Il mondo è rotondo/XXV
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Capitolo XXV.
Atrepsia.
Ma l’ora era tarda, e l’illustre fisiologo si accomiatò.
Anche il giovane medico uscì dal caffè, e Beatus si accompagnò con lui.
C’era lì, sul corso, una fila ferma di carrozzelle. Beatus lasciò passare la prima, la seconda, la terza.
«Via, non fare sciocchezze,» gli disse il campanelluzzo.
Ma quando fu all’ultima carrozza, Beatus disse:
— Dottore, le dispiace venire a casa mia? C’è un bambino che sta poco bene.
Il suono della sua voce che proferì queste parole, lo sorprese.
Anche il dottore mostrò sorpresa di queste parole, tanto che si fermò in mezzo alla via.
Avrebbe dovuto domandare: «Ma quale bambino? Lei è solo in casa». Invece nulla domandò, ma disse semplicemente: — Andiamo.
Anche questa semplice risposta sorprese Beatus, perchè il dottore avrebbe dovuto domandare: «Ma quale bambino se lei non ha figli?»
Quando la carrozzella si mosse, il dottore non parlò.
E Beatus nemmeno.
Voleva parlare, ma non avea di che parlare. Poi disse:
— Ah, una bella intelligenza, l’illustre fisiologo.
— Sì, una bella intelligenza. Ancora giovane, farà molta strada.
Ma il discorso non procedeva oltre.
Beatus avrebbe voluto spezzare quel silenzio, ma non ci riusciva. Anche quelle parole farà molta strada gli sbarravano il discorso.
«Quale strada fanno gli uomini? Tutti fanno la stessa strada».
Ma quando la carrozzella lasciò l’acciottolato della città, e le ruote corsero più lievi e senza rumore per un viale (e le lampade della città erano scomparse), sentì da quella parte dove nella penombra stava seduto il dottore, venire queste parole tranquille:
— Il bimbo che sta male è suo figlio, è vero?
Beatus balzò.
— Eh? Mio figlio? Ma io non ho figli.
— Io glielo ho chiesto semplicemente come amico, badi bene: non come professionista.
— Ma la domanda che lei mi fa — disse Beatus — è una supposizione, oppure....?
— Me ne sarei ben guardato. Io le ho domandato quello che ho inteso dire. Credevo che lei lo sapesse.
— Io? Ma io non so nulla, io sono assente da un mese. Ma che devo io sapere? Ma che si dice?
— Si calmi, si calmi, — disse il dottore. — Lei dice che non è suo figlio, e tutto è finito.
— Ma lei, lei da chi e dove ha inteso?
— Voci che ho inteso dire al caffè. Quello è il luogo dove arrivano tutti i chiacchiericci della città, ed è arrivato anche il suo.
— Ma in sostanza, che cosa?
— La cosa più semplice di questo mondo: che la sua serva fu resa incinta....
— Da me?
Beatus mandò tale voce che il buon dottore ne fu sinceramente commosso.
— Ah, la indegna calunnia! — esclamò Beatus e raccontò.
Come ebbe finito il racconto, il dottore disse:
— Lei però, facendo sgravare in casa la donna, ha fornito tutto il materiale della verosimiglianza....
Il dottore parlava con tranquilla parola; ma in Beatus l’eccitazione diveniva anormale.
— Io educatore, io maestro..., io fare queste cose.... — diceva. — Perchè lei capisce che se anche non fosse, io sono obbligato a essere uomo morale.
— Sì, ma ai tempi che corrono non ci si bada più. E poi se ne parlava la scorsa settimana; ora è cosa già passata.
— Come fare a smentire?...
— Lei non smentisce nulla; dopo tutto l’aver reso incinta una bella servotta non le fa disonore.
Ma fu a questa parola del dottore che Beatus si ricordò delle esclamazioni di scherno udite al caffè. Scolastica, la orrenda Scolastica! E Beatus vide l’orrendo grottesco cadere su di lui. E subito vide anche l’autore della calunnia: il suo segretario che egli aveva obbligato, quel giorno, a dichiararsi vile.
Beatus non parlò più.
Vedeva il bel segretario andare in giro e dire: «Signori, signorine, sapete? L’educatore, il moralista, l’uomo esemplare, ha ingravidato la serva. Questo è niente, e non meriterebbe di richiamare l’attenzione. Ma se volete vedere il coraggio mandrillinesco dell’illustre Beatus Renatus, andate a casa sua, e potrete ammirare la complice necessaria del misfatto.»
— Signora Alice, signora Alice — disse Beatus quando la signora Alice venne ad aprire, — durante la mia assenza è qui venuto qualcuno?
— Sì — disse la signora Alice un po’ stupefatta —, il suo segretario.
— E dopo?
— Dopo?
— Dopo, sì, dopo, chi è venuto?
— Io non c’ero; c’era qui la Elenuccia. Ma lei cos’ha?
E chiamò la bimba.
— Ah, sì — disse tranquillamente la bimba, — sono venute delle signorine.
— Studentesse?
— Non so. Tutte coi ricciolini, i cappellini. Volevano vedere il pupo; volevano sapere come stava il pupo.
— E poi....
— Una ha portato i confetti per Scolastica....
— Le hai intese ridere?
— Le signorine ridono sempre.
Beatus chinò la fronte.
— Questo bimbo? — domandò il dottore che assisteva allo strano dialogo.
Andarono di là.
La signora Alice tolse il lume e lo accostò al letto.
Il dottore scoprì e poi senz’altro ricoprì.
— È il pitecantropo, — disse Beatus.
Il dottore disse:
— Così infatti appare l’uomo quando ha divorato se stesso. La scienza ha trovato uno di quei nomi nuovi di cui lei parlava poco fa al caffè: atrepsia.
Scolastica, posata a lato del letto, scoprì la faccia ebete e guardò le parole del dottore.
— Quella è la madre? — domandò il dottore.
— El me putelo, — disse quella voce.
Il dottore se ne andò, e Beatus lo accompagnò alla carrozza.
Beatus ritornò su lentamente.
Entrò nella stanza.
Egli era appoggiato alla bella spalliera del suo bel letto, davanti al pitecantropo. Quel suo spasimo si era come acquetato davanti al pitecantropo.
Contemplava.
Gli parve di essere proceduto avanti degli altri uomini, e di essere arrivato in vista di un oceano. E qui conviene sostare.
Le voci degli uomini gli parvero come un pispiglio lontano, lontano. Le parole di scherno che si erano posate su lui, ora si sollevavano lontane. Anzi gli parve cosa bella e onorevole essere schernito. E proferì queste strane parole:
«Io con io, cioè io con qualcuno che non sono io.»
Lo riscosse la voce della signora Alice che disse:
— È passato in questo momento.
— Ha visto passare qualche cosa, signora Alice?
— E che deve passare?
Lui voleva dire, quel soffio, quel vento, l’anima. Ricordava i pappi del giardino, che si staccano per vento insensibile ai nostri sensi.
Lei voleva semplicemente dire: «è morto in questo momento».
La signora Alice, seduta nel circolo della luce della lampada a petrolio, cuciva tranquillamente una cosa bianca.
— Lei lavora sempre, signora Alice, — disse Beatus.
— Sto facendo una camicina per quel poverino.
— Lei è lirica, signora Alice, — disse Beatus — perchè creda, mia buona signora, la bontà è una lirica, una forma intuitiva di lirica. La sola grande lirica!
— Avete tutti parole che non si capiscono, — disse la signora Alice. — Anche quel dottore ha detto una certa parola....
— Atrepsia, ha detto, signora. Oh! una parola molto seria: mancanza di nutrimento. È morto per mancanza di nutrimento. Ma tutti noi, tutti noi, moriamo per mancanza di nutrimento.
«Sì, sì, lo so, signori, — disse Beatus quando fu solo nel suo studio, guardando i benefattori dell’umanità che pendevano dalla parete, — lo so: tutte queste sono imagini mistiche che si formano nelle cellule della corteccia del cervello sotto determinate condizioni; ma non sono meno vere delle altre imagini; ed è, se così è, quanto di meglio noi possediamo, signori.»
fine.