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mente i figli di Aleramo, lontani in pari modo dagli imperatori di Germania e dall’autorità papale, ancora così piccola a quei tempi, e non capace, se il braccio imperiale non la soccorreva, di metter freno alle usurpazioni di quei primi feudatarii sul patrimonio della Chiesa. Noi sappiamo, fin dal principio di questo racconto, che per esser là, presso le scaturigini della Bormida, il confine tra le diocesi di Alba e Savona, i conti Aleramici facevano ancora lor pro dei litigi occorsi tra esse per il possesso di alcune terre e per il diritto di alcune decime; donde aveva una nuova applicazione il noto proverbio: tra due leticanti il terzo gode.
Questa era adunque la condizione del conte Anselmo; egli riteneva per sè ciò che era della Chiesa, ma che due parti di essa Chiesa, le Curie di Savona e d’Alba, si contendevano a spada tratta.
Egli, del resto, era molto mutato da quello di prima. Per lui, davvero, non si poteva ripetere la frase biblica: “indurito è il cuore del Faraone.„ Profondamente scosso dal tri-