Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Porto di mare con vari navigli, fra’ quali una feluca arrivata di fresco, da dove sbarcano marinari e passeggieri, e fra questi

Donna Marianna, Paolina vestita da uomo, e don Roberto.

Marianna. Ditemi, galantuomo. (ad un marinaro)

Marinaro.   Comandi, mia signora.
Marianna. Napoli avete in pratica?
Marinaro.   Me ne ricordo ancora.
Marianna. Il duca don Luigi, signor di Ventimiglia,
Lo conoscete voi?
Marinaro.   Conosco la famiglia.
Marianna. Ite a cercar di lui. Ditegli, che il piacere
Desia di riverirlo al porto un forestiere.

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Non dite che sia donna quella che lo domanda.

Posso di voi fidarmi?
Marinaro.   Farò quel che comanda.
(parte inchinandosi)
Roberto. Servo a donna Marianna; con vostra permissione,
Vo a rintracciar, s’io posso, comoda abitazione.
Marianna. Itene, don Roberto, a far quel che vi aggrada.
Paolina. E noi alloggieremo in mezzo ad una strada?
Marianna. Ritroverem noi pure per ricovrarci un tetto.
Ma don Luigi in prima di rivedere aspetto.
Paolina. Veder non lo potrete in un albergo ancora?
Marianna. Se il marinaro il loco non sa di mia dimora,
Come vuoi tu che seco conduca il cavaliere?
Paolina. Può intanto don Roberto l’albergo provvedere.
Già se vien don Luigi, credo sarà tutt’uno,
E resteremo entrambe a stomaco digiuno.
Marianna. Per me penso altrimenti; però son persuasa.
Che abbiaci don Roberto a provveder di casa.
Roberto. Lo farò volentieri, giacchè la sorte mia
Mi fe’ goder nel viaggio la vostra compagnia.
È giusto che m’impieghi per voi con diligenza.
Se degno mi faceste di vostra confidenza.
Paolina. Per noi fu una fortuna trovare in quel naviglio
Un uomo, come voi, di senno e di consiglio.
In verità là dentro, senza d’un uomo allato.
Di due femmine sole non so che saria stato.
Per servir la signora, cambiai le vesti e il nome,
Ma mi conobber subito, e non saprei dir come;
Un capitano inglese, pieno di carità,
Scherzando del suo letto mi offerse la metà.
I marinari accorti, bricconi, galeotti.
Mostrando non conoscermi, mi dier dei pizzicotti.
E senza don Roberto, che alfin mi ha preservata.
Affè, quei malandrini mi avrian precipitata.
Roberto. Servire ad una dama accolto ho con piacere;

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Con lei, colla donzella ho fatto il mio dovere.

Ora, per grazia vostra fidandovi di me,
Saprò comodo albergo cercar per tutti tre.
Marianna. Sì, cercatelo pure.
Paolina.   Di Napoli voi siete;
Casa in Napoli aveste, ed or più non l’avete?
Roberto. Son tre lustri passati, che fuor dalle mie soglie
Non ho notizia alcuna nemmen della mia moglie.
Ora dal Nuovo Mondo, dove finor son stato,
Sono improvvisamente in Napoli tornato.
Placida, mia consorte, chi sa dove dimora?
In qual stato si trovi, e s’è più viva ancora?
Nel coniugale albergo, là dove io la lasciai.
So che più non dimora; di ciò me n’informai.
Napoli è città grande, qua non si può la gente,
Senza saper il sito, trovar sì facilmente.
Onde cercar di lei dovrò di porta in porta,
Per giungere a sapere s’ella sia viva o morta.
Paolina. In un simile dubbio che dice il vostro cuore?
Roberto. Dalla mia ingratitudine si desta in me il rossore.
Ebbi una saggia moglie da me non meritata,
E troppo ingratamente un dì l’ho abbandonata.
Soffrì pazientemente ch’io gissi a lei lontano,
Nel militare impiego servendo il mio sovrano.
Ma in qualunque distanza, nel Nuovo Mondo ancora,
Notizia lusingossi aver di mia dimora.
In età giovanile, senza la sposa allato,
Di lei poco mi calse, di lei mi son scordato.
Ora in patria tornando, il mio dover rammento,
L’error, l’ingratitudine detesto, e me ne pento.
Bramo trovarla in vita, per chiederle perdono.
Temo a lei presentarmi, un infedel qual sono;
Ma se non ha cangiato la mia diletta il cuore,
Mi accoglierà, son certo, con tenerezza e amore.
(parte)

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SCENA II.

Donna Marianna e Paolina.

Paolina. Ecco il costume solito di questi uomini ingrati:

Di noi presto si scordano, due passi allontanati.
E poi quando ritornano i perfidi bricconi,
Pretendono che tutto si scordi, e si perdoni.
E voi siete sì buona d’amar quell’animale,
Che fa dell’amor vostro sì poco capitale?
Marianna. Chetati, Paolina, se compiacer mi brami.
A te non dissi ancora, s’io l’ami o s’io non l’ami.
Io stessa non intendo se1 mi consigli amore,
Ma a rintracciar l’ingrato mi stimola l’onore.
Cedute le ragioni, per forza altrui soggetta,
Vengo a chieder giustizia, o a procurar vendetta.
Paolina. Da chi sperar potete ragione ai torti vostri?
Gli uomini in certi incontri son tutti amici nostri;
Ma quando che si tratta d’usarci un’ingiustizia,
Per farci disperare han l’arte e la malizia.
Se comandasser donne, son certa e son sicura,
Che saria condannato il Duca a dirittura.
Ma nelle man degli uomini il comandar ridotto,
Vogliono che sian sempre le femmine al di sotto.
Marianna. Io mi lusingo ancora, nell’appressarmi ad esso,
Fatta mi sia giustizia da don Luigi istesso.
Docile ed amoroso lo riconobbi allora:
Tal, se mi vede, io spero di ritrovarlo ancora.
Sarà da’ suoi congiunti forzato abbandonarmi,
Lettera ei non mi scrisse, che vaglia a disperarmi;
Onde, qual io forzata finsi troncar l’impegno,
Forse è costretto anch’egli a tollerar con sdegno.
Vede la mia rinunzia, ed il mio cuor non vede;
Può perciò condannarmi anch’ei di poca fede.

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Vengo a disingannarlo. Vengo s’egli ama, e teme,

Le sue, le mie ragioni a sostenere insieme.
Paolina. E se lo ritrovaste d’altra beltà invaghito?
Marianna. Del tradimento indegno lo ridurrei pentito.
Paolina. Come?
Marianna.   Come, mi chiedi? Tu sai qual esser soglio,
Allor che sostenere le mie ragioni io voglio.
Se abbandonai la patria, se ardii fuggir di mano
Agli avidi congiunti, non l’avrò fatto invano.
Or che il più ho cimentato, il meno che mi resta
È una misera vita, e arrischierò ancor questa.
Favola son del mondo, e di vedere aspetta
L’una e l’altra Sicilia da me la mia vendetta.
Paolina. Una cosa vuò dire, poi taccio ed ho finito:
Dubitate in Messina trovare altro marito?
Marianna. Non sai che al sangue illustre, da cui son derivata.
Troppo mal corrisponde la mia fortuna ingrata?
Che l’avolo paterno in Corte ha consumato
Il ricco patrimonio, ministro sfortunato?
E che a servir costretto il padre mio fra l’armi.
Morì senz’aver modo nemmen di collocarmi?
Lo zio, povero anch’egli, di me soffrì lo scherno,
Per ottener la grazia d’un misero governo.
Ed io che la mia sorte sperai veder cangiata.
Or sono all’interesse dal zio sacrificata.
Dove trovar potrei, in questo o in altro regno.
Del duca don Luigi sposo di me più degno?
Nato di sangue illustre, adorno di ricchezza,
Giovine che il talento accoppia alla bellezza.
Congiunto in parentela ai principi maggiori,
Che avrà dal suo sovrano le cariche migliori.
Ed io che per fortuna l’avvinsi ai lacci miei,
Cederlo sì vilmente, e perderlo dovrei?
Morir, morir più tosto, che ritornar meschina
Senza l’illustre sposo a riveder Messina.

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Paolina. Non so che dir, signora, vi do ragion davvero.

Voglia il ciel ch’ei vi sposi.
Marianna.   Sì, conseguirlo io spero.
Paolina. Ecco qui il marinaro.

SCENA III.

Il Marinaro e detto.

Marianna.   Sì presto a noi tornato?

(al marinaro)
Marinaro. Poco di qua lontano il Duca ho ritrovato.
Marianna. Dove?
Marinaro.   Nel suo palazzo, tanto al porto vicino,
Che a lui da dove siamo brevissimo è il cammino.
Pria di me una carrozza vidi colà arrivata;
M’informai ch’era desso, gli feci l’imbasciata.
Dissemi: il forastiere da me può favorire.
Gli risposi: dal porto per or non può partire.
Stette sospeso un poco, un giovane chiamò.
Poscia mi disse: andate, ditegli ch’io verrò.
Marianna. Ebbe verun sospetto?
Marinaro.   Zitto, signora; osservo
Quel giovane venire, ch’io credo un di lui servo.
Marianna. Itene, e per mercede questo danar tenete.
Marinaro. Sarò ai vostri comandi ognor che mi vorrete. (parte)
Marianna. Ritiromi in disparte; non voglio esser veduta.
Parla tu con il servo, da lui non conosciuta.
Poscia a dirmi verrai qual sia la commissione,
Onde il servo del Duca mandato è dal padrone.
Se l’uopo noi richiede, non iscoprire il sesso:
Fingiti il cavaliere che ha da parlar con esso.
Odi se don Luigi quivi aspettar dobbiamo,
E se venir non degna, a ritrovarlo andiamo.
Nulla tentar ricusa, chi tutto ha già perduto.
E dall’ardir soltanto posso sperar aiuto. (si ritira)

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SCENA IV.

Paolina, donna Marianna ritirata, poi Beltrame.

Paolina. Ella per i suoi fini arde d’amore e sdegno,

Ed io per compiacerla mi trovo in un impegno.
Posso passar per uomo solo coi ciechi e i sciocchi.
Noi donne ci conoscono al volto ed ai ginocchi.
Beltrame. (Altri che lui non vedo; al sito ed all’aspetto,
Esser questi dovrebbe). (osservando Paolina)
Paolina.   (Che gentil giovinetto!)
(osservando Beltrame)
Beltrame. Non vorrei prender sbaglio. (a Paolina)
Paolina.   Siete voi servitore
Del duca don Luigi?
Beltrame. Servo un altro signore,
Ma per la parentela anch’egli mi comanda,
E a veder chi lo cerca, sollecito mi manda.
Paolina. Son io, che lo desidera.
Beltrame.   Da un affar trattenuto.
Mandami a chieder scusa, se ancor non è venuto.
A ber la cioccolata se vuol restar servita,
Di cuore il signor Duca in casa sua l’invita.
Ma quando ella non voglia partir da questo loco,
Verrà le sue premure ad ascoltar fra poco.
Paolina. Non posso discostarmi per or dalla feluca;
Attenderò più tosto mi favorisca il Duca.
Beltrame. Ella prenda il suo comodo.
Paolina.   Ditemi, bel garzone.
Se non servite il Duca, e chi è il vostro padrone?
Beltrame. Il prence don Fernando, che avendo una figliuola,
Presto farà di due una famiglia sola.
(donna Marianna si fa vedere)
Paolina. Sposerà don Luigi di un principe la figlia?
(con del calore)
Beltrame. Sì signor; per che causa far tanta maraviglia?

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Marianna. (Misera me, che sento? Ah, mi tradì l’indegno.

Deggio tacer per ora, deggio frenar lo sdegno).
(da sè, in disparte)
Paolina. Ditemi, a queste nozze il Duca è violentato?
Beltrame. Oh, non signore, è bella, ed ei n’è innamorato.
Paolina. (Oh povera padrona!) Quando concluderanno
Questi loro sponsali?
Beltrame.   Prestissimo faranno.
Ella non vede l’ora, per quello che si dice;
E so che la sollecita la sua governatrice.
Paolina. La sposa non ha madre?
Beltrame.   No, le morì ch’è poco,
E certa donna Placida sta di sua madre in loco.
Paolina. Placida? (con maraviglia)
Beltrame.   Sì, signore. Ciò pur gli sembra strano?
Paolina. Codesta donna Placida ha il marito lontano?
Beltrame. Non sol da lei lontano di Placida è il marito.
Ma non sa s’egli viva, o pur s’ei sia perito.
Lo conosce, signore?
Paolina.   Dite, sapreste come
Chiamasi il di lei sposo?
Beltrame. So che Roberto ha nome.
Paolina. (Bellissima davvero! in modo inaspettato
Il capitan Roberto la moglie ha ritrovato).
Beltrame. Forse ha di lui notizia?
Paolina.   Sì, in Napoli si trova.
Beltrame. Cospetto! donna Placida giubilerà a tal nuova.
Dov’è? quando è venuto?
Paolina.   Di Napoli testè
Giunse ancor egli al porto, in compagnia di me.
Dall’Indie è ritornato, mi confidò ogni cosa,
E smania per trovare in Napoli la sposa.
Beltrame. Dove poss’io vederlo?
Paolina.   Ei stesso in questo loco.
Se attenderlo volete, ritornerà fra poco.

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In traccia di un albergo andò quivi d’intorno.

Beltrame. A me son tutti noti gli alberghi del contorno.
Vuò veder se lo trovo. Lo condurrò alle soglie
Io stesso del padrone a riveder la moglie.
Per lei ch’è tanto buona, vuò prendermi l’impegno;
Per coroscerlo meglio, mi favorisca un segno.
Paolina. È un uom di mezza taglia, che ha un segno assai visibile,
Avendo un bel nasone, grossissimo, terribile:
Ha un poro in una guancia, ed un vicino al mento.
Onde si può conoscere, se fosse ancora in cento.
Egli di bianco e rosso veste alla militare;
E il bastone e la spada è solito portare.
Beltrame. Colla governatrice un merito vuò farmi,
Da lei con il consorte andando a consolarmi.
Ella in casa può molto, ed io mercè di lei
Posso assai migliorare negl’interessi miei.
Bramo la nuova sposa per camerier servire,
E spero col suo mezzo la grazia conseguire.
Paolina. Siete voi ammogliato?
Beltrame.   Sono libero ancora.
Paolina. Vorrete accompagnarvi?
Beltrame.   Chi sa? ma non per ora.
Paolina. Avete innamorate?
Beltrame.   Signor, veggo fermarsi
La carrozza del Duca. Fin qui non può inoltrarsi.
Vuol venire a incontrarlo, o vuol che venga qui?
Paolina. (Guardando prima verso donna Marianna.)
Ditegli ch’io l’aspetto.
Beltrame.   Subito, signor sì.
Vossignoria non vada lontan da questa riva.
Perchè possa conoscerla il Duca, quando arriva.
In tanto don Roberto vuò rinvenir, s’io posso:
Fermerò tutti quelli che avranno il naso grosso.
(parte)

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SCENA V.

Paolina e donna Marianna.

Paolina. Udiste?

Marianna.   Il cavaliere ricevere tu dei:
Principia destramente parlar de’ fatti miei.
Fingiti un mio congiunto, a lui da me mandato,
A chiedergli ragione d’avermi abbandonato.
Sentiam dalla sua voce, se meco è sconoscente,
O se udendo il mio nome, quel perfido si pente.
S’egli ti parla ardito, rispondi con orgoglio.
Paolina. Signora, voi volete mettermi in un imbroglio.
Marianna. Non dubitar di nulla, ch’io veglierò in disparte.
Usa, per compiacermi, usa l’ingegno e l’arte.
Vedo venir l’ingrato. M’accende il mio furore;
Ma pria d’usar lo sdegno, vuò discoprir quel core.
(Si ritira)
Paolina. Eh, per la mia padrona veggo l’affar finito.
Che può sperar dal Duca d’altra beltà invaghito?
Eccolo; pagherei non essermi impicciata.
Ma se di no le dico, la veggo indiavolata.
Basta, quel che ho da fare lo spiccio presto presto;
Ed a lei, se m’imbroglio, lascio compire il resto.

SCENA VI.

Il Duca don Luigi e donna Marianna ritirata.

Luigi. Eccomi a voi, signore. Abbiatemi scusato,

Se udire i cenni vostri finora ho ritardato.
Paolina. Della vostra bontade, signor, vi son tenuto.
Siete bastantemente sollecito venuto.
Luigi. Che avete a comandarmi?
Paolina.   Signor, compatirete
Se ardisco incomodarvi...
Luigi.   Posso saper chi siete?

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Paolina. Un cavalier io sono di patria Messinese.

Luigi. Patria a me lungo tempo affabile e cortese,
Di cui scordar non posso ogni favore antico,
E ogni suo cittadino dee ritrovarmi amico.
Paolina. Lo so che di godervi Messina ebbe l’onore;
So che là principiaste accendervi d’amore;
E che nella mia patria vive la fortunata,
Che con dolci catene vi ha l’anima legata.
Luigi. Sono i teneri amori comuni all’età nostra.
Favoritemi il nome della famiglia vostra.
Paolina. Son io don Paolino conte dell’Infantado,
E di donna Marianna cugino in primo grado.
Luigi. Ho l’onor di conoscere questa illustre famiglia.
Fra le più rinomate del Regno di Castiglia;
Godo veder in voi di quella un discendente,
E di donna Marianna un nobile parente.
Qual affar vi conduce di Napoli alle mura?
Paolina. L’affar, per dire il vero, piuttosto è di premura.
Di mia cugina in nome vengo a dirvi, o signore,
Ch’ella intende il possesso aver del vostro cuore.
Luigi. Tardi, amico, giugneste. Il foglio lacerato
Libero già mi rese, e ad altra io fui legato.
Se dello zio il consiglio meno poteva in lei,
Mancare alla promessa ardito io non avrei.
Ma senza poter essere di mancator tacciato,
Dalla di lei condotta son io giustificato.
Paolina. La misera ingannata fu per altrui malizia;
Se siete un galantuomo, fatele voi giustizia.
Luigi. Signor, se da servirvi altro non ho che in questo,
Con voi più lungamente a ragionar non resto.
Paolina. Si vede ben, che siete... un mancatore ingrato.
Luigi. Non tollera gl’insulti un animo onorato;
E voi che m’ingiuriaste sulla pubblica strada,
Rendetemi ragione del torto colla spada.
Paolina. Colla spada? Signore, voi non mi conoscete.

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Tornate con più comodo, se battervi volete.

Luigi. Già vi conobbi al volto, siete un’anima vile.
Paolina. Non mi credea sì presto di muovervi la bile.

SCENA VII.

Donna Marianna in disparte, e detti.

Luigi. Ite donde veniste. Dite a donna Marianna,

Che dopo una rinunzia a torto mi condanna.
Che si scordi per sempre d’un foglio lacerato.
Paolina. (Ecco qui la padrona). Sì, cavalier malnato.
(arditamente)
Luigi. Il temerario insulto mi provoca allo sdegno.
(impugna la spada)
Paolina. (Si ritira.)
Marianna. Barbaro, de’ tuoi colpi sia questo petto il segno.
A me volgi quel brando, che l’onor mio ferisce.
Marianna a te presente, perfido, ti smentisce.
No, non è ver che sciolto sia da’ miei lacci il cuore;
Mi ha la rinunzia indegna carpita un traditore.
Contro i miseri oppressi regna la forza in terra;
Ma la giustizia in cielo anche i giganti atterra.
So che de’ miei nemici l’arte, il poter, l’orgoglio,
Impedirà che io giunga d’un Re clemente al soglio,
Ma ovunque io lo rincontri fuor della regia sede,
Sulla pubblica strada mi getterò al suo piede;
Nè valerà degli empi la perfida malizia,
A far ch’io non implori dal suo bel cuor giustizia.
Ecco a te discoperto il mio pensiero ascoso:
Vengo del mondo in faccia a disputar lo sposo:
Tal mi ti rese un giorno d’amor dolce saetta,
Ora tal mi confermi la forza e la vendetta.
Su via, se hai cuore in petto, fa ch’io mi sforzi invano:
Tronca le mie speranze, or che hai la spada in mano.
Ferisci questo petto, perfido traditore.
La crudeltà trionfi, se non trionfa amore.

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Luigi. Ah, che tentar mai posso contro una donna irata?

Me la conduce in faccia la mia fortuna ingrata.
(ripone la spada)
Marianna. Su gli occhi miei, lo veggo, sei men crudele e audace.
Guerra con me non brami; m’offri contento e pace.
(getta la spada)
Misero don Luigi! quanto avran fatto e quanto
Al tuo docile cuore per lavorar l’incanto!
Già ti vedea d’intorno folti congiunti e amici,
Nozze proporti illustri sotto i reali auspici.
So gli argomenti accorti, so le ragion che avranno
Dette per obbligarti, i perfidi, in mio danno.
E tu misero e solo, confuso e a me distante.
Rendesti a poco a poco quell’anima incostante.
Credi tu ch’io non sappia, che il tuo bel cuore afflitto
Vide me con isdegno a lacerar lo scritto?
E che dubbioso ancora ch’io fossi a ciò forzata,
Mi condannasti a torto, e mi dicesti ingrata?
No, non lo son, tel giuro, eccomi a te dappresso
Con quell’amor di prima, con il mio core istesso.
Son quella stessa ancora, che sì ti piacque un giorno.
Ho quelle grazie istesse, che mi scorgesti intorno.
Queste misere luci, che tu lodasti tanto,
Che al tuo bel cor gentile fecero il dolce incanto,
Mirale, son pur desse, e queste guance ancora.
Idolo mio, son quelle che vagheggiasti allora.
Povera sono, è vero, ma lo sapesti in prima.
Non ho colpa novella, onde scemar di stima.
Son di te degna, o caro, se ti consiglia amore;
Se mi abbandoni, ingrato, hai d’una belva il core.
Paolina. Signor che mi sfidaste, donna anch’io mi confesso,
E queste son quell’armi che adopra il nostro sesso.
Luigi. Ah sì, donna Marianna, son di rossor ripieno,
I rimproveri vostri mi han penetrato il seno.
E le dolci parole mi hanno talmente oppresso,

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Che accenti non ritrovo, e son fuor di me stesso.

Sulla pubblica strada troppo finor si è detto;
Di dama a me congiunta meco venite al tetto.
Vi narrerò il mio stato, vedrete il mio periglio.
Di voi, che saggia siete, abbraccierò il consiglio.
Cara donna Marianna, s’è ver che voi mi amate.
Sopra dell’onor mio fidatevi, e sperate.
Paolina. (Abbadate, signora, ch’ei cerca addormentarvi).
(piano a donna Marianna)
Marianna. Sì, don Luigi, io vi amo, non vuò precipitarvi.
So di nozze novelle il periglioso impegno;
Vi compatisco, e voglio sospendere lo sdegno.
Dal vostro cor sincero questo saper sol bramo,
Se la rivale amate.
Luigi.   Tutto saprete, andiamo.
(sospirando parte)
Paolina. S’egli di no vi dice, non gli credete un zero.
Marianna. Da così buon principio un miglior fine io spero, (parte)
Paolina. Ancor per la paura il cor mi trema tutto.
Povera Paolina, passato ha un caso brutto.
Vuò, subito ch’io posso, quest’abito levarmi.
Non vuò che un’altra volta ritornino a sfidarmi.
E invece di adoprare spade, pugnali e stocchi,
Colle parole ammazzo, precipito cogli occhi.

Fine dell’Atto Secondo.

Note

  1. Edd. Pasquali e Zatta: che.