Il prato maledetto/XX
Questo testo è completo. |
◄ | XIX |
Capitolo XX.
Qui si raccontano, per finire, le vicende e i prodigi del prato maledetto.
Le cose che abbiamo narrate fin qui, avvennero nell’anno di grazia 990.
Ed ora, se non dispiace ai lettori, salteremo otto anni, per ritrovarci al 998, ed in Roma, nel palazzo Luterano, dove risiede, ospite del suo buon cugino papa Gregorio V, il serenissimo augusto imperatore dei Romani, Ottone III, diciottenne appena, e già due volte calato dalle Alpi a rallegrare della sua presenza i popoli italici.
Ma, per intender bene queste faccende, è necessario un cenno di storia, che noi faremo brevissimo, stringendo, come si suol dire, in poco il molto, anzi il troppo.
Ottone I, detto il Grande, era nato nel 912, della casa ducale di Sassonia. A ventiquattro anni era stato eletto re di Germania. Quindi il suo matrimonio con Adelaide di Borgogna, vedova di Lotario re dei Lombardi, aveva potuto ottenere nel 961 la famosa “settentrional spada di ladri, torta in corona.„ Ma ciò non bastava a quel re, ambizioso di restaurare nella persona sua l’impero di Carlomagno. Scese a Roma, e là finalmente ebbe il titolo d’imperatore dei Romani, e i nomi di Cesare Augusto, dal papa Giovanni XII, contro la conferma delle celebri donazioni di Pipino, di Carlomagno e di Luigi il Buono.
Gli mancava, per ritenersi imperator vero d’Occidente, la parte meridionale d’Italia. E fu allora che chiese per il fìgliuol suo Ottone la mano di Teofania, figlia all’imperatore bisantino Niceforo Foca. Appena l’ebbe avuta, occupò la Puglia e la Calabria, che erano allora in balia dei Greci, ritenendole come dote della nuora.
Questo negozio per altro, non gli andò così bene, come tutti i precedenti; e non è il caso qui di narrar tutto per filo e per segno.
Lui morto nel 973 a Minsleben, nella Turingia, gli successe Ottone II, che morì ventottenne a Roma, dieci anni di poi, ma dopo aver fatto dichiarare imperatore suo figlio Ottone III, che aveva a mala pena tre anni. Scampato per miracolo alla tutela, o peggio alla prigionia di Enrico di Baviera, suo cugino, l’imperatore fanciullo cadde in balla dell’arcivescovo di Magonza e del vescovo di Hidelsheim, che veramente governarono sotto il nome di lui.
Per tutto il tempo della minorità di Ottone III non furono in Germania che discordie continue, e guerre con varia fortuna, tra i suoi grandi vassalli. Neanche Roma riconosceva l’autorità del nuovo imperatore. A Roma, del resto, non si riconosceva, allora, che il sovrano abbastanza forte per andarsi a far coronare.
Teofania, la giovine madre di Ottone, era scesa bensì in Italia, con grande nerbo di soldati; ma senza rimediare a nulla. Fu necessario che andasse il figliuolo, compiuti i sedici anni d’età.
Eccoci dunque al 996. Ottone III passò le Alpi, assediò Milano, l’ebbe, e vi fu incoronato re dei Lombardi. Ottenuto frattanto che in Roma fosse nominato papa un suo cugino col nome di Gregorio V, ebbe da lui, per ricompensa, il titolo d’imperator de’ Romani. Si sa, una mano lava l’altra; e tutt’e due dettero noia al povero senatore Crescenzio. Questi, patrizio romano, creato console della città, pensò di ristabilire l’antica autorità civile, contro la usurpazione dei papi. Gregorio l’si allontanò prontamente da Roma, dove non gli pareva di esser sicuro; e Crescenzio gli oppose un tal Filògato (il nome è greco, ma si crede che costui nascesse di greci parenti a Pavia), facendolo nominare Papa dalla sua fazione, col nome di Giovanni XVI.
Ottone aveva fatto ritorno in Germania, dove era in guerra con gli Slavi. Chiamato per soccorso da Gregorio, ridiscese nella primavera del 998 in Italia, e giunto a Roma nel marzo, stringeva d’assedio, in Castel Sant’Angelo, il console Crescenzio. Il castello era inespugnabile; non si sarebbe potuto avere che per fame. Ottone non aveva tempo di aspettare. Offerse patti onorevoli all’avversario, e Crescenzio li accettò; ma Ottone non li mantenne. Avuto il console in suo potere, lo fece decapitare scnz’altro, abbandonando la moglie di lui, Stefania, alla brutalità dei soldati.
Per questa cara gioia d’imperatore avrebbe dovuto venire, anche anticipata di due anni, la fine del mondo. Gli fu in quella vece posticipata d’altri due la sua fine particolare, a Paterno, dove l’animosa donna prese vendetta allegra, per il marito e per sè. Ma questo è un bel fatto, che esce dal quadro più modesto che abbiamo preso a dipingere. Ritorniamo dunque a Roma, nell’anno 998, nel mese di maggio, due mesi dopo la resa di Castel Sant’Angelo e la fine miseranda dell’infelice Crescenzio.
La Curia Romana ò più potente che mai sul popolo, e contro i baroni, che qualche volta si atteggiano a difensori del popolo. Ma essa è più che mai soggetta a quei Sassoni, nei quali ha fatto rivivere il titolo imperiale di Carlomagno.
Sian Sassoni, o Bavaresi, o Svevi, essa ne avrà noia più tardi; per ora ò amicizia grande tra le due potestà, congiunte come sono dal doppio vincolo del tornaconto e del parentado. E la Chiesa, andando incontro alla liberalità del giovane imperatore, strappa alla sua Camera quanto può di donazioni territoriali, o di restituzioni e di reintegrazioni, com’ella dice. Il popolo non sa come chiamarle; sia l’uno o l’altro che comandi, esso è sempre costretto a servire.
Duchi, conti e marchesi, avevano fatto in ogni cosa il piacer loro, sulle terre che erano state poste sotto la loro giurisdizione personale; una giurisdizione che lo sfasciamento dell’impero di Carlomagno e la turbata condizione dell’impero degli Ottoni avevano resa facilmente ereditaria nelle loro famiglie. Quegli ufficiali pro tempore incominciarono a tenersi per signori, fino a tanto che l’autorità imperiale, o contrastata fra emuli, o disconosciuta da avversar» potenti, non ebbe modo di farsi sentire alle marche lontane.
Tra costoro dovettero primeggiare naturalmente i figli di Aleramo, lontani in pari modo dagli imperatori di Germania e dall’autorità papale, ancora così piccola a quei tempi, e non capace, se il braccio imperiale non la soccorreva, di metter freno alle usurpazioni di quei primi feudatarii sul patrimonio della Chiesa. Noi sappiamo, fin dal principio di questo racconto, che per esser là, presso le scaturigini della Bormida, il confine tra le diocesi di Alba e Savona, i conti Aleramici facevano ancora lor pro dei litigi occorsi tra esse per il possesso di alcune terre e per il diritto di alcune decime; donde aveva una nuova applicazione il noto proverbio: tra due leticanti il terzo gode.
Questa era adunque la condizione del conte Anselmo; egli riteneva per sè ciò che era della Chiesa, ma che due parti di essa Chiesa, le Curie di Savona e d’Alba, si contendevano a spada tratta.
Egli, del resto, era molto mutato da quello di prima. Per lui, davvero, non si poteva ripetere la frase biblica: “indurito è il cuore del Faraone.„ Profondamente scosso dal tristissimo fatto di Croceferrea, il conte Anselmo aveva fondato un’abbazia di frati sul territorio di Spigno, dotandola con liberalità singolare di privilegi e possessi; e ciò fino dal 991, un anno dopo i casi che abbiamo narrati.
Cosi il povero conte aveva creduto di spegnere i rimorsi suoi, ed anche di scemare la collera del cielo.
Ma egli pareva che ciò non bastasse ancora. La stregoneria che lo aveva tanto colpito nel manso di Croceferrea e nel prato di San Donato, durava ancora in quest’ultimo luogo, più paurosa che mai.
Nell’anno 991, che fu quello dopo la gara dei falciatori, il vasto maggese non diede un fil d’erba, quantunque il fieno si vedesse rigoglioso lungo le ripe e le falde delle circostanti colline. E neppure un fil di erba ci nacque nell’anno seguente; in guisa che parve conveniente di disfare il prato e di mettere il campo a frumento.
Ma neanche allora il terreno fruttò; nè spica si vide, nò principio di stelo.
Quella vasta pianura, tondeggiante come uno scudo greco, rimase sterile per sette anni alla fila, triste a vedersi nella sua grigia nudità, in mezzo al verde smagliante dei colli. Pareva che la falce di Legio non avesse soltanto mietuta l’erba di quel prato, ma anche spenta la vitalità del terreno.
Oramai era diventato uno spavento il dover passare di là. Di nottetempo si udivano musiche strane, di trombe e di timpani, sul prato maledetto, corso da fiaccole misteriose, che rischiaravano una ridda di demonii. Erano, si diceva, le nozze del diavolo. Così nessuno osò più attraversare il prato dopo l’avemaria; e ben presto non piacque nemmeno attraversarlo di giorno. Gli uomini di Banzile, di Lagorotondo, quando avevano necessità di recarsi a Cairo, passavano volentieri da Bormida, per far la strada delle Branie; quei di Biestro, di Millesimo e di Croceferrea, tenevano il sentiero dei monti, amando meglio raddoppiare la lunghezza del cammino, pur di evitare la vista del prato maledetto.
Nella casa degli Arimanni regnava silenzio di tomba. Marbaudo era morto di crepacuore, nel primo anniversario della morte di Getruda. Rainerio, abbandonata la moglie e i figliuoli, era andato a rinchiudersi nel monastero di Spigno, chiedendo al chiostro e alla sua penitenza il perdono dei suoi falli. Viveva il vecchio Dodone; ma in lui era morta la ragione. Di tanto in tanto pareva ritornargli una coscienza vaga del passato; e allora dava in ismanie, piangeva e rideva convulso, chiamando la figlia, e credendo di vederla in ogni persona che gli si parasse dinanzi.
Il conte Anselmo avrebbe dato alla Chiesa, non pure il maggese di San Donato, ma le case degli Arimanni, Croceferrea, Bauzile, e quant’altro possedeva, fino a Lagorotondo, sul colle di San Giacomo. E d’altri luoghi avrebbe volentieri pagata la decima richiesta. Ma a chi, se durava il litigio tra le due Curie?
Il nodo fu sciolto finalmente, per la venuta di Ottone in Italia e per la sollecitudine del vescovo di Savona, Bernardo, uomo di grande dottrina e di altrettanta diligenza nel curare le ragioni della sua diocesi.
A Roma, presente l’imperatore, erano andati i difensori delle due Curie. Vinse il Savonese la lite.
E il terzo Ottone, ancor fresco del supplizio di Crescenzio, diè fuori, negli ultimi giorni di maggio, la sua carta di privilegio a favore del vescovo Bernardo. “In nomine sanctae et individuaee Trinitatis, Otto, divina facente clementia Romanorum imperator augustus,„ notificò alla “industria della sagacità universale di tutti i suoi fedeli presenti e futuri,„ qualmente egli, per intromissione di Bernardo “Venerabil vescovo della santa chiesa Savonese edificata ad onore di Santa Maria, e per amor di Dio e per rimedio all’anima sua,„ con fermava alla detta chiesa di Santa Maria “tutte le cose, possessioni proprie, acquistate e da acquistarsi, servi, serve, pievi, castella e terre infrascritte„.
Tra le quali terre infrascritte notava la corte di Lagorotondo, la pieve di San Pietro di Millesimo, con le sue chiesuole, decime e poderi, la pieve di San Giovanni di Cairo e la chiesuola di San Donato, con le sue attinenze poi, dopo parecchi altri luoghi, che noi ommettiamo per amore di brevità, le decime di Viguarolo, di Croceferrea, di Cengio, di Vignale, di Cairo, di Bauzile, di Cortemilia, e via via, sino al confine dei due vescovati di Savona e d’Alba; usque intermedios fines episcopatus Saonensis et Albensis.
E soggiungeva, nello strano latino del cancelliere Eriberto, che noi rechiamo tradotto:
“Così ordinando, comandiamo che nessuno, duca, arcivescovo, conte, marchese, visconte, e niun’altra grande o piccola persona del nostro impero, s’attenti di spogliare o molestare delle predette cose, servi e serve, lo stesso vescovo e successori di lui. Che se taluno vi fosse, il quale violasse questa pagina di precetto, sappia egli di dover pagare per ammenda (sciat se compositurum) cento libbre di oro ottimo, metà alla Camera nostra, e metà al predetto vescovo, o suoi successori.
Il che, per essere meglio creduto e più diligentemente osservato, firmando di nostro pugno, ordiniamo sia suggellato in calce (manu nostra corroborantes inferius jussimus sigillari). „
Seguivano le forme autentiche, di cui, per una volta tanto, non va neppur defraudato il lettore.
“Signum domni Ottonis serenissimi imperatoris augusti. Heribertus cancellarius vicem Petri Cumani episcopi archicancellarii. Data anno dominicae incarnationis DCCCCXCVIII, anno tertii Ottonis regnantis XVI imperantis. Actum VI Kal. Junii, indicione XI. Romae. feliciter. „
Così, nominando ad uno ad uno i progressi e i diritti del vescovo di Savona, era implicitamente descritto il confine delle due diocesi, savonese ed albense.
Similmente, era accennato quello che i conti Aleramici dovevano lasciare in legittimo e pacifico possesso al vescovo di Savona, di tanti luoghi da essi usurpati fino a quel giorno. L’ammenda di cento libbre d’oro fine, ai trasgressori del precetto imperiale, non era una cosa da poco.
Io non saprei qui su due piedi farvi il ragguaglio della moneta, paragonando il 998 col 1886; ma posso ben dirvi che cento libbre d’oro fine valevano, sull’animo d’un conte di allora, assai più del finimondo, minacciato alle genti.
Per quel trapasso di proprietà era da sperare che sulle attinenze della chiesuola di San Donato cessassero gli effetti della stregoneria. Così avvenne di fatti, se la cronaca di frate Eusebio racconta il vero.
Nell’anno 998, il maggese di San Donato, rimesso debitamente a ferrana (come il suo vicino di San Pietro, che n’ebbe per l’appunto il nome di Ferrania), diede, non una, ma quattro successive raccolte di fieno. Dopo sette anni di desolazione dell’abominazione, era il meno che potesse fare, per utile della diocesi rivendicatrice e per conforto dei popoli circonvicini.
L’ebbero questi per lieto augurio. Non ha l’aria di voler finire il mondo, fino a tanto che la cortese natura rinnova in ogni stagione le necessarie provviste alla umanità sofferente.
Mi direte che qui si tratta di fieno, e che l’umanità non c’entra. Non c’entri, e passiamo oltre. Io vi dirò invece che il diavolo non è così facile a scacciare dai luoghi dove una volta abbia messo il piede. Sul prato maledetto egli andava spesso (di notte tempo, si capisce) a celebrar le sue nozze, con fiaccole e musica. Non era prudente, per conseguenza, avventurarsi in quel luogo solitario; e il meglio che si potesse fare, quando si capitava là durante la ridda (sempre secondo la cronaca di frate Eusebio), era di ritornarsene indietro, se pure non si era accompagnati da un valente esorcista.
Ed oggi ancora, tanti secoli dopo, è voce tra i terrazzani che in certe notti si veda ancora il maligno celebrare le sue nozze su quel prato, con le solite fiaccole e con la solita musica.
Io, se ci aveste a passare in quei momenti difficili, non saprei davvero che cosa consigliarvi. Forse non sarebbe male andarci con una buona lanterna, perchè più ci son lumi e più ci si vede. Non sarebbe neppure mal fatto aver musica in compagnia e voglia di stare allegri.
Dice il proverbio francese: “plus on est de fous, plus ont rit.„
Fine.