Paolina. Un cavalier io sono di patria Messinese.
Luigi. Patria a me lungo tempo affabile e cortese,
Di cui scordar non posso ogni favore antico,
E ogni suo cittadino dee ritrovarmi amico.
Paolina. Lo so che di godervi Messina ebbe l’onore;
So che là principiaste accendervi d’amore;
E che nella mia patria vive la fortunata,
Che con dolci catene vi ha l’anima legata.
Luigi. Sono i teneri amori comuni all’età nostra.
Favoritemi il nome della famiglia vostra.
Paolina. Son io don Paolino conte dell’Infantado,
E di donna Marianna cugino in primo grado.
Luigi. Ho l’onor di conoscere questa illustre famiglia.
Fra le più rinomate del Regno di Castiglia;
Godo veder in voi di quella un discendente,
E di donna Marianna un nobile parente.
Qual affar vi conduce di Napoli alle mura?
Paolina. L’affar, per dire il vero, piuttosto è di premura.
Di mia cugina in nome vengo a dirvi, o signore,
Ch’ella intende il possesso aver del vostro cuore.
Luigi. Tardi, amico, giugneste. Il foglio lacerato
Libero già mi rese, e ad altra io fui legato.
Se dello zio il consiglio meno poteva in lei,
Mancare alla promessa ardito io non avrei.
Ma senza poter essere di mancator tacciato,
Dalla di lei condotta son io giustificato.
Paolina. La misera ingannata fu per altrui malizia;
Se siete un galantuomo, fatele voi giustizia.
Luigi. Signor, se da servirvi altro non ho che in questo,
Con voi più lungamente a ragionar non resto.
Paolina. Si vede ben, che siete... un mancatore ingrato.
Luigi. Non tollera gl’insulti un animo onorato;
E voi che m’ingiuriaste sulla pubblica strada,
Rendetemi ragione del torto colla spada.
Paolina. Colla spada? Signore, voi non mi conoscete.