Il padre per amore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di don Fernando.
Il Cavaliere Ansaldo e Fabrizio cameriere.
S’io rechi questo foglio, s’io il celi, o s’io lo straccia.
Tu sai la mia passione, tu vedi il mio periglio.
Vuò, prima di risolvere, sentire il tuo consiglio.
Fabrizio. Caro signor padrone, dissimular non voglio.
È stato un gran disordine aprir codesto foglio.
Vostra zia, poverina, prima della sua morte
Vi prega quel viglietto portare a suo consorte.
Le date la parola, da cavalier qual siete,
E poi, contro la fede, l’aprite e lo leggete?
È stata una sonora poetica licenza.
Cavaliere. È vero, io non doveva aprir questo viglietto.
Ma non saprei l’arcano, s’io non l’avessi letto.
Da Napoli partito l’altr’ieri per trovare
La zia senza il consorte nel feudo a villeggiare,
Da un mortale accidente la ritrovo assalita,
Che in forse lungamente ci tien della sua vita.
Sa1 che là mi condussi per questa causa sola.
Per chiedere alla madre in sposa la figliuola.
Da lei, che disponeva, sperai la grazia pronta,
Sperai di conseguirla di mio germano ad onta;
Che se per esso inclina della fanciulla il padre,
Molto potea giovarmi il prevenir sua madre.
Fabrizio. Prima ch’ella morisse, non le diceste niente?
Cavaliere. Sì, riavutasi un poco dal primiero accidente,
Qualche cosa le dico; al nome della figlia,
Mirasi un mar di pianto grondar da quelle ciglia.
Taccio per non vederla a terminar di vivere;
Ella sospira e piange, e poi chiede da scrivere.
Forma a stento il viglietto: il camerier chiamato,
Fa che sia in sua presenza il foglio sigillato.
Poscia a me lo consegna; mi prega a suo marito
Recarlo, e poco dopo di vivere ha finito.
Da un lato l’amor mio, dall’altro il suo dolore,
Curiosità violenta fa risvegliarmi in cuore.
Poteasi il di lei pianto creder materno affetto,
Ma il sospirar tacendo mi diè qualche sospetto.
Dopo contrasti vari l’ho finalmente aperto,
E con mia maraviglia l’arcano ho discoperto.
Fabrizio. Ed or che voi sapete quel che non sa nessuno.
Scommetto che di questo vorreste esser digiuno.
Cavaliere. Anzi esser può il mistero utile al mio disegno,
Usando di tal foglio con arte e con ingegno.
Necessità mel chieda, mostrarlo a don Fernando.
Fabrizio. Dunque è vano il consiglio, che mi chiedeste in pria.
Cavaliere. Sì, per or ti dispenso.
Fabrizio. Grazie a vossignoria.
Spiacemi questa volta non poter lusingarmi,
Che come consigliere abbiate a regalarmi;
Ma tanto generoso suol essere il padrone,
Che lo potrebbe fare almen per l’intenzione.
Cavaliere. Tu sei un poco troppo avido del danaro;
Ma in grazia del tuo spirito ti soffro, e mi sei caro.
Prendi queste due doppie; nel mio novello impegno
Prepara all’occorrenza gli sforzi dell’ingegno.
Amo donna Isabella, ed è il cuor mio disposto
Tentar tutte le strade d’averla ad ogni costo.
Fabrizio. Signore, io vi prometto l’usata fedeltà:
Parlate, e disponete della mia abilità.
Non isfuggir pericoli, non risparmiar fatica,
Giuro per queste doppie, che il ciel le benedica.
Cavaliere. Cerca spiar, se quelli che fur d’intorno al letto
Della signora estinta, sappiano del viglietto.
Procuriam col danaro di guadagnarne alcuno.
Fabrizio. Potrebbesi donare una doppia per uno.
Quattro servi donn’Anna avea per ordinario:
Io delle quattro doppie sarò depositario.
Cavaliere. Io soglio all’occorrenza spendere a larga mano,
Ma assicurati prima, se il mio sospetto è vano.
Fabrizio. Per meglio assicurarmi, per far qualche esperienza,
Fatemi di quel foglio l’intiera confidenza.
Qualche cosa in confuso finor mi avete detto.
Per meglio illuminarmi, leggetemi il viglietto.
Cavaliere. Ecco, vuò soddisfarti; odi quel che contiene...
Ma il principe Fernando sollecito sen viene.
Parti e lasciami seco.
Fabrizio. Fidatemi quel foglio.
Vanne pur.
Fabrizio. Sì signore. Vo a spiare attento,
Se nulla di tal fatto a mormorare io sento.
Tornerò per le doppie, quando vi sia il perchè.
(Se per altri non servono, han da servir per me).
(da sè, indi pate)
SCENA n.
Il Cavaliere Ansaldo, poi il Prìncipe don Fernando e Beltrame.
Tentisi pria di tutto di don Fernando il cuore.
Fernando. Cavalier, mi vien detto che, pria della sua morte.
Un foglio abbia vergato donn’Anna mia consorte;
E a voi, che per ventura foste colà arrivato.
Abbia, acciò mel recaste, quel foglio consegnato.
Cavaliere. È ver, la zia tremante dopo il primo accidente,
Per voi formò un viglietto; lo diede a me presente.
Ma il foglio mi richiese, meno dal male oppressa,
Dicendo: a mio consorte spero parlare io stessa.
Lacerando lo scritto, seco a partir m’invita,
Ma da un nuovo accidente la misera è colpita.
Chiede a cenni da scrivere, la carta a lei si porta.
La man più non si regge, e in breve tempo è morta.
Fernando. Infelice consorte! il ciel me l’ha rapita,
Senz’avermi vicino al fin della sua vita.
Mi amò dal primo istante che a me divenne sposa.
Per tutti i giorni suoi fu sempre a me amorosa.
Perderla non credeva sì presto, e sì repente;
Sono e sarò per questo più misero e dolente.
Chi sa che volea dirmi la sposa sventurata?
Aveste in pezzi almeno la carta a me recata!
Per un secondo messo la nuova ho a voi spedita.
Credei colà vedervi, ma lo sperar fu vano.
Fernando. Era per mia sventura vicino al mio Sovrano.
Pria di vedere il messo, pria di esser congedato,
Giunse la notte, e seppi l’evento sfortunato.
Ora l’andar che giova dell’infelice accanto,
Il cadavere freddo a inumidir col pianto?
Cavaliere. Sono i sudditi vostri, i vostri servi e amici,
Pronti per onorarla ai più divoti uffici.
La virtù vi disponga a serenar le ciglia,
La perdita ristori l’amor di vostra figlia.
Fernando. Sì, quest’unico frutto del marital mio letto
È l’unico conforto, che mi rimane in petto.
Dolce, cara Isabella, figlia di genitrice
Con cui, vivendo in pace, passai vita felice;
Per essa raddoppiati saran gli affetti miei,
Mirando il cuor dolente la genitrice in lei.
Cavaliere. Signor, ella è già nubile; se tal dite d’amarla,
Pria di mancar voi stesso, pensate a collocarla.
Fernando. Ci penserò.
Cavaliere. Signore, le preci sue divote
Vi offre per ottenerla un ch’è vostro nipote.
Fernando. Chi? Il duca don Luigi?
Cavaliere. No, non è il fratel mio
Che vi chiede la figlia, no, mio signor, son io.
Fernando. Nipote, perdonatemi, recami maraviglia.
Che da un secondogenito si chieda una mia figlia.
Un cavalier cadetto, un che deve avanzarsi
Nei gradi militari, non pensa a maritarsi.
Cavaliere. Contro di una tal legge parlar mi sia permesso.
Siam, mio germano ed io, nati da un sangue istesso:
È un semplice accidente, che sia sortito al mondo
Nella medesma culla un primo ed un secondo.
Oltre di ciò, mio padre con amorosa cura
Al mestier della guerra, è ver, fui destinato,
Ma posso viver bene senz’essere avanzato.
Nè curo che si legga nella futura istoria:
Il cavaliere Ansaldo è morto per la gloria.
Fernando. Nipote, a un vostro pari meglio pensar conviene;
Degli uomini ben nati la gloria è il solo bene.
A voi ed al germano varia i pesi la sorte;
Voi servite alla guerra, egli fatica in corte.
L’una e l’altra incombenza, se si riflette, è uguale;
È il ben che ne deriva, proporzionato al male.
Della guerra i disagi sono pesanti, è vero.
Ma ha poi lunghi respiri il militar mestiero;
Ed il servire in corte, che par men faticoso,
Si rende con il tempo stucchevole e noioso.
Ancor nei vari stati proporzion si dà,
Chi ha moglie ha maggior comodi, chi è solo ha libertà;
E giudicar vi lascio, se rechi maggior pena
La privazion di sposa, o il don di una catena.
Cavaliere. Io vuò da me medesimo eleggere il mio stato.
Rinunzio a chi li apprezza i beni del soldato.
Posso anch’io da me stesso formare una famiglia.
Fernando. Sì, formatela pure; non già colla mia figlia.
Cavaliere. Lo so che destinate di darla a mio germano,
Ma ch’io lo vegga e taccia, vi lusingate invano.
Anch’io posso offerirvi senza arrossire un nodo;
Ed ho, se il ricusate, di vendicarmi il modo.
Fernando. Nipote, meno altero parlarmi io vi consiglio.
Cauto evitar pensate di perder il periglio.
Cavaliere. Amor mi rende ardito. Voi mi sprezzate a torto.
Da un zio, da un mio germano, gl’insulti io non sopporto.
Signor, perdon vi chiedo. Non manco al mio rispetto.
Vi sarà noto un giorno quel ch’ora chiudo in petto.
(parte)
SCENA III.
Don Fernando e Beltrame.
Che a una dama in Messina promessa avea la mano.
Non sa che il Duca istesso a me lo ha confidato,
Non sa che col mio mezzo fu sciolto e liberato,
E che, per la mia figlia se nutre un vero affetto,
Può sperar di ottenerla, distrutto un tale obbietto.
Lo stesso don Luigi non l’ha saputo ancora,
Venute di Sicilia le lettere già un’ora.
E pria ch’egli lo sappia, vuò esaminar quel core.
Assicurarmi io voglio, se spento è il primo amore.
Beltrame. Donna Isabella e il Duca si amano tutti due;
E ognuno a maraviglia sa far le parti sue.
Don Luigi sorride, quando la dama il mira,
E quando egli la guarda, la giovane sospira.
Vuol dir, quand’ei sorride: provo in amor diletto.
Sospirando ella dice: ah, quel momento aspetto.
SCENA IV.
Il Duca don Luigi e detti.
Di posseder mia figlia, di regolare un regno.
Luigi. Signor, deh serenatevi: è ver ch’invida morte
La compagnia vi tolse di amabile consorte;
Anch’io per cotal perdita piansi e mi dolsi tanto.
Ma ha i suoi confini il duolo, e dee cessare il pianto.
La virtù ci soccorra, e vaglia la ragione.
Che l’uom dee rassegnarsi allor che il ciel dispone.
Voi avete una figlia, che per la madre spenta
Si macera nel duolo, si crucia e si tormenta.
Scemerà il suo dolore, se moderate il vostro.
Fernando. Ah sì, tutti i miei sforzi farò per consolarla.
Povera figlia mia! Mandiamo ad invitarla.
Vanne a donna Isabella, sappia ch’io qui la bramo.
(a Beltrame, che parte)
L’amai teneramente, or con più forza io l’amo;
E della cara sposa la perdita sopporto,
Trovando in questa figlia la pace ed il conforto.
Luigi. Ella merita in vero di un genitor l’affetto.
Pieno ha il cor di virtude, e di dolcezza il petto.
Fernando. È ver: donna Isabella è saggia ed amorosa.
Indegna non mi sembra di essere vostra sposa.
Luigi. Signor, con tal compagna sarei lieto e felice;
Ma ancor tanta fortuna sperare a me non lice.
L’amo teneramente, quanto amar si può mai;
Amor di lei mi accese dal dì ch’io la mirai.
Misero me, che tardi tornato in questo regno.
Piansi con altra donna il già contratto impegno.
Vi confidai l’arcano che mi agita e mi affanna:
Vi è noto ch’io promisi sposar donna Marianna.
Dama povera, è vero, orfana Messinese,
Che nell’età mia tenera del primo amor mi accese.
Misero! non avessi Messina unqua veduta.
Che non avrei sì presto la libertà perduta.
Poteva il padre mio, là a comandare inviato.
Avermi fra i congiunti in Napoli lasciato.
Quante sventure unite! la vita il genitore
Perduta ha in quel governo, ed io perduto ho il cuore.
Fernando. Di rendervi giulivo più differir non voglio.
La libertà perduta vi rendo in questo foglio.
Obbediente la figlia al zio che le comanda,
Rinunzia ad ogn’impegno, lo scritto vi rimanda.
Ed io, per lor mercede, procurerò di cuore
Ch ella sia fatta sposa, ed ei governatore.
Quanto a voi son tenuto!...
Fernando. Ecco la mia figliuola.
SCENA V.
Donna Isabella, donna Placida e detti.
Non vuò vedervi in volto segni di doglia amara.
Chi più di me dovrebbe lagnarsi del destino?
Ma se natura ascolto, me alle sue leggi inchino.
E voi, dopo aver tanto pianta l’estinta madre.
Ora pensar dovete a consolare il padre.
Isabella. Lo farei se potessi, ma son dolente ancora.
Placida. È di cuor tenerissimo la povera signora.
Tento ogni strada invano di serenar quel ciglio.
Fernando. Della governatrice seguite il buon consiglio.
So pur che voi l’amate quanto la madre istessa.
Isabella. Qual per la madre or piango, io piangerei per essa.
Luigi. Dolce amabile cuore non sa frenare il duolo.
Fernando. Isabella, appressatevi, che sì che io vi consolo?
So che nel vostro petto, oltre l’amor materno,
Arde segretamente un dolce foco interno.
Cara, non arrossite, non vi coprite il volto:
L’ardor non disapprovo, che avete in seno accolto.
Anzi amar don Luigi vi esorto e vi consiglio:
Amatelo qual sposo; l’amo anch’io come figlio.
Luigi. Deh, gradite i sinceri teneri affetti miei, (a donna Isabella)
Fernando. Via, parlar vi concedo. (a donna Isabella)
Placida. Parlerò io per lei.
Isabella. No, di tacer vi prego. (a donna Placida)
Placida. Non può spiacervi, io spero,
(a donna Isabella)
Malgrado a un bel rossore, che si confessi il vero.
Signor, la giovinetta dal dì che al mondo è uscita,
(a don Fernando)
Ella serbò mai sempre la candida innocenza,
Facendo suo diletto la pace e l’obbedienza.
Gli occhi di don Luigi ebbero tal valore,
Che penetraro a forza della fanciulla il cuore.
Isabella. O Placida indiscreta!
Placida. A me così parlate?
Indiscreta a chi v’ama?
Isabella. Per pietà, perdonate.
Fernando. Se il genitor l’accorda, vada il rossore in bando.
Isabella. Permettete ch’io parta.
Fernando. Restate, io vel comando.
Isabella. Madre mia, soccorretemi. (a donna ’Placida)
Placida. Figlia diletta, usate
Nell’obbedire al padre quella virtù che amate.
È la modestia un dono, che in pochi oggi si vede;
Ma perde anch’essa il merto, quando i confini eccede.
Dir che amate ad ogn’altro, troppo sareste ardita;
Ma a confessarlo al padre ogni ragion v’invita.
Egli sul vostro cuore ha un dritto di natura,
E nascondendo il cuore, tal dritto a lui si fura.
Son due virtù gemelle rispetto ed obbedienza.
Ora parlar dovete del padre alla presenza.
Isabella. Ma non è solo il padre. (a donna ’Placida)
Placida. Ah sì. Ha ragion, signore.
Non può, il Duca presente, parlar senza rossore.
Fernando. Bella innocenza amabile!
Luigi. Signor, quella virtù
Che a tacer la consiglia, favella ancora più.
A parlar non si sforzi la giovane innocente;
L’occhio è assai più del labbro sincero ed eloquente.
Prova maggior d’affetto dai labbri suoi non bramo.
Se cento volte e cento l’occhio mi disse: io t’amo.
Placida. Signore, è in piacer vostro che andiamo a ritirarci?
(a don Fernando)
Placida. Perdonate, di grazia, non è la mia signora
Avvezza a trattenersi in pubblico a quest’ora.
Qui vien di molta gente, e vuol la convenienza
Ch’ella non sia veduta. Andiam. (a donna Isabella)
Isabella. Con sua licenza.
(alti due, inchinandosi)
Fernando. Dove la condurrete? (a donna ’Placida)
Placida. A lavorar, signore;
Andrà co’ suoi ricami contenta a passar l’ore.
A trapuntare è intenta candida tela e fina,
Che presentare in dono al genitor destina.
Fernando. Grato mi è l’amor vostro, ma un sì gentil ricamo
Veder più giustamente a collocare io bramo.
Offrite il bel lavoro, con animo amoroso,
Al duca don Luigi, ch’è giovane e ch’è sposo.
Siete di ciò contenta? (a donna Isabella)
Luigi. Volete voi ch’io speri?
(a donna Isabella)
Placida. Ma su via, rispondete. (a donna Isabella)
Isabella. Sì signor, volentieri. (parte)
Placida. Con licenza, signore. (inchinandosi per partire)
Fernando. Di quel piacer ch’io godo
Nell’ammirar la figlia, la sua tutrice io lodo.
(a donna ’Placida)
Placida. Quella bontà di cuore grazia è del ciel soltanto.
Se buona è per natura, signor, non è mio vanto.
Ho fatto il dover mio, quanto ho potuto almeno;
E se ne abbiamo il frutto, il merto è del terreno, (parte)
SCENA VI.
Don Fernando e don Luigi.
Dar non potea alla figlia miglior governatrice.
Luigi. Parmi civil, ben nata.
Don Roberto chiamato, che serve il rege ispano.
All’Indie fu spedito fra gli altri militanti,
E gravida lasciolla, saran degli anni tanti.
Di lui nuova non s’ebbe dopo la sua partita;
Non si sa se sia morto, o se ancor duri in vita.
Dolente donna Placida, soletta e abbandonata,
Fu dalla moglie mia per grazia ricovrata.
Vissero poi fra loro con vero amor fraterno,
E della figlia nostra a lei diede il governo.
Luigi. Non m’ingannai nel crederla d’un’estrazion civile.
Fernando. Per educar fanciulle, donna non v’ha simile,
Saggia, prudente, accorta, provida ed amorosa.
Luigi. Desio ch’ella rimanga vicina alla mia sposa.
In nome mio vi prego, fatele il dolce invito.
Fernando. Ne proveranno entrambe un giubilo infinito.
Seco è avvezza mia figlia, dal dì che al mondo è nata;
Con amor donna Placida la giovane ha educata.
E in loro scambievole non dirò sol l’affetto,
Ma in giusta proporzione la stima ed il rispetto.
Luigi. Sortì donna Isabella ottima inclinazione,
Ma l’opera ha compita la buona educazione.
Voi nella figlia avete ricco tesor celato,
Ed io di possederlo son lieto e fortunato. (parte)
SCENA VII.
Don Fernando solo.
Di sposo sì gentile a renderla più degna;
Ed uso cautamente col docile suo cuore
Ora la tenerezza, ed or qualche rigore.
Finchè la pianta è tenera, dei turbini all’insulto
Basta un picciol sostegno per reggere il virgulto.
Riesce per raddrizzarlo difficile l’aiuto.
I figli in ogni grado non riescono migliori,
Per colpa, per inganno talor dei genitori.
Più d’ogni altro precetto, giova il paterno esempio,
E fa l’amor soverchio di un innocente un empio.
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Così tutte le antiche edizioni. Probabilmente si deve leggere sai.