Il mondo è rotondo/XXIV
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Capitolo XXIV.
Le mammelle.
Ma la signora Alice non rispondeva.
Probabilmente ella non aveva molta confidenza con gli arnesi della scrittura e ciò le dava soggezione; oppure il calcolo dei nove mesi era sbagliato; oppure quella cosa era già stata spedita alle balie e alle nutrici.
E allora Beatus ritornò a casa.
Ma appena arrivato a casa, trovò quello che non si aspettava.
Era sera, era freddo e pensava al suo letto.
E invece trovò il suo letto ancora occupato.
Da prima non capì da chi, e perchè.
Attorno al letto c’erano le tre donne: la Scolastica, la bimbetta e la signora Alice.
Ma la signora Alice disse: — Buona sera, signor Beatus. Non la aspettavamo. Lei è arrivato in tempo per veder passar l’angiolo.
Tànatos, la morte, era entrata in casa senza avvertire il portinaio.
La bimbetta diceva: — Poverello, muore.
Scolastica non disse nulla.
Allora Beatus s’accorse che nel suo letto c’era qualche cosa.
— Lo vuol vedere? — disse la bimbetta, e levò il lenzuolo, e Beatus che per la prima volta vide, inorridì.
— Quel bimbo ha cento anni! — esclamò Beatus.
Il figlio dell’uomo e della donna aveva l’aspetto triste dei vecchi: la palla dell’occhio era scavata profondamente entro l’orbita; la pelle era di un colore livido, e pendeva dai sostegni dello scheletro.
— È nato così? — domandò.
— Oh, — disse la bimbetta — era così carino quando è nato.
— Che malattia ha?
— Ha fame.
— Voi — disse Beatus a Scolastica — gli dovevate dare il latte.
— Sì, con queste.
E mostrò a Beatus l’orrore delle sue mammelle.
— Eh, mica tutte le donne — disse la signora Alice — hanno il latte. Poverella, ha provato. È venuto fuori il sangue; ma il latte, no.
Scolastica fece un gesto di rabbia:
«Quell’uomo che non capisce mai niente!».
Il volto di quella madre era corroso: vi dovevano essere passate lagrime.
— Vi domando scusa — disse Beatus. — E allora perchè non lo avete mandato a balia?
— Così abbiamo fatto — rispose la signora Alice; — ma la balia appunto lo ha rovinato.
— Dovevate prendere una balia in casa.
— E dove la trova lei la balia in casa? — disse la signora Alice.
— Oh, si trovano — disse Beatus.
— Le vada a trovar lei — disse Scolastica.
— Una volta si trovavano, ma adesso non più — disse la signora Alice. — Sa cosa dicono le contadine? che il latte è sangue, e il loro sangue non lo vogliono più dare ai signori.
— Ma dove, ma dove, signore! — disse Beatus additando con la palma la creatura umana che giaceva sul suo letto.
C’erano, lì, le tre femmine: sei mammelle: sei fonti senz’acqua attorno a un assetato.
— Avete provato ad allattarlo col poppatoio?
— Abbiamo provato; ma non era più tempo. E poi che latte!
La bimbetta, con un pannilino umettato, cercava di far succhiare qualcosa.
— Fino a questa mattina, poverello — disse — si sforzava di succhiare, ma adesso non ha più forza.
Quella bimbetta richiamava in mente i bimbi che stanno lì pazienti, con insensate parole di amore, ad imboccare i passerotti moribondi.
Scolastica pareva risvegliarsi ogni tanto, e diceva: — El me putelo!
Anche quel risveglio di un’anima morta dava un senso di costrizione al cuore.
— Scolastica — disse Beatus —, e quell’uomo non l’avete avvertito?
— Che cosa vuole che importi a lui?
Invece nella stanza c’era una cosa che non c’era prima: la signora Alice aveva portato sul comò di marmo una di quelle imagini, una Santa Rosalia, una Sant’Anna, una cosa di porcellana o di stucco, con davanti la gran palla opaca di un lume a petrolio, come aveva veduto a Napoli in quella notte.
Anche questo ricorso alle forze taumaturgiche provocò in Beatus un grande stringimento di cuore.
«E voi che fate qui?», voleva dire Beatus alle donne, sentendo un gran silenzio.
Ma non disse. Esse assistevano alla morte.
Sono le donne, le pazienti, che assistono alla morte.
— Per questa notte — disse la signora Alice a Beatus — bisognerà che lei vada a dormire all’albergo.
E Beatus andò, e passando per il suo studio, scoprì i ritratti dei benefattori dell’umanità.
Provò una sensazione come di vuoto.
Ma forse era la Morte, che passando per la sua casa, produceva quel vuoto.
Uscì di casa, e voleva prendere un tram. Ma i tram correvano con grande fragore, con grandi lumi, che gli parvero più grandi che mai; ma forse così gli parve perchè quel quartiere eccentrico dove abitava, è buio e silenzioso. I tram erano vuoti e parevano fare più rumore. Ma non si fermarono al suo richiamo. Parevano sospinti da una gran fretta.
«Forse è mezzanotte — pensò, — e i tram hanno fretta, e tornano alle loro rimesse.»
Camminò a lungo; ma quando fu nel centro della città, rimase sorpreso di vedere tutto illuminato: tutta la gente.
Entrò in un caffè per rifocillarsi con qualche cosa. Il caffè era grande: due grandi sale, tutte piene di gente: i lampadari elettrici rovesciavano fasci di luce.
Qualcuno lo vide, e lo salutò. Ma passando vicino ad un tavolo, ebbe la sensazione che il suo passaggio destasse meraviglia. Gli parve udire anche esclamazioni di scherno. Ma non potevano essere rivolte contro di lui. Sentì queste parole: «O che non si è più padroni di fare il comodaccio suo?»
Trovò un tavolo vuoto, e si sedette: ma quella luce lo abbagliava e chiuse gli occhi.
Sentiva le voci di alcuni signori presso il tavolo vicino al suo. Parlavano di politica. Non sentiva i discorsi, ma come un continuo ronzio, e in quel ronzio passavano ogni tanto dei corpuscoli sonori: «Lenin, Bela Kun, Sovieti, comunismo, proletariato», e ad ognuna di quelle parole era attaccato un senso taumaturgico.
Ieri erano altre parole: «Kaiser, Ludendorff, Mitteleuropa».
Una specie di terrore lo invase: di trovarsi solo in mezzo a una umanità formata di ventriloqui.
Ogni tanto frasi enfatiche di cose vere e anche non vere.
Poi sentì un altro ronzio: proveniva dall’altro tavolo: lì si parlava di arte, di belle donne, di illustri galanti donne: «Figure efebiche, senza più seno». «Il seno usava al tempo del grossolano realismo di trent’anni fa», «Ah sì, le poppe ritondette, le poma giulive, bei seni dalla punta fiorenti...... Erano giovani artisti, letterati che parlavano così. Pareva che il seno fosse una cosa creata soltanto per la voluttà degli artisti.
Ma lo riscosse il cameriere dicendo: — Il signore è servito.
Aprì gli occhi e vide sotto di sè il biancore di una tazza di latte. Gli ripugnò come all’idrofobo l’acqua.
Guardò i bei giovani che vicino a lui parlavano di arte qua, e di politica là.
Ma quella vista gli ripugnò come il latte.
Questo folle pensiero gli si delineò nella mente: «che quell’essere vivente, ancora sopra il suo letto, fosse uguale a tutti quegli esseri viventi».
Allontanò da essi lo sguardo per posarlo su qualche altro oggetto più lontano, e vide a un tavolo lontano la faccia onesta e fresca del dottore che lo aveva curato dalla febbre spagnola.
Come mai un uomo così morigerato si trovava in giro per i caffè a così tarda ora di notte?
«Ma quell’orologio è fermo!»
La lancetta dell’orologio nella gran parete non era ferma: segnava un’ora più che onesta. Il tempo aveva avuto un corso vertiginoso per Beatus.
Beatus fu attratto verso il dottore.
Il dottore non era solo, ma con un altro medico, anzi fisiologo illustre; e siccome anche Beatus era quasi illustre, così si conoscevano, essendo ambedue illustri. Parlavano non di politica o di arte, ma degli ormoni. Questa cosa era stata battezzata recentemente con tale nome dalla scienza; ma la sua esistenza risale al tempo delle mammelle. L’illustre fisiologo aveva fatto notevoli esperimenti sugli ormoni.
— Sa lei, — disse il giovane dottore a Beatus — che dopo che ho curato lei della febbre spagnuola, mi sono ammalato io?
— Ed è stato lì lì per andarsene — disse sorridendo l’illustre fisiologo.
Spiacque molto tale notizia a Beatus.
— Eppure è strano! — disse. — Quando si sente dire che un medico è ammalato, si prova una certa meraviglia.
— Quasi piacere, è vero? — disse sorridendo l’illustre fisiologo.
— Questo poi no — rispose pur sorridendo Beatus. — Almeno io, no.
— Se poi il medico muore — continuò sorridendo l’illustre fisiologo —, è una soddisfazione.
— Può darsi — disse Beatus — che per molti la cosa sia così. Eppure vi è la sua spiegazione.
— E quale?
— Ma sì! — disse Beatus. — Bisogna ricordare che il medico, nell’antichità, era lo stregone, il possessore delle forze occulte. Ebbene: qualcosa di questo remoto concetto rimane. Pigliate il più formidabile uomo politico che muove gli uomini come quei due signori là muovono le pedine su la scacchiera, e fatemelo seriamente ammalato; e poi ditemi che cosa diventa di fronte al medico: niente. Esiste anche il fatto grammaticale, scusate: non so se lo abbiate osservato. Supponete che i giornali domani annuncino che Sua Eccellenza, il presidente del Consiglio, sia colpito da emiplegia. Ebbene: la gente non dice più: «Sua Eccellenza è il solo uomo plastico per governare questo popolo plastico», ma dice era; cioè usa, scusate, il tempo imperfetto, cioè lo fa come morto, ancorchè sia vivo ancora. Voi, medici, potreste formare il più formidabile dei sindacati.
— Macchè! — disse l’illustre fisiologo. — Purtroppo è impossibile.
— E perchè? — domandò Beatus.
— Perchè se lo stregone, come dite voi, è indispensabile all’uomo infermo, è perfettamente inutile alla collettività la quale gode di inalterabile buona salute. Ci salviamo un po’ la reputazione con quei poveri microbi. Ma l’umanità se ne ride. Deve esistere una coscienza collettiva della sua indistruttibilità.
— E vi difendete anche — aggiunse Beatus — con quel po’ po’ di linguaggio magico o occultista che adoperate proprio come gli antichi stregoni. Poco fa dicevate ormoni. Potreste dire eccitanti, stimolanti; ma in tale caso tutti vi comprenderebbero. Ma esistono realmente?
— Volete provare, Beatus? — disse l’illustre fisiologo. — Io vi assicuro che sono gli ormoni del feto che provocano la secrezione delle mammelle. Teoricamente anche voi, Beatus, potreste esser messo nella condizione di allattare. Tutt’al più si potrà discutere per grammatica, se voi dovrete essere chiamato la balia o il balio....
A queste parole Beatus che, ragionando, si era dimenticato, si ricordò.