgogna che el dava el becco alle stelle19.

Beatrice. Non vi è maggior piacere al mondo, oltre quello di essere in buona compagnia.

Pantalone. Oh se la savesse che compagnia che xe quella! Se la savesse che cuori tanto fatti! Che sincerità! Che schiettezza! [p. 584 modifica] Che belle conversazion, che s’ha fatto anca alla Zuecca! Siei benedetti. Sette o otto galantomeni, che no ghe xe i so compagni a sto mondo20. (I camerieri escono dalla stanza e tornano verso la cucina)

Beatrice. Avete dunque goduto molto con questi?

Pantalone. L’è che spero de goder ancora.

Truffaldino. (col piatto in mano della minestra o della zuppa) La resta servida in camera, che porto in tola. (a Beatrice)

Beatrice. Va innanzi tu; metti giù la zuppa.

Truffaldino. Eh, la resti servida21. (fa le cerimonie)

Pantalone. El xe curioso sto so servitor. Andemo. (entra in camera)

Beatrice. Io vorrei meno spirito e più attenzione. (a Truffaldino ed entra)

Truffaldino. Guardè che bei trattamenti! un piatto alla volta! I spende i so quattrini e no i gh’ha niente de bon gusto. Chi sa gnanca se sta minestra la sarà bona da niente; vôi sentir. (assaggia la minestra, prendendone con un cucchiaio che ha in tasca) Mi gh’ho sempre le mie arme in scarsella. Eh! no gh’è mal; la poderave esser pezo. (entra in camera)

SCENA XV.

Un Cameriere con un piatto22, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice ed altri Camerieri.

Cameriere. Quanto sta costui a venir a prender le vivande?23

Truffaldino. (dalla camera) Son qua, camerada; cossa me deu?

Cameriere. Ecco il bollito. Vado24 a prender un altro piatto. (parte)

Truffaldino. Che el sia castrà, o che el sia vedèlo? El me par castrà. Sentimolo un pochetin. (ne assaggia un poco) No l’è nè castra, nè vedèlo: l’è pegora bella e bona. (s’incammina verso la camera di Beatrice)

Florindo. Dove si va? (l’incontra) [p. 585 modifica]

Truffaldino. (Oh poveretto mi!) (da sè)

Florindo. Dove vai con quel piatto?

Truffaldino. Metteva in tavola, signor.

Florindo. A chi?

Truffaldino. A Vussioria.

Florindo. Perchè metti in tavola prima ch’io venga a casa?

Truffaldino. V’ho visto a vegnir dalla finestra. (Bisogna trovarla). (da sè)

Florindo. E dal bollito principi a metter in tavola e non dalla zuppa?

Truffaldino. Ghe dirò, signor, a Venezia la zuppa25 la se magna in ultima26.

Florindo. Io costumo diversamente. Voglio la zuppa. Riporta in cucina quel piatto27.

Truffaldino. Signor sì, la sarà servida.

Florindo. E spicciati, che voglio poi riposare.

Truffaldino. Subito28. (mostra di ritornare in cucina)

Florindo. (Beatrice non la ritroverò mai?) (da sè; entra nell'altra camera in prospetto)

(Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice).

Cameriere. (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo, Truffaldino. (chiama)

Truffaldino. (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell’altra camera, che l’è arrivado quell’altro forestier, e portè la minestra subito.

Cameriere. Subito. (parte)

Truffaldino. Sta piattanza coss’ela mo? Bisogna che el sia el fracastor. (assaggia) Bona, bona, da galantomo. (la porta in camera di Beatrice)

(Camerieri passano e portano l’occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo).

Truffaldino. Bravi. Pulito. I è lesti come gatti. (verso i camerieri) [p. 586 modifica] Oh se me riussisse da servir a tavola do patroni; mo la saria la gran bella cossa.

(Camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina).

Truffaldino. Presto fioi, la menestra.

Cameriere. Pensate alla vostra tavola e noi penseremo a questa. (parte)

Truffaldino. Voria pensar a tutte do, se podesse.

(Cameriere torna colla minestra per Florindo).

Truffaldino. Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell’altra camera.

(Leva la minestra di mano al cameriere e la porta in camera di Florindo).

Cameriere. È curioso costui. Vuol servire di qua e di là. Io29 lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano.

Truffaldino. (Esce di camera di Florindo).

Beatrice. Truffaldino. (dalla camera lo chiama)

Cameriere. Eh! Servite il vostro padrone. (a Truffaldino)

Truffaldino. Son qua. (entra in camera di Beatrice)

(Camerieri portano il bollito per Florindo).

Cameriere. Date qui. (lo prende; camerieri partono)

(Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi).

Florindo. Truffaldino. (dalla camera lo chiama forte)

Truffaldino. De qua. (vuol prendere il piatto del bollito dal cameriere)

Cameriere. Questo lo porto io.

Truffaldino. No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo)

Cameriere. È bellissima. Vuol far tutto.

(Camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al cameriere e partono).

Cameriere. Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui.

(Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi).

Cameriere. Tenete, signor faccendiere; portate queste polpette al vostro padrone.

Truffaldino. Polpette? (prendendo il piatto in mano)

Cameriere. Sì, le polpette ch’egli ha ordinato. (parte)

[p. 587 modifica]

Truffaldino. Oh bella! A chi le hoi da portar? Chi diavol de sti30 patroni le averà ordinade? Se ghel vago a domandar in cusina, no voria metterli in malizia; se falò e che no le porta a chi le ha ordenade, quell’altro le domanderà e se scoverzirà l’imbroio. Farò cussì... Eh gran mi! Farò cussì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cussì chi le averà ordinade, le vederà. (prende un altro tondo di quelli che sono in sala e divide le polpette per metà) Quattro e quattro. Ma ghe n’è una de più. A chi ghe l’oia31) da dar? No voi che nissun se n’abbia per mal; me la magnerò mi. (mangia la polpetta) Adesso va ben. Portemo le polpette a questo. (mette in terra l’altro tondo e ne porta uno da Beatrice)

Cameriere. (con un bodin all’inglese) Truffaldino. (chiama)

Truffaldino. Son qua. (esce dalla camera di Beatrice)

Cameriere. Portate questo bodino...

Truffaldino. Aspettè che vegno. (prende l’altro tondino di polpette e lo porta a Florindo)

Cameriere. Sbagliate; le polpette vanno di là.

Truffaldino. Sior sì, lo so, le ho portade de là; e el me patron manda ste quattro a regalar a sto forestier. (entra)

Cameriere. Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme.

Truffaldino. (torna in camera di Florindo) E cussì, coss’elo sto negozio? (al cameriere)

Cameriere. Questo è un bodino all’inglese.

Truffaldino. A chi vaio?

Cameriere. Al vostro padrone. (parte)

Truffaldino. Che diavolo è sto bodin? L’odor l’è prezioso, el par polenta. Oh se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Vôi sentir. (tira fuori di tasca una forchetta) No l’è polenta, ma el ghe someia. (mangia) L’è meio della polenta. (mangia)

Beatrice. Truffaldino. (dalla camera lo chiama)

Truffaldino. Vegno. (risponde colla bocca piena)

Florindo. Truffaldino. (lo chiama dalla sua camera)

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Truffaldino. Son qua. (risponde colla bocca piena, come sopra) Oh che roba preziosa! un altro bocconcin, e vegno. (segue a mangiare)

Beatrice. (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire. (torna nella sua camera)

Truffaldino. (Mette il bodino in terra ed entra in camera di Beatrice).

Florindo. (esce dalla sua camera) Truffaldino. (chiama) Dove diavolo è costui?

Truffaldino. (esce dalla camera di Beatrice) L’ è qua. (vedendo Florindo)

Florindo. Dove sei? Dove ti perdi?

Truffaldino. Era andà a tor dei piatti, signor.

Florindo. Vi è altro da mangiare?

Truffaldino. Anderò a veder.

Florindo. Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare. (torna nella sua camera)

Truffaldino. Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama) Sto bodin me lo metto via per mi. (lo nasconde)

Cameriere. Eccovi l’arrosto. (porta un piatto coll’arrosto)

Truffaldino. Presto i frutti. (prende l’arrosto)

Cameriere. Gran furie32! Subito. (parte)

Truffaldino. L’arrosto lo porterò a questo. (entra da Florindo)

Cameriere. Ecco le frutta, dove siete? (con un piatto di frutta)

Truffaldino. Son qua. (di camera di Florindo)

Cameriere. Tenete. (gli dà le frutta) Volete altro?

Truffaldino. Aspettè. (porta le frutta da Beatrice)

Cameriere. Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui.

Truffaldino. Non occorr’altro. Nissun vol altro.

Cameriere. Ho piacere.

Truffaldino. Parecchiè per mi.

Cameriere. Subito. (parte)

Truffaldino. Togo su el me bodin; evviva, l’ho superada33, tutti i è contenti, no i vol alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro. (parte) [p. 589 modifica]

SCENA XVI.

Strada con veduta della locanda.

Smeraldina, poi il Cameriere della locanda.

Smeraldina. Oh, guardate che discretezza della mia padrona! Mandarmi con un viglietto ad una locanda, una giovane come me?34 Servire una donna innamorata è una cosa molto cattiva. Fa mille stravaganze questa mia padrona; e quel che non so capire si è, che è innamorata del signor Silvio a segno di sbudellarsi per amor suo, e pur manda i viglietti ad un altro. Quando non fosse che ne volesse uno per la state e l’altro per l’inverno. Basta... Io nella locanda non entro certo. Chiamerò; qualcheduno uscirà. O di casa! o della locanda!

Cameriere. Che cosa volete quella giovine?

Smeraldina. (Mi vergogno davvero, davvero). (da sè) Ditemi.... Un certo signor Federigo Rasponi è alloggiato in questa locanda?

Cameriere. Sì, certo. Ha finito di pranzare che è poco.

Smeraldina. Avrei da dirgli una cosa.

Cameriere. Qualche ambasciata! Potete passare.

Smeraldina. Ehi, chi vi credete ch’io sia? Sono la cameriera della sua sposa.

Cameriere. Bene, passate.

Smeraldina. Oh, non ci vengo io là dentro.

Cameriere. Volete ch’io lo faccia venire sulla strada? Non mi pare cosa ben fatta; tanto più ch’egli è in compagnia col signor Pantalone de’ Bisognosi.

Smeraldina. Il mio padrone? Peggio! Oh, non ci vengo.

Cameriere. Manderò il suo servitore, se volete.

Smeraldina. Quel moretto?

Cameriere. Per l’appunto.

Smeraldina. Sì, mandatelo.

Cameriere. (Ho inteso. Il moretto le piace. Si vergogna a venir [p. 590 modifica] dentro. Non si vergognerà a farsi scorgere in mezzo alla strada). (entra)

SCENA X.

Smeraldina, poi Truffaldino.

Smeraldina. Se il padrone mi vede, che cosa gli dirò? Dirò che venivo in traccia di lui; eccola bella e accomodata. Oh, non mi mancano ripieghi.

Truffaldino. (con un fiasco in mano, ed un bicchiere, ed un tovagliolino) Chi è che me domanda?

Smeraldina. Sono io, signore. Mi dispiace avervi incomodato.

Truffaldino. Niente; son qua a ricever i so comandi.

Smeraldina. M’immagino che foste a tavola, per quel ch’io vedo.

Truffaldino. Era a tavola, ma ghe tornerò.

Smeraldina. Davvero me ne dispiace.

Truffaldino. E mi gh’ho gusto. Per dirvela, ho la panza piena, e quei bei occhietti i è giusto a proposito per farme digerir.

Smeraldina. (Egli è pure grazioso!) (da sè)

Truffaldino. Metto zo el fìaschetto e son qua da vu, cara.

Smeraldina. (Mi ha detto cara). (da sè) La mia padrona manda questo viglietto al signor Federigo Rasponi; io nella locanda non voglio entrare, onde ho pensato di dar a voi quest’incomodo, che siete il suo servitore.

Truffaldino. Volentiera ghe lo porterò; ma prima sappiè che anca mi v’ho da far un’imbassada.

Smeraldina. Per parte di chi?

Truffaldino. Per parte de un galantomo. Disìme, conossìu vu un certo Truffaldin Battocchio?

Smeraldina. Mi pare averlo sentito nominare una volta, ma non me ne ricordo. (Avrebbe a esser egli35 questo). (da sè)

Truffaldino. L’è un bell’omo; bassotto, traccagnotto, spiritoso, che parla ben. Maestro de cerimonie... [p. 591 modifica]

Smeraldina. Io non lo conosco assolutamente.

Truffaldino. E pur lu el ve cognosse e l’è innamorado de vu.

Smeraldina. Oh! Mi burlate.

Truffaldino. E se el podesse sperar un tantin de corrispondenza, el se daria da cognosser.

Smeraldina. Dirò, signore; se lo vedessi e mi desse nel genio, sarebbe facile ch’io gli corrispondessi.

Truffaldino. Vorla che ghe lo fazza veder?

Smeraldina. Lo vedrò volentieri.

Truffaldino. Adesso subito. (entra nella locanda)

Smeraldina. Non è egli36 dunque.

Truffaldino. (Esce dalla locanda, fa delle riverenze a Smeraldina, le passa vicino; poi sospira ed entra nella locanda.)

Smeraldina. Quest’istoria non la capisco.

Truffaldino. L’hala visto? (tornando a uscir fuori)

Smeraldina. Chi?

Truffaldino. Quello che è innamorado delle so bellezze.

Smeraldina. Io non ho veduto altri che voi.

Truffaldino. Mah! (sospirando)

Smeraldina. Siete voi forse quello che dice di volermi bene?

Truffaldino. Son mi. (sospirando)

Smeraldina. Perchè non me l’avete detto alla prima?

Truffaldino. Perchè son un poco vergognosetto.

Smeraldina. (Farebbe innamorare i sassi). (da sè)

Truffaldino. E cussì, cossa me disela?

Smeraldina. Dico, che...

Truffaldino. Via, la diga.

Smeraldina. Oh, anch’io sono vergognosetta.

Truffaldino. Se se unissimo insieme, faressimo el matrimonio de do persone vergognose.

Smeraldina. In verità, voi mi date nel genio.

Truffaldino. Èla putta éla?

Smeraldina. Oh, non si domanda nemmeno.

Truffaldino. Che voi dir, no certo. [p. 592 modifica]

Smeraldina. Anzi vuol dir, sì certissimo.

Truffaldino. Anca mi son putto.

Smeraldina. Io mi sarei maritata cinquanta volte, ma non ho mai trovato una persona che mi dia nel genio.

Truffaldino. Mi possio sperar de urtarghe in te la simpatia?

Smeraldina. In verità, bisogna che io lo dica, voi avete un non so che... Basta, non dico altro.

Truffaldino. Uno che la volesse per muier, come averielo da far?

Smeraldina. Io non ho nè padre, nè madre. Bisognerebbe dirlo al mio padrone, o alla mia padrona.

Truffaldino. Benissimo, se ghel dirò, cossa dirali?

Smeraldina. Diranno, che se sono contenta io...

Truffaldino. E ela cossa dirala?

Smeraldina. Dirò... che se sono contenti essi37...

Truffaldino. Non occorr’altro. Saremo tutti contenti. Deme la lettera, e co ve porterò la risposta, discorreremo.

Smeraldina. Ecco la lettera.

Truffaldino. Savìu mo cossa che la diga sta lettera?

Smeraldina. Non lo so, e se sapeste che curiosità che avrei di saperlo!

Truffaldino. No voria che la fuss una qualche lettera de sdegno e che m’avess da far romper el muso.

Smeraldina. Chi sa? D’amore non dovrebbe essere.

Truffaldino. Mi no vôi impegni. Se no so cossa che la diga, mi no ghe la porto.

Smeraldina. Si potrebbe aprirla... ma poi a serrarla ti voglio.

Truffaldino. Eh, lassè far a mi; per serrar le lettere son fatto a posta; no se cognosserà gnente affatto.

Smeraldina. Apriamola dunque.

Truffaldino. Savìu lezer vu?

Smeraldina. Un poco. Ma voi saprete legger bene.

Truffaldino. Anca mi un pochettin.

Smeraldina. Sentiamo dunque.

Truffaldino. Averzimola con pulizia. (ne straccia una parte) [p. 593 modifica]

Smeraldina. Oh! Che avete fatto?

Truffaldino. Niente. Ho el segreto d’accomodarla. Eccola qua l’è averta.

Smeraldina. Via, leggetela.

Truffaldino. Lezila vu. El carattere della vostra padrona l’intenderè meio de mi.

Smeraldina. Per dirla, io non capisco niente. (osservando la lettera)

Truffaldino. E mi gnanca una parola. (fa lo stesso)

Smeraldina. Che serviva dunque aprirla?

Truffaldino. Aspettè; ingegnemose; qualcossa capisso. (tiene egli la lettera)

Smeraldina. Anch’io intendo qualche lettera.

Truffaldino. Provemose un po’ per un. Questo non elo un emme?

Smeraldina. Oibò; questo è un erre.

Truffaldino. Dall’erre all’emme gh’è poca differenza.

Smeraldina. Ri, ri, a, ria. No, no, state cheto, che credo sia un emme, mi, mi, a, mia.

Truffaldino. No dirà mia, dirà mio.

Smeraldina. No, che vi è la codetta.

Truffaldino. Giusto per questo: mio.

SCENA XVIII.

Beatrice e Pantalone dalla locanda, e detti.

Pantalone. Cossa feu qua? (a Smeraldina)

Smeraldina. Niente, signore, venivo in traccia di voi. (intimorita)

Pantalone. Cossa voleu da mi? (a Smeraldina)

Smeraldina. La padrona vi cerca. (come sopra)

Beatrice. Che foglio è quello? (a Truffaldino)

Truffaldino. Niente, l’è una carta... (intimorito)

Beatrice. Lascia vedere. (a Truffaldino)

Truffaldino. Signor sì. (gli dà il foglio tremando)

Beatrice. Come! Questo è un viglietto che viene a me. Indegno! Sempre si aprono le mie lettere?

Truffaldino. Mi no so niente, signor... [p. 594 modifica]

Beatrice. Osservate, signor Pantalone, un viglietto della signora Clarice, in cui mi avvisa delle pazze gelosie di Silvio, e questo briccone me l’apre.

Pantalone. E ti, ti ghe tien terzo? (a Smeraldina)

Smeraldina. Io non so niente, signore.

Beatrice. Chi l’ha aperto questo viglietto?

Truffaldino. Mi no.

Smeraldina. Nemmen io.

Pantalone. Mo chi l’ha portà?

Smeraldina. Truffaldino lo portava al suo padrone.

Truffaldino. E Smeraldina l’ha portà a Truffaldin.

Smeraldina. (Chiaccherone, non ti voglio più bene).

Pantalone. Ti, pettegola desgraziada, ti ha fatto sta bell’azion? Non so chi me tegna che no te daga una man in tel muso.

Smeraldina. Le mani nel viso non me le ha date nessuno; e mi maraviglio di voi.

Pantalone. Cussì ti me rispondi? (le va da vicino)

Smeraldina. Eh, non mi pigliate. Avete degli impedimenti che non potete correre. (parte correndo)

Pantalone. Desgraziada, te farò veder se posso correr; te chiaperò. (parte correndo dietro a Smeraldina)

SCENA XIX.

Beatrice, Truffaldino, poi Florindo alla finestra della locanda.

Truffaldino. (Se savess come far a cavarme). (da sè)

Beatrice. (Povera Clarice, ella è disperata per la gelosia di Silvio; converrà ch’io mi scopra, e che la consoli). (osservando il viglietto)

Truffaldino. (Par che nol me veda. Vôi provar de andar via). (pian piano se ne vorrebbe andare)

Beatrice. Dove vai?

Truffaldino. Son qua. (si ferma)

Beatrice. Perchè hai aperta questa lettera?

Truffaldino. L’è stada Smeraldina. Signor, mi no so gnente. [p. 595 modifica]

Beatrice. Che Smeraldina? Tu sei stato, briccone. Una, e una due. Due lettere mi hai aperte in un giorno. Vieni qui.

Truffaldino. Per carità, signor. (accostandosi con paura)

Beatrice. Vien qui, dico.

Truffaldino. Per misericordia. (s’accosta tremando)

Beatrice. (Leva dal fianco di Truffaldino il bastone, e lo bastona ben bene, essendo voltata colla schiena alla locanda).

Florindo. (alla finestra della locanda) Come! Si bastona il mio servitore? (parte dalla finestra)

Truffaldino. No più, per carità.

Beatrice. Tieni, briccone. Imparerai aprir38 le lettere. (getta il bastone per terra e parte)

SCENA X.

Truffaldino, poi Florindo dalla locanda.

Truffaldino. (dopo partita Beatrice) Sangue de mi! Corpo de mi! Cussì se tratta coi omeni della me sorte? Bastonar un par mio? I servitori co no i serve, i se manda via, no i se bastona.

Florindo. Che cosa dici? (uscito dalla locanda non veduto da Truffaldino)

Truffaldino. (Oh!) (avvedendosi di Florindo) No se bastona i servitori dei altri in sta maniera. Quest l’è un affronto, che ha ricevudo el me patron. (verso la parte per dove è andata Beatrice)

Florindo. Sì, è un affronto che ricevo io. Chi è colui che ti ha bastonato?

Truffaldino. Mi no lo so, signor: nol conosso.

Florindo. Perchè ti ha battuto?

Truffaldino. Perchè... perchè gh’ho spudà su una scarpa.

Florindo. E ti lasci bastonare così? E non ti muovi, e non ti difendi nemmeno? Ed esponi il tuo padrone ad un affronto, ad un precipizio? Asino, poltronaccio che sei. (prende il bastone di [p. 596 modifica] terra) Se hai piacere a essere bastonato, ti darò gusto, ti bastonerò ancora io. (lo bastona e poi entra nella locanda)

Truffaldino. Adesso posso dir che son servitor de do padroni. Ho tirà el salario da tutti do. (entra nella locanda)

Fine dell’Atto Secondo.

  1. Edd. Paperini, Bettinelli, Savioli: È vero. Pantalone manca al dovere di galantuomo, ma non ecc.
  2. Paper., Bettin., ecc.: siguro
  3. Segue nelle edd. Paperini, Bettinelli, Savioli ecc.: «Sior Federigo el xe dessù in camera co mia fia, e se vu savè tutte le regole dei posalizj, credo che a questo no ghe manca gnente. Dott. Come! è fatto ogni cosa? Pant. Tutto. Dott. L’amico è in camera? Pant. Ghe l’ho lassà za un poco. Dott. E la signora Clarice lo ha sposato così su due piedi, senza una minima difficoltà? Pant. No saveu come che le xe le donne? le se volta come le bandiere. Dott. E voi comporterete ecc.».
  4. Paperini: poss’io.
  5. Bettin.: Uomo indegno, senza parola ecc.
  6. Segue nell’ed. Bettin.: «Silv. Se non foste vecchio, come siete, vi pelerei quella barba. Pant. Poderave anca esser, che mi ghe taggiasse i garettoli. Silv. Non so chi ecc.».
  7. Nelle edd. Paper., Bettìn., Savioli c’è punto fermo.
  8. Segue nelle edd. Paper., Bettin., Savioli: «Silv. Vostro padre assicurò il mio delle vostre nozze con Federigo. Clar. Mio padre non poteva dirlo. Silv. Potea egli dire che Federigo era con voi, nella vostra camera? Clar. Non so negarlo. Silv. E vi par poco? E pretendete che io vi creda fedele, quand’altri è ammesso da voi ad una confidenza sì grande? Clar. Clarice sa custodir l’onor suo. Silv. Clarice non doveva lasciarsi avvicinare un amante, che la pretende in isposa. Clar. Mio padre lo lasciò meco. Silv. E voi non lo vedeste mal volentieri. Clar. Sarei fuggita con molto piacere. Silv. Sento che ecc.».
  9. Paper. ecc.: non mi obbligava di trattenermi.
  10. Bettin.: l’osservate?
  11. Segue nelle edd. Paper., Bettin., Savioli: «Silv. Ed io vi starò a vedere. (Già so che non avrà cuore di farlo). (da sè) Clar. Questa spada vi renderà dunque contento. (Vo’ vedere sin dove arriva la sua crudeltà). (da sè) Silv. Quella spada potrebbe ecc.».
  12. Nelle edd. Paper., Bettin. ecc.: Confessa essere stata da solo a sola con Federigo, e col pretesto ecc.
  13. Paper. e Bettin.: fazzenda; Savioli: facenda.
  14. Paper. ecc.; ma con giudizio.
  15. Paper. e Bettin.: franzese.
  16. Paper. ecc.: Oibò, oibò.
  17. Paper. ecc.: che ci.
  18. Allude, credo, alla locanda «del Leon Bianco che esisteva nel palazzo» Da Mosto, «sovrapposto al traghetto» dei SS. Apostoli, «prospiciente il Canal Grande:» v. Tassini, Curiosità veneziane, Ven., 1887, pag. 379.
  19. Significa frizzante, piccante: v. Boerio.
  20. Ricordo e rimpianto dell’autore.
  21. Paper. e altri aggiungono: prima lei.
  22. Paperini ecc.: col piatto del lesso.
  23. Paper. ecc.: a prendere il lesso?
  24. Paper. ecc.: il lesso.
  25. Paper. ecc.: minestra.
  26. Paper. e altri aggiungono: per insalata.
  27. Paperini ecc.: Riporta il lesso in cucina.
  28. Paper. ecc. Subito, signor.
  29. Paper. ecc.: Io lo.
  30. Paper., Sav. ecc.: de sti do.
  31. Savioli e Zatta: oio.
  32. Paper., Savioli, ecc.: furia.
  33. Paper., Savioli ecc.: e viva e l’ho superada.
  34. Paper., Savioli, ecc.: Mandarmi con un viglietto ad una locanda! Ad una locanda una giovane come me!
  35. Paper. ecc.: lui.
  36. Paper. ecc.: lui.
  37. Paper. ecc.: loro.
  38. Paper. Savioli ecc.: ad aprir.