Il mio delitto/XV
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XV.
Quando mi svegliai la mattina appresso mi parve d’esser stata vittima d’un sogno opprimente; ma mi richiamò alla realtà della vita una lettera di Ruggeri, nella quale mi chiedeva umilmente perdono d’un momento d’obblio.
Dunque non era stato un sogno: anche lui come tutti gli altri! e intanto per me un altro ideale crollato. Gettai nel cestino la lettera, non sentendomi la voglia di rispondere in quel momento. Mi sentivo troppo affranta. Gli avvenimenti del giorno prima mi apparvero in tutta la loro luce, mi sentivo infelice, abbandonata, non credevo più a nulla.
Nella vita m’ero formata due ideali, che mi facevano sembrare meno dolorosa l’esistenza, e li vedevo crollare tutti e due ad un tratto precipitosamente. Avevo creduto nell’amore e nell’amicizia e pensavo che se uno di questi sentimenti m’avesse tradita; avrei trovato nell’altro speranza e conforto: ed ecco che mi abbandonavano tutt’e due contemporaneamente.
Mio marito mi tradiva, ne ero certa, il suo tradimento lo sentivo nell’aria, negli sguardi degli amici e perfino nel contegno dei domestici, ma più di tutto nella sua indifferenza per me. Avevo creduto nell’amicizia ed ora comprendevo chiaramente che una donna giovane non può aver degli amici, le altre donne diventano in breve delle rivali, e gli uomini degli amanti; in quel momento ne conoscevo per prova tutta la terribile verità. Che cosa potevo fare, sola, senza un cuore fidato a cui chiedere consiglio e conforto?
Come sarei stata felice di non poter pensare a nulla, e come invidiavo quelli che scacciano i tristi pensieri e sopportano con indifferenza le più crudeli delusioni!
Come invidiavo in quel momento gli egoisti, quelli che pensano che la vita è breve e non val la pena di crucciarsi troppo! Come avrei voluto imitarli! ma non si può comandare al proprio carattere, non si può frenare la propria fantasia e la mia correva, correva senza concluder nulla.
Il peggio si è che tutt’intorno a me aumentava il mio dolore; e neppur la mia figlia Margherita avea virtù di cambiare un tal ambiente: la sua vocina che una volta mi andava dritta al cuore, non mi commoveva più; mi faceva delle domande alle quali rispondevo a sproposito.
Anche lei era infelice, poverina! Da qualche giorno non veniva più Alberto a giocare con lei, e mi andava dicendo colla sua vocina e colle lagrime agli occhi: — Senti, mamma, se Alberto non viene e tu non mi dai retta, mi annoio e faccio dei capricci; ma io non le badavo, nessuna cosa avea il potere di togliermi ai miei tristi pensieri, alle divagazioni della mia fantasia.
Quella vita non poteva continuare, avevo bisogno di far qualche cosa; e visto che la gioia e la felicità m’avevano abbandonata, volevo immergermi tutta nel mio dolore, e colla simulazione scoprire tutt’intero il tradimento di mio marito, e poi vendicarmi in un modo o nell’altro.
Ero risoluta di tentare qualunque mezzo per giungere al mio intento; non avevo, è vero, delle idee chiare nè un piano prestabilito, ma mi sarei lasciata governare dagli avvenimenti; ero divenuta fatalista. Non avendo più amici, non mi confidavo a nessuno ed ero sola a sopportare tutto il peso del mio dolore. I mici conoscenti quando mi vedevano cupa e distratta mi chiedevano che cosa avessi.
— Sono i nervi — rispondevo; e continuavo la mia vita calma in apparenza, ma agitata, tempestosa nelle intime fibre dell’anima mia.
Prima di tutto volevo conoscer la mia rivale; dovea esser molto astuta se sapea nascondersi così bene che nessuno avea osato pronunciare un nome. Ma ci sarebbe caduta nelle mie mani; allora mi sarei vendicata e le avrei inflitto una parte almeno delle mie sofferenze.
È certo che non avrei perdonato; ammiro quelle che in simili casi perdonano, ma non mi sentivo d’imitarle.
Amata, sarei stata buona, dolce, paziente, come la mia mamma; tradita, mi sentivo fiera, terribile come mio padre in certi momenti.
Nella solitudine delle lunghe serate, che ormai passavo sola nel mio salottino, inventavo mille modi di vendetta, ai quali rinunciavo vedendo la impossibilità di effettuarli.
Ora speravo che la mia rivale avesse un marito e mi proponevo di rivelargli la sua infedeltà in modo che mi potesse vendicare; qualche altra volta sognavo di sorprenderla insieme con Manfredi e di fare uno scandalo. Ma chi era poi questa mia rivale? Forse una che si diceva mia amica? Le passavo tutte in rivista senza potermi fermare su alcuna, ma abbracciandole tutte nel mio disprezzo all’idea che colei che mi tradiva fosse nel loro numero.
Volevo sapere, saper tutto fino alla fine; ormai la mia curiosità era irresistibile; volevo far chinare il capo a quella che mi avea rubato l’amore di mio marito, la mia felicità.
Avevo saputo il luogo dove si trovavano, e per molti giorni ho girato intorno a quella casa, come una pazza, senza scoprir nulla. Era un fabbricato immenso a molti piani, dove in ogni appartamento abitava una quantità d’inquilini d’ogni specie. Una di quelle case dove, nelle grandi città, si trova la sarta accanto all’artista, l’operaia vicino al negoziante, una specie di Babilonia dove si va e, si viene passando inosservati.
Dirimpetto scopersi un’offelleria, e pensai di farne il mio posto d’osservazione. Appena mio marito usciva di casa andavo in quel posto, mi sedevo presso l’invetriata e tranquillamente, mangiando pasticcini, stavo cogli occhi fissi alla casa dirimpetto.
La signora Angiolina padrona dell’offelleria dovea esser contenta della mia assiduità al suo negozio e del consumo di paste ch’io facevo continuamente.
Ero già una vecchia conoscenza per lei e mi accoglieva sempre col grazioso dei suoi sorrisi e fra un avventore e l’altro mi faceva dei racconti più o meno interessanti ch’io ascoltavo molto distrattamente, immersa com’ero nei miei pensieri e in osservare la gente che passava per via.
Avrà creduto che fossi una signora molto golosa, oppure che avessi una preferenza speciale per i suoi pasticcini, ma è certo che era contenta di vedere il suo negozio tanto apprezzato da una signora elegante, e non sapeva come mostrarmi la sua gratitudine.
Per molti giorni mi riempii lo stomaco di pasticcini o ascoltai inutilmente le chiacchiere della signora Angiolina, che mi confidava i suoi dispiaceri domestici e mi narrava di un suo figliuolo che non avea voglia di studiare. A furia di osservare la casa di faccia avevo imparato a memoria tutte le ditte commerciali di quel tratto di contrada, ma nulla che fermasse la mia attenzione e confermasse i miei sospetti.
Un giorno però, mentre osservavo per la centesima volta la ditta della signora Rosa Labbè guantaia che occupava tutto il balcone centrale della casa che non perdevo mai di vista, vidi fermarsi appunto la mia carrozza davanti alla porta, e scendere proprio lui mio marito, ed entrare con passo affrettato dopo aver fatto cenno alla carrozza d’andarsene.
Mi sentii venir le fiamme alla faccia. il cuore mi batteva forte forte. Certe cose per quanto aspettate non mancano mai di fare un certo effetto.
— Si sente male? — mi chiese la signora Angiolina.
— No, — risposi, — non è nulla, é passato.
Volle ad ogni costo versarmi un bicchierino di menta glaciale dicendo: — Prenda, le farà bene, forse avrà preso un po’ di freddo; è una giornata tanto umida!
Infatti il cielo era grigio e cominciava a scendere un’acquerugiola che penetrava nelle ossa.
Io non staccavo gli occhi dalla porta della casa dirimpetto osservando attentamente quelli che entravano ed uscivano.
Era un viavai di gente in quella casa da non potersi raccapezzare.
Entravano molte signore, ma nessuna avea l’apparenza di qualche cosa di sospetto.
Io pensavo: — No, il mio cuore mi dice che non è quella.
Dopo qualche minuto, che mi parve eterno, si fermò là davanti una carrozza di piazza; mi pare ancora di vederla, dipinta in verde cupo, col cavallo grigio, magro, segnata col numero 24.
Lo sportello s’aperse in fretta e ne scese una signora alta, snella, elegante, vestita di lana color turchino con un velo fitto intorno alla faccia, tanto che era impossibile vedere la sua fisonomia. Il mio cuore ebbe un sussulto e parve che mi dicesse:
— È lei.
La mia faccia dovette apparire quasi sconvolta, perché la signora Angiolina mi disse:
— Ma deve sentirsi proprio male; vuole che le mandi a prendere una carrozza?
— No, non è nulla, — diss’io; è il liquore che m’è andato alla testa. Se non vi dispiace, resterò qui tranquilla a riposarmi.
— Faccia il suo comodo, signora, e se crede di prendere qualche cosa....
— No, grazie, non ho bisogno di nulla.
Così, cogli occhi socchiusi, in quell’angolo nascosto accanto all’invetriata stetti non so quanto tempo col cuore che pareva dovesse scoppiarmi, poi mi parve vedere, come in un sogno, il vestito turchino uscire a piedi dal portone della casa dirimpetto e dirigersi verso la piazza del Duomo, e poco dopo mio marito colla sua aria tranquilla dirigersi verso la stessa parte.
Io rimasi ancora un po’ di tempo quasi inchiodata al mio posto, poi feci uno sforzo, mi alzai e dissi:
— Ora posso andarmene, mi sento meglio, — e uscii in mezzo alla strada fangosa colla pioggia che cadeva più forte, senza ombrello, non badando a quell’umidità che m’avvolgeva tutta nella tristezza di quella giornata uggiosa.
Avevo bisogno di muovermi per calmare i miei nervi in sussulto.
Quando giunsi a casa mi ritirai nella mia camera e non mi feci vedere col pretesto della mia emicrania; non avrei potuto sopportare la presenza di mio marito senza fargli una scena violenta; del resto egli si sarà facilmente consolato della mia mancanza pensando alle emozioni della giornata. Quando lo vidi il giorno appresso chiedermi tutto affettuoso notizie della mia salute, quasi credevo d’aver sognato e d’aver avuto le traveggole; tanto pareva impossibile al mio carattere franco e sincero una simile finzione.
Ma ritornai al mio posto d’osservazione: ormai era un’abitudine; uscivo di casa e mi trovavo quasi senza saperlo davanti all’offelleria della signora Angiolina, la quale, se mancavo un giorno, era inquieta e temeva che fossi ammalata. Ritornai a contare i barattoli dei dolci, le insegne delle botteghe. Rividi parecchie volte mio marito entrare come nulla fosse nella casa dirimpetto, e la signora incognita, sulla quale ormai non avevo più alcun dubbio, — la riconoscevo alla figura snella e slanciata, quantunque non avessi mai potuto vederla in faccia, — entrare anche lei, venire ora in carrozza ora a piedi, ora vestita color turchino, ora color verde cupo, ora di nero ma sempre con un velo fitto sul volto e impelliciata in modo da non potersi riconoscere.
Fremo e piango ancora pensando a tutto quello che ho sofferto in quel periodo di tempo; era come se avessi continuato a cacciare un pugnale in una sanguinosa ferita.
Il tradimento di mio marito era la mia idea fissa e credo che se non avessi preso una risoluzione sarei divenuta pazza.
Non v’era nulla che potesse distrarmi o distogliermi dai miei pensieri; anche Ruggeri mi mancava nella mia triste solitudine. Quasi mi pentivo di non essere stata più indulgente con lui, forse avrebbe potuto darmi un consiglio in quel frangente, ma che cosa poteva fare una povera donna sola senza una guida o un conforto?
Stavo tutto il giorno arrovellandomi il cervello, pensando chi potesse essere quella signora che sapeva conservare tanto bene l’incognito! Eppure quella signora alta e slanciata, quei movimenti, quel modo di camminare non mi riuscivano nuovi, ma ero incerta a darle un nome.
Speravo che la mia insistenza avrebbe vinto e sarei riuscita a scoprirla, ma doveva aver un’abilità speciale, perchè passavano i giorni, gli appuntamenti si moltiplicavano, ma per me era sempre come il primo giorno.
No, c’era una piccola differenza ora, da certi piccoli indizi ero riuscita a scoprire il giorno che si trovavano, l’ora poi, era sempre dopo la colazione.
In quei giorni egli era più ilare, più elegante, più ciarliero. Mi faceva tanta rabbia che non so come avessi la forza di trattenermi e non dirgli che sapevo tutto.
Tacevo perché la mia vendetta fosse più clamorosa.
Ormai la mia idea fissa era di scoprirli insieme e ucciderli.
Per molti giorni, invece di recarmi all’offelleria, andai direttamente nella casa dirimpetto coll’intenzione d’interrogare la portinaia.
Le portinaie hanno fama di essere molto ciarliere, ma nel mio caso mi pareva una fama usurpata; non ci fu verso di farla parlare.
Era proprio discreta quella portinaia, aveva da occuparsi dei suoi bimbi e non poteva badare a tutti quelli che passavano; poi c’erano tante signore che andavano dalla guantaia del secondo piano, dalla sarta del terzo e lei non poteva conoscer tutti.
— E ci sono anche stanze che affittano ammobigliate? — chiesi un giorno.
— Sì, è vero, — mi rispose, — ma cambiano tanto spesso inquilini in quelle stanze che non so nemmeno chi ci sia.
— Come! non conoscete tutti gli abitanti della casa?
— Di una casa come questa? Ci vuol altro.
E non c’era verso di ricavarne di più.
Cominciai a frequentare anch’io quella casa, andai dalla guantaia e dalla sarta con qualche pretesto, mi fermavo ad accarezzare i bimbi della portinaia e tutto per incontrarmi faccia a faccia colla signora misteriosa. Ma che cosa avrei fatto? Non lo sapevo nemmen io; e certo che quella vita non la potevo continuare, soffrivo troppo e moralmente e fisicamente, sentivo che non avrei potuto più reggermi in piedi, anche quella forza tutta dipendente dai nervi mi avrebbe abbandonata.
Era una bella giornata luminosa piena di sole; mio marito era allegro, felice tanto che riempiva della sua allegria tutta la casa e non badava a me, come se non esistessi.
Egli dovea andare a vederla, lo capivo al lampo dei suoi occhi, all’allegria che gli usciva da tutta la persona.
Quel giorno gli avevo detto, se io fossi certa che tu mi tradisci, ti ammazzerei.
Egli s’era burlato di me e della mia aria tragica.
Ero irritata. Risoluta di vendicarmi, la mia idea era di sorprenderlo colla mia rivale e ucciderli ambedue.
Presi la rivoltella che teneva sempre nel mio tavolino.
Era un ricordo di mio padre e la riguardavo sempre come una cosa che mi avrebbe potuto rendere dei grandi servigi; in ogni modo era per me un’arma di sicurezza.
Appena uscito mio marito corsi al mio solito posto d’osservazione, mangiavo il terzo pasticcino, quando lo vidi venire da lontano ed entrare nella solita casa.
Più tardi vi entrò la solita figura snella, ma questa volta vestita di color verde-bottiglia. Ormai non potevo sbagliarmi, era lei, l’avrei conosciuta fra mille al portamento altero, al modo di camminare e ad uno sguardo sospettoso che dava sempre in giro.
S’ha un bell’essere sfacciati e disinvolti, s’ha un bell’aver l’abitudine a certe cose, vi sono dei movimenti istintivi ai quali non si può comandare. Uscii subito e attraversai la strada.
— Dov’è andata quella signora che è entrata cinque minuti fa? — chiesi alla portinaia.
— Non so, forse dalla sarta.
Le avrei dato degli schiaffi.
Salii anch’io le scale e andai fino al quinto piano, c’erano tanti usci che non potevo indovinare qual fosse quello che s’era richiuso sui passi della mia rivale.
Discesi e risalii ancora in preda ad una forte agitazione.
Entrai dalla guantaia per comperarmi dei guanti tanto per passare il tempo. I minuti mi parevano eterni, mi fermavo sui pianerottoli a spiare gli usci che si aprivano e si richiudevano, pensai di coglierli tutti e due sul limitare di qualche uscio, mentre forse egli l’avrebbe accompagnata.
Ma non potei restare a lungo in quel posto, la gente che passava continuamente, mi osservava come se fossi stata una bestia feroce.
Scesi in portineria e per darmi un contegno incominciai a chiacchierare coi bambini della portinaia, diedi loro dei dolci, mentre tendevo l’orecchio perchè non mi sfuggissero i rumori che venivano dalla scala.
Finalmente sentii un uscio richiudersi adagio, e poi un fruscio di vesti che scendevano le scale. Doveva esser lei, perché il cuore mi batteva forte forte.
Infatti non m’ingannai, era il vestito verde-bottiglia. Mi nascosi nell’andito quasi buio che precedeva di poco lo stanzino della portinaia, avevo un tremito in tutta la persona e mi pareva che il cuore mi saltasse in gola e mi soffocasse; poi parve che il vestito verde mi sfuggisse ancora una volta. Perdetti il lume degli occhi e in quel momento ero come spinta da una forza sovrumana, non mi comandavo più. Tirai fuori dal manicotto la rivoltella e feci scattare il grilletto.
Rimbombò un colpo, accompagnato da un lampo e un po’ di fumo, s’intese un grido, uno sbattere d’usci, un accorrer di gente. Avevo mirato bene; quella signora barcollò e disse agli accorsi a sorreggerla: — A casa, e diede un indirizzo coprendosi quasi istintivamente con un fazzoletto la faccia sanguinosa.
Ma i suoi movimenti non furono abbastanza rapidi, e attraverso il velo tutto lacero potei distinguere il viso d’una persona che non avrei mai supposto, la baronessa di Sanvitale, quella che era da tutti riguardata come un modello di virtù.
Intanto fui circondata dalla folla che imprecava contro di me e mi soffocava. Vennero due guardie e fecero per trascinarmi, ma ripresi la mia presenza di spirito e dissi:
— Non c’è bisogno di farmi violenza, verrò io stessa alla questura a giustificarmi, lasciate almeno avvicinare una carrozza e mandate via tutti questi curiosi.
Così fui condotta alla questura; però non sentivo nè rimorso, nè pentimento, bensì una specie di sollievo d’essermi vendicata, mentre colla mente fantasticavo sulla scoperta che avevo fatta.
Dunque era la baronessa di Sanvitale! Se non l’avessi veduta coi miei occhi non l’avrei creduto: era dunque lei, quella donna che si diceva mia amica, che passava per una santa e che nessuno avrebbe preso in sospetto! Quando mi ricordavo i discorsi fatti con lei, i consigli saggi che mi dava, l’odio che mostrava per tutti i tradimenti, per tutte le colpe, mi sentivo scoppiar dalla rabbia, e provavo quel ribrezzo che si ha all’idea d’aver accarezzato un serpe velenoso.
Era morta? Ferita? Non ne sapevo nulla.
Avrei avuto piacere che non fosse morta, non per compassione di lei ma perché soffrisse a lungo come io avevo sofferto e perchè sopportasse tutta la pena del suo tradimento e fosse smascherata la sua ipocrisia.
Quando fui alla presenza del magistrato che m’interrogò piuttosto severamente, non nascosi nulla, fui sincera, confessai il mio delitto e la causa che mi ci avea spinta.
Forse in quel momento non avrò avuto abbastanza calma; la mia mente era forse esaltata e confusa per la scoperta che avevo fatta. Avrò imprecato un po’ troppo contro la donna che m’avea rubato l’affetto di mio marito e la felicità di tutta la mia vita. So che mi licenziò dicendomi, calmatevi; domani v’interrogherò nuovamente e spero che mi risponderete con maggior calma.