Il padre per amore/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera di donna Isabella.

Donna Isabella, poi il Cavaliere Ansaldo.

Isabella. Senza chieder l’ingresso, il Cavalier s’avanza?

Che ardir inaspettato, che insolita baldanza!
Sa pur, che nel mio quarto di penetrar non lice.
Ah ritornasse almeno la mia governatrice!
Cavaliere. Chiedo perdon, signora, se audace ho profittato
Di questo a’ miei disegni momento fortunato.
Isabella. Signor, non mi conviene uomo ricever sola.
Cavaliere. Parto in brevi momenti; vi do la mia parola.
Permettetemi solo che a voi possa spiegarmi,
E che da voi comprenda, se vano è il lusingarmi.
Isabella. Io di me non dispongo. Da queste soglie uscite.

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Cavaliere. Quel che da voi desidero, placidamente udite.

So che dal padre vostro di voi la bella mano
Per mia sventura estrema offerta è al mio germano;
Ma il genitor non giunge a vincolarvi il cuore,
Bramo saper da voi, se vi acconsente amore.
Isabella. Gli occulti miei pensieri svelare io non intendo:
Son figlia, e ciò vi basti. Dal genitor dipendo.
Cavaliere. Questa risposta incerta mi anima alla costanza.
Se il cuor non impegnaste, mi resta una speranza.
Il Duca mio germano, che maggioranza ostenta,
Se voi nol preferite, per ciò non mi spaventa.
E il principe Fernando, che ha le mie nozze a sdegno,
Basta che voi vogliate, le accorderà, m’impegno.
Ed a tentar mi sprona la risoluta impresa.
Speme che voi non siate di mio germano accesa.
Isabella. Ah signor, lusingarvi oltre il dover non bramo;
Sposa son io del Duca, e, vel confesso, io l’amo.
Cavaliere. Sorte crudel! Ma ditemi: tanto vi accese amore,
Che altri sperar non possa di meritar quel core?
Isabella. Voi mi obbligate a dirlo; vi parlerò sincera.
Chi l’amor mio pretende, mal si lusinga e spera.
Cavaliere. Questo crudel rifiuto non soffre un’alma accesa;
Non cesserò per questo di ritentar l’impresa.
Donna Isabella, il modo di vendicarmi ho in mano;
Per rendervi delusa, svelar posso un arcano.
Fra noi resti sepolto, se a me non siete ingrata:
Lo farò noto al mondo, se veggovi ostinata.
Quanto importi il segreto, udite, e decidete:
Del principe Fernando voi la figlia non siete.
Isabella. Oh ciel!
Cavaliere.   Sì, vel confermo, ed io mentir non soglio.
Eccovi un testimonio verace in questo foglio.
Evvi noto il carattere? (mostrando il foglio)
Isabella.   Ah misera infelice!
Questa carta fatale vergò la genitrice.

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Cavaliere. Ecco: scrive allo sposo la misera dolente,

E chi è vicino al punto del suo morir, non mente.
Principe don Fernando, dolcissimo consorte,
Lungi da voi la sposa trovasi in braccio a morte.
Un tenero rimorso svelarvi or mi consiglia,
Che la cara Isabella non è la vostra figlia.

Isabella. Ohimè! seguite il foglio. Deh per pietà, signore,
Fate ch’io sappia almeno, qual è il mio genitore.
Cavaliere. Questo per or vi basti. Meglio è per voi tacerlo;
Quando ingrata mi siate, il mondo ha da saperlo.
L’onor del sangue vostro posso salvar, s’io voglio;
Posso tacer l’arcano, e lacerar il foglio.
Tutto da voi dipende; sarò qual mi volete.
Lasciovi in libertade; pensate, e risolvete. (parte)

SCENA II.

Donna Isabella sola.

Misera me! che intesi? Ah, degna or più non sono

Delle nozze del Duca. Mi perdo, e mi abbandono.
Porga almen donna Placida soccorso al mio bisogno.
Ah, che con lei non meno svelarlo io mi vergogno.
In sì misero stato mi assista il padre mio.
Oimè! non ho più padre. Dolci speranze, addio.
Dal mio destin crudele tanto avvilita, e tanto,
Sol la mia doglia interna posso sfogar col pianto.
(siede ad un tavolino piangente, coprendosi colla mano il volto)

SCENA III.

Il Duca don Luigi e detta.

Luigi. Chi provò mai tormento maggior di quel ch’io provo?

Dov’è mai donna Placida? La cerco, e non la trovo.
Prima di presentarmi di don Fernando al ciglio,
Desio di donna Placida udire un buon consiglio.

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Oimè! donna Isabella? Che fa? pensa o riposa?

Mi priverà il destino di sì amabile sposa?
Isabella. Ah, non vi è più rimedio. Stelle, che vedo mai?
(si alza un poco, e scopre il Duca)
Luigi. Scusatemi, vi prego, se ardito io mi avanzai.
Della governatrice l’orme ricerco invano.
Isabella. Ite da queste soglie, ite, signor, lontano.
Luigi. Tanto rigor non merta chi vi fu scelto in sposo.
Isabella. Nome soave un tempo, che or pronunciar non oso.
Luigi. (Oimè, di sposo il nome turba il cuor d’Isabella?
Ah, di donna Marianna sparsa è la ria novella.
Per mia maggior sventura pubblico è già l’arcano.
Tento il martir nascoso dissimulare invano). (da sè)
Isabella. Deh per pietà, vi supplico, da queste porte andate.
Luigi. Dite almen la ragione.
Isabella.   Parlar non mi obbligate.
Luigi. Sì, v’intendo pur troppo, e la ragione è tale,
Ch è al mio, come al cuor vostro, durissima e fatale.
Con mio dolore estremo tutto alfine è svelato.
Isabella. (Ah, pubblicò l’arcano il Cavaliere ingrato!)
(da sè)
Luigi. Non può celarsi il vero. Nè io più lungamente
Volea tale avventura coprire inutilmente.
L’arcano a donna Placida sono a scoprir venuto.
Qual sollecito labbro mie labbra ha prevenuto?
Isabella. Il cavalier Ansaldo diedemi il colpo atroce.
Luigi. So qual disegno ha spinto quell’animo feroce.
Egli m’invidia un bene, che prometteami il cielo.
L’amor che per voi nutre, copre dell’empio il zelo.
Isabella. Finse che a lui soltanto fosse palese il vero:
Tacerlo in faccia al mondo promise il menzognero.
Or che pubblica è resa la mia fatal sventura,
Duca, perchè ad affliggermi venite a queste mura?
Luigi. Coperto di rossore mirate il mio sembiante.
Ma del destino ad onta, vi adorerò costante.

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Se una ragion mi vieta porgere a voi la mano,

Questo mio cuor, ch’è vostro, voi rinunziate invano.
Isabella. Signor, lo stato vostro agl’imenei v’impegna;
Io son, per mia sventura, di possedervi indegna.
Nè di vietare intendo, che altra sposa felice
Goda di quell’amore che a me goder non lice.
Luigi. Oh ciel, con tanta pace, senza mostrarvi irata,
Alla fè rinunziate che avvi il mio cuor giurata?
Questo, deh perdonate se ardito è il mio sospetto,
Un segno si potrebbe chiamar di poco affetto.
Virtude è in chi ben ama anche lo stesso orgoglio.
Isabella. Di chi lagnarmi io deggio, se mi condanna un foglio?
Luigi. Il foglio è lacerato: quel che al cuor mio si oppone,
Sol nell’onor consiste.
Isabella.   Duca, vi do ragione, (sospirando)
Luigi. Ecco vien don Fernando.
Isabella.   Oh misera infelice!
Luigi. E a don Fernando unita vien la governatrice.
Isabella. Voglio fuggir.
Luigi.   Restate. (la trattiene)
Isabella.   Vederli io non ho cuore.
Luigi. Colpa voi non ne avete. Esser dee mio il rossore.

SCENA IV.

Il Principe don Fernando, donna Placida e detti.

Fernando. Duca, se amor cotanto sollecito vi rende,

Delle nozze il momento solo da voi dipende.
Il vostro e mio Sovrano agl’imenei consente.
Isabella. (Nulla gli è noto ancora). (da sè)
Luigi.   (Ancor non saprà niente).
Fernando. Figlia, alla gioia vostra nuova ragione addito.
Dopo tant’anni e tanti, in Napoli il marito
Giunse di donna Placida.
Placida.   Ciò mi fu detto or ora;

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Ma rintracciar lo feci, e non lo vedo ancora.

Fernando. Consolatevi seco del fortunato avviso, (a donna Isabella)
Figlia, perchè sì mesta, e sì dolente in viso?
Nota è a voi la cagione che le conturba il seno?
(a donna Placida)
Placida. Pria ch’io da lei partissi, l’animo avea sereno.
(a don Fernando)
Or cambiata la trovo. Deh, qual ragion novella
Turba il vostro bel cuore, dolcissima Isabella?
Fernando. Misero me! dagli occhi miro caderle il pianto.
Duca, il suo duol saprete voi che le foste accanto.
Luigi. So la cagion pur troppo, signor, del suo dolore.
Fernando. Deh svelatela, amico.
Placida.   Oh Dei! mi trema il core.
Luigi. Ah, il dolor mi confonde della mia bella in faccia.
Vuole il dover ch’io parli; fa il mio rossor ch’io taccia.
Isabella. Ah, che celar non puossi il mio destin malvaggio.
Fernando. Deh figlia mia, parlate.
Placida.   Deh, fatevi coraggio.
Isabella. Udite.
(tira in disparte donna Placida, gettandole le braccia al collo)
 (Ah, che mi manca nel palesarlo il core), (da sè)
(Il prence don Fernando non è il mio genitore).
(piano a donna Placida)
Placida. (Oh Dio! come scoperto si è mai codesto arcano?)
Duca, ciò sarà vero? (forte)
Luigi.   Il dubitarne è vano.
Fernando. Non mi tenete in pena.
(a donna Placida e a donna Isabella)
Placida.   (Figlia, a voi chi lo dice?)
(piano a donna Isabella)
Isabella. (Pria di morire, un foglio vergò la genitrice.
Del Cavaliere in mano vidi la carta or ora).
Placida. (Scritto del padre è il nome?)
Isabella.   (Non l’ho saputo ancora).

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Fernando. Ah, la mia sofferenza, donne, oramai stancate.

Qual arcano è codesto? Lo vuò saper, parlate.
Isabella. (Seco parlar non oso). (a donna Placida)
Luigi.   Io svelerò il mistero...
Placida. Niun più di me, signore, può palesarvi il vero.
Questa innocente figlia, che affitta a voi si mostra.
Non è, qual voi credeste, non è figliuola vostra.
Fernando. Santi numi del cielo!
Luigi.   (Misero me! che sento?)1
Questo del mio germano sarebbe un tradimento?
Placida. Della padrona estinta l’ha palesato un foglio.
Son dell’arcano a parte, dissimular non voglio.
Deh, placido soffrite dalle mie labbra il vero,
E il vostro cor dubbioso rasserenare io spero.
Signor, dalla consorte che voi cotanto amaste,
Quasi due lustri invano prole ottener bramaste.
Tumido il ventre alfine serena a voi le ciglia,
Di nove lune al termine diè alla luce una figlia.
Tanto di lei contento voi giubilaste allora,
Che genitor più lieto non fu veduto ancora.
Del vostro amore il frutto chiedendo al ciel clemente,
Del sesso della prole voi foste indifferente;
E la gentil bambina, dal cielo a voi concessa,
Fe’ duplicar gli affetti anche alla sposa istessa.
Dopo tre giorni appena, la misera consorte
Vide la cara figlia rapir barbara morte;
E più del suo cordoglio, l’afflisse il fier dolore
Del colpo inaspettato al cuor del genitore.
Amore in quel momento la sprona, e la consiglia
L’estinta pargoletta cambiar con altra figlia;
E per scemare al padre il doloroso affanno,
Supera i suoi rimorsi nell’amoroso inganno.
Voi la tenera figlia a ribaciar rivolto,

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Quella vi parve agli atti, quella vi parve al volto.

Crescere la miraste saggia fanciulla onesta,
Foste di lei contento, e la fanciulla è questa.
Fernando. Oh della mia Isabella care luci leggiadre.
Mi toglierà il destino l’onor d’esservi padre?
Ah no, questo mio cuore troppo, idol mio, vi adora:
Figlia finor mi foste, vi sarò padre ancora.
Isabella. Ah, da sì gran bontade sentomi il cuore oppresso.
Placida. Oh tenerezza estrema!
Luigi.   (Io son fuor di me stesso).
Fernando. Ma da qual sangue è nata figlia che ha sì bel cuore?
(a donna Placida)
Placida. Signore, a tal domanda principia il mio rossore:
Ma dalla bontà vostra tutto sperar mi lice.
Della cara Isabella son io la genitrice.
Isabella. O cara madre! (gettandosi al collo di donna Placida)
Placida.   Ah figlia! (abbracciandola teneramente)
Luigi.   (Ah, non trattengo il pianto).
Fernando. (Al tenero mio cuore qual prodigioso incanto?)

SCENA V.

Il Cavaliere Ansaldo e detti.

Cavaliere. Signore, arditamente so che passar non si usa;

Ma la ragion pressante del mio venir mi scusa.
Questa mane vi chiesi...
Fernando.   Ah Cavaliere ingrato!
Dov’è della mia sposa il foglio a me celato?
Cavaliere. Signor, del vostro cuore previdi il rio periglio;
A voi se lo nascosi, fu di pietà un consiglio.
Se l’altrui debolezza giunse a svelar l’arcano.
Ecco il foglio richiesto rimesso in vostra mano.
Fernando. (Sì ritira in disparte a leggere il foglio.)
Cavaliere. Duca, non vi lagnate, se vi farà arrossire
Cosa che dall’onore son spinto ad iscoprire.

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Luigi. Il mio minor germano non è il mio precettore.

Placida. Signor, figlia è Isabella di onesto genitore.
Don Roberto mio sposo, nobile Capuano,
Fra le milizie Ispane fu eletto in capitano.
Povero di fortune cercò sorte migliore;
Io la mia Principessa servii dama d’onore.
Cessi all’illustre dama, è ver, la mia bambina,
Ma col piacer di vivere al sangue mio vicina.
E ne’ miei casi avversi mi reputai felice
Della mia stessa figlia venir governatrice.
No, le nozze del Duca degne di lei non sono;
Signor, se le soffersi, a voi chiedo perdono, (a Luigi)
Ma se ha il prence Fernando per lei lo stesso amore,
Non è tal figlia indegna ancor del vostro cuore.
(a Luigi)
Luigi. Io son che non la merto, un infelice io sono...
Fernando. Note della mia sposa, vi bacio, e a lei perdono.
Quest’amorosa insidia formato ha il mio contento;
Di un sì felice inganno è vano il pentimento.
Opera fu pietosa della bontà divina,
Trovar di donna Placida sì pronta una bambina.
La perdita fatale (ah, nel pensarlo io tremo!)
Reso avrebbe in quel punto il mio cordoglio estremo.
Figlia non è Isabella della mia sposa, è vero,
Ma di una madre onesta, di cuor saggio e sincero.
E la virtù sublime che le circonda il petto.
Degna vieppiù la rende del mio paterno affetto.
Se nell’età in cui sono, di prole il ciel mi priva,
Di me la mia Isabella sarà figlia adottiva:
Ella de’ beni miei sarà l’unica erede,
Sarà di mia famiglia, vivrà nella mia fede.
Verso la cara figlia il primo amor non langue,
Pronto sarei per essa a dar la vita e il sangue.
Placida. Ah, dal fondo del cuore a inumidir le ciglia
Sorge il tenero pianto. Viscere mie, mia figlia,

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Padre finor col labbro non lo chiamaste in vano.

Sia benedetto il cielo, baciategli la mano.
Isabella. (Si accosta per baciar la mano a don Fernando.)
Fernando. Vieni, cara, al mio seno.
Isabella.   Oh padre mio pietoso!
Luigi. (Turbar sì dolci affetti col labbro mio non oso.
Credei d’esser scoperto; ma, povera fanciulla!
Affliggerla non deggio, se ancor non ne sa nulla).
Cavaliere. (Finor per questa via l’arte ho adoprata in vano:
Altra miglior scoperta precipiti il germano).
Signor, l’affetto vostro, che ogni misura eccede,
(a don Fernando)
Puote obbligare il Duca a mantener la fede;
Ed ei d’amore acceso per la bella adottiva,
Fomenterà nel seno la fiamma rediviva.
Ma in faccia sua lo dico, egli, signor, v’inganna.
Ei dovrà, suo malgrado, sposar donna Marianna.
Isabella.   (Oimè!)
Luigi. Che ardire è il vostro? (al Cavaliere)
Fernando.   L’impegno è già disciolto.
Cavaliere. Donna Marianna è in Napoli, e fu veduta in volto.
Fernando. Come! (al Duca Luigi)
Luigi.   Germano indegno.
Fernando.   Svelatemi il mistero. (a Luigi)
Luigi. Donna Marianna è in Napoli: sì, don Fernando, è vero.
Isabella. (Madre mia, son perduta). (piano a donna Placida)
Placida.   (Non vi affliggete ancora).
(piano a donna Isabella)
Luigi. Questo mio cuor costante donna Isabella adora.
Cambiati i suoi natali, non scema in me l’amore;
Se degna è del cuor vostro, ell’è pur del mio cuore.
Venuta di Messina la femmina sdegnata...
Cavaliere. Vuol chiedere giustizia, vuol essere sposata:
Quattro persone al porto stamane l’han veduta
Contro il Duca medesimo altera e risoluta.

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Della feluca istessa dal sicilian piloto

La condizione e il nome di lei fu reso noto.
Io che donna Isabella amo con cuor sincero,
Senza maschera in volto vi ho discoperto il vero.
Se una mercede ingrata all’amor mio si dona,
Signor, ve lo protesto, amor non la perdona, (parte)

SCENA Vi.

Don Fernando, donna Isabella, il Duca don Luigi e donna Placida.

Fernando. Duca, venite meco. Non dubitate, o cara:

Termineran gl’insulti della fortuna avara.
Ad inquietarvi il core nova cagion si desta;
Ma di temer lasciate, terminerà ancor questa.
Se per legge finora di voi fui genitore.
Or principia l’impegno di un padre per amore.
Scoperto il grande arcano che l’esser vostro addita,
La catastrofe oscura dovrebbe esser finita;
Ma il tenero amor vostro, e quel di una rivale.
Fa crescere l’impegno che nel cuor mio prevale.
Di tai discoprimenti le storie abbiam ripiene,
Veggiam tali avventure favoleggiar le scene;
Ma in rendermi contento se il mio desire adempio,
Vuò di paterno affetto dar un novello esempio.
Sì, padre vostro io sono, e il mio dover mi appella
A consolar del tutto un’anima sì bella. (parte)
Luigi. Alle di lui promesse questa vi aggiungo anch’io.
Vi serberò in eterno la fede ed il cuor mio.
E se il destin mi vieta ch’io sia di voi consorte,
Pria ch’altra mi possieda, giuro incontrar la morte, (parte)

SCENA VII.

Donna Placida e donna Isabella.

Placida. Figlia, con tai speranze più lagrimar non lice.

Isabella. Ah, mi condanna il fato a vivere infelice.

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Placida. Avvi la provvidenza di si gran ben colmata,

Che al ciel, se vi dolete, voi comparite ingrata.
Chi mai sperar poteva, che l’amoroso inganno
Scoperto a noi non fosse di vergognoso affanno?
Vissi finora in pena; il mio rimorso atroce
Franca non mi lasciava articolar la voce.
Quando stringeavi al seno il principe Fernando,
Godea del vostro bene, ma ne godea tremando.
Voi figurando in mente di sua ricchezza erede,
Pareami una rapina l’indebita mercede.
Mille volte fui spinta dai stimoli d’onore
A discoprir l’arcano; ma mi trattenne amore.
Ora di quest’amore, ch’esser dovea punito,
Ecco la colpa assolta, ecco il timor finito.
Di due tenere madri fu compatito il zelo;
Figlia, gradite il dono, e benedite il cielo.
Ah sì, perchè compita alfin sia nostra sorte,
Il ciel dopo tant’anni mi rende il mio consorte.
Mandai più d’un amico a ricercarlo intorno;
Spero di rivederlo pria che tramonti il giorno.
Oimè, l’amor di madre, di rintracciarlo invece,
Di lui, per cagion vostra, quasi scordar mi fece.
Finor nel cuore afflitta, a giubilar non usa,
Son per doppia cagione dal mio piacer confusa.
Voi vi dolete ancora? Deh, non mi fate un torto:
Sereno il vostro ciglio accresca il mio conforto.
Sperate; il vostro cuore sarà contento appieno.
Il più chi ha superato, può superare il meno.
Sì, sarà vostro il Duca.
Isabella.   Oh Dio! mi consolate.
(abbracciando donna Placida)
Placida. Figlia, diletta figlia, solo nel ciel sperate.
(abbracciando donna Isabella, e partono)

Fine dell’Atto Terzo.

Note

  1. Così nelle antiche edd., ma forse la parentesi si chiude in fine del verso successivo.