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uno scudo greco, rimase sterile per sette anni alla fila, triste a vedersi nella sua grigia nudità, in mezzo al verde smagliante dei colli. Pareva che la falce di Legio non avesse soltanto mietuta l’erba di quel prato, ma anche spenta la vitalità del terreno.
Oramai era diventato uno spavento il dover passare di là. Di nottetempo si udivano musiche strane, di trombe e di timpani, sul prato maledetto, corso da fiaccole misteriose, che rischiaravano una ridda di demonii. Erano, si diceva, le nozze del diavolo. Così nessuno osò più attraversare il prato dopo l’avemaria; e ben presto non piacque nemmeno attraversarlo di giorno. Gli uomini di Banzile, di Lagorotondo, quando avevano necessità di recarsi a Cairo, passavano volentieri da Bormida, per far la strada delle Branie; quei di Biestro, di Millesimo e di Croceferrea, tenevano il sentiero dei monti, amando meglio raddoppiare la lunghezza del cammino, pur di evitare la vista del prato maledetto.
Nella casa degli Arimanni regnava silenzio di tomba. Marbaudo era morto di crepacuore,