Il marito di Elena/VIII
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VIII.
— E tuo marito?
— Sta bene. Un po’ musone, come al solito, ma di salute sta bene.
Elena col cappellino in testa, e il libricciuolo da messa in mano, andava ogni domenica a far visita alla mamma, seduta sul canapè, senza levare la veletta, elegante persino se metteva un vestito di percallo, diceva Donn’Anna; e il vestito di Elena era di seta nera, tutto ricami e fronzoli di conterie che le pesavano sul corpicino delicato, e glielo modellavano artisticamente. Donn’Anna, cogli occhiali sul naso, palpava il tessuto fitto, il ricco ricamo, con un accennare soddisfatto del capo, e soggiungeva: — E le cose tue? vanno benone, lo vedo. Tuo marito ha degli affari!
— Così. Non molti.... Sai bene.... In principio....
— Non fa nulla. Tuo padre dice che in quel ragazzo c’è della stoffa buona.... Intanto non ti lascia mancar niente. Vorrei vedere tua sorella accasata come te. Quel benedetto Ospizio è sempre ad un punto. E’ li trattano come cani quei trovatelli! Roberto dice sempre che a gennaio gli impiegati avranno l’avanzamento non so di quanto, ma è sei anni che lo dice.
Camilla, col libro da messa in mano anche lei, aggiunse:
— Duemila e cinquento lire.
— Due mila e cinquecento lire! ripetè donn’Anna. Tuo marito li guadagna in un mese, scommetto. Tu stai come una regina. Teatri, conversazioni, ricevimenti. Non ti manca nulla, figlia mia, che Dio ti benedica.
— Non vado quasi più, mamma. Esco di rado. Mio marito preferisce stare in casa.
— Ah! che idee gli vengono in capo a quel benedetto uomo. Cosa ci state a fare in casa? la muffa? A cosa ti servirà in casa l’educazione che ti ho fatto dare? e mi è costata un’occhio! Dimmi la verità. Tuo marito comincia a diventare geloso?
— No, mamma. Non ho detto questo.
— Non ci badare. Tutti i mariti sono così. Tanti turchi addirittura. Anche tuo padre, se ci avessi badato.... Loro a divertirsi di qua e di là; ma la povera moglie tappata in casa. Vedi, lo stesso Roberto, che non può stare un momento lontano da tua sorella, quando sarà suo marito....
Si udì una scampanellata, e arrivò Roberto in persona, con un mazzolino da un soldo, che si tolse dall’occhiello del vestito per aumentarne il valore. Ma vedendo le due sorelle lì presenti non sapeva come dividerlo.
— Tocca a lei, disse Elena con una smorfietta. Io son maritata.
— Parlavamo appunto di ciò, aggiunse donn’Anna. Che voi altri uomini siete tutti premurosi prima del matrimonio, e dopo correte di qua e di là, Dio sa dove. Anche Don Liborio, vedete, il quale non ha nulla da fare, non si vede più. in casa.
— Viene tutti i giorni a trovar Cesare, rispose Elena.
Don Liborio andava dal genero ogni mattina, pettoruto, facendo risuonare la mazza sugli scalini di marmo. S’istallava nello studio, colla fronte tra le mani, scartabellando libracci, pigliando delle note, parlando di scrivere un trattato che sarebbe bastato da solo a spalancargli le porte della fama. I clienti verranno in seguito, — aggiungeva. I clienti sono come le pecore.
E si sdraiava nel seggiolone per sviluppare la sua idea, stuzzicandola con grosse prese di tabacco. Andava dicendo dappertutto:
— Mio genero, l’avvocato, sta scrivendo un trattato di polso, che farà rumore.
Donn’Anna invece predicava che bisognava darsi le mani attorno per acchiappare dei clienti, che stando rinchiuso nello studio non si accorgevano di lui, e gli lasciavano far la muffa. Dov’erano andati i sogni da ragazza dell’Elena? i castelli in aria fatti al chiaro di luna sul terrazzino, cogli occhi fissi alla finestruola dello studente, nei lunghi silenzi riboccanti di echi di un mondo sconosciuto, allorchè l’amante le sedeva accanto nel salottino di via Foria? Ora vedeva ritornare a casa suo marito stanco e disanimato. Egli le rispondeva col sorriso triste. Aveva il povero orgoglio mascolino di nasconderle le sue angoscie e di risparmiarle delle pene alle quali ella non poteva arrecare alcun rimedio. A lei invece la preoccupazione concentrata di lui sembrava egoistica; l’irritava alle volte contro di lui; le pareva della rassegnazione fiacca. E mentre stavano zitti l’uno di fianco all’altra, gli volgeva alla sfuggita degli sguardi singolari, gli diceva;
— Ci devono essere tante vie aperte per un uomo....
Oppure:
— Se fossi in te mi par che troverei....
I giorni che scorrevano uniformi! Ogni mattina Cesare come apriva il balcone, e si vedeva dinanzi il mare azzurro e scintillante di sole, sentiva rinascere in cuore una vaga speranza, qualcosa che gli faceva baciare come un buon augurio i capelli di Elena disciolti sul guanciale, o la manica della sua veste da camera bianca nella quale ella cominciava ad aggirarsi per le stanzine ridenti, fresca e rosea. Subiva delle strane superstizioni. Aveva i suoi giorni fausti, dei segni che gli presagivano bene, se un bambino passava per la strada, se si udiva il fischio della ferrovia, se il vento spingeva al largo il fumo dei piroscafi dentro al molo. Recitava mentalmente, e a mani giunte, una corta preghiera dinanzi al ritratto della madre che aveva inchiodato sulla parete di faccia alla scrivania, e sull’uscio, di nascosto, prima di uscire, si faceva la croce, come faceva lo zio canonico, mentre Elena andava a mettersi al balcone e pareva che volesse accompagnarlo cogli occhi più che poteva. — Per lei! mormorava Cesare fervidamente. Purchè Elena non manchi di nulla! Purchè non soffra di tali angustie! — Si fermava sulla porta per udire il suono del pianoforte di lei. La salutava colla mano dalla strada, mentre ella gli sorrideva dal balcone, discinta, languida e abbandonata sulla ringhiera, nella fresca brezza mattutina. E incontrando Cataldi che ronzava lì attorno, provando dei cavalli imbarcandosi in una lancia sottile ed elegante passeggiando lentamente col sigaro in bocca e la mazzettina sotto l’ascella, Cesare pensava tristamente fra sè stesso:
— Ahi perchè non sono come costui!
I procuratori ai quali andava a raccomandarsi lo facevano aspettare in un’anticamera piena di gente. L’ascoltavano appena, in piedi, distratti, facendo segno a qualcun altro che erano subito da lui, cercando fra le cartacce della scrivania, gli promettevano che all’occorrenza si sarebbero ricordati di lui, e lo congedavano con una stretta di mano calorosa. Il suo antico maestro, un avvocato in voga sopraffatto dal lavoro in modo che doveva rifiutare dei clienti, gli aveva risposto francamente che aveva già nello studio due giovani senza beni di fortuna, che bisognava aiutare a spingere innanzi in tutti i modi. Egli aveva accolto l’antico alunno come un padre, gli parlava amichevolmente, e faceva aspettare una folla di gente per discorrere con lui, ma credeva che Cesare non fosse tanto bisognoso quanto i due giovani che proteggeva. Lo vedeva ben vestito, gli sapeva una moglie elegante. Cesare non ebbe il coraggio di disingannarlo, e tornò colle gambe ed il cuore rotti nello studiolo, dove il suocero si accaniva ad aiutarlo nel suo lavoro immaginario, sprofondato dietro un monte di libri e di opuscoli, così infatuato dalla sua idea che non si avvedeva dello scoraggiamento e della stanchezza che c’erano negli occhi fissi del genero, nel viso lungo, nelle braccia pendenti. Elena al sentirsi ripetere continuamente: — Nulla! nulla! — al veder sempre quella fisonomia scorata, sentiva mancarsi d’animo anche lei; l’insuccesso continuo l’indispettiva contro quell’uomo che non sapeva esser forte, che non sapeva lottare, che non sapeva pigliare d’assalto la sua posizione, che cercava di dissimularle la stanchezza del viso, e la preoccupazione fissa dinanzi all’occhio. Stava ritta sull’uscio, ascoltando sbadatamente il cicaleccio vuoto del genitore, senza aprir bocca. O al più mormorava:
— Non capisco. Mi pare che se fossi un uomo saprei trovare!
Don Liborio affermava: — Tuo marito ha ingegno da vendere. Peccato che gli manchi la fibra!
Elena scrollava il capo.
Infine un procuratore legale, degli infimi, vero «strascina faccende», venne a proporgli un processo importante, diceva lui, una causa di prescrizione in cui erano in giuoco 200,000 lire. Il poveretto non badò che il leguleo unto e sciamannato gli parlava col cappello in capo; e dopo che l’ebbe accompagnato sino all’uscio, corse ad abbracciar l’Elena per darle la buona notizia, cogli occhi gonfi di lagrime e la voce tremante di gioia.
Elena non divideva quel giubilo sproporzionato, ma ne indovinava confusamente il motivo e si sentiva montare le fiamme al viso.
— Va! va! — ripeteva in preda a un’inesplicabile turbamento. — Lasciami sola un momento. Son fatta così. Son cattiva! son cattiva! Ma ti voglio tanto bene... Povero Cesare!
Però l’affare grosso del procuratore «strascina faccende» non fruttò nulla a Cesare, malgrado l’impegno col quale ci si mise. Il cliente fu condannato a rilasciare il fondo che voleva appropriarsi, e il procuratore, furibondo, per non dargli un soldo, andò predicando dappertutto che Dorello aveva rubata la laurea. I colleghi si scandolezzarono che egli avesse assunto la difesa di quel processo vergognoso e infruttifero. Un camerata dell’Università, ch’era andato ad esercitare la professione di notaio in provincia, gli mandò una cliente la quale aveva il marito accusato di grassazione, giurando che non poteva pagar più di 25 lire. Il presidente del tribunale gli assegnò qualche difesa officiosa al Correzionale, che lo faceva guardare in cagnesco dall’imputato, il quale si credeva condannato perchè era difeso gratis. Invano si arrabbattava nei bassi fondi e nelle anticamere della Giustizia, in mezzo a gente cenciosa e colla barba lunga, su e giù per le scale tappezzate di cartacce sudicie, nella folla dei causidici e dei litiganti ansiosi. — Quello è il tuo campo di battaglia! profferiva il suocero. Là trionferai!
Donn’Anna voleva sapere perchè il genero non rinunziava alla lusinga di far l’avvocato, e non cercava invece un impiego, come Roberto il quale aveva il suo soldo fisso, e se gli aumentavano lo stipendio avrebbe potuto ammogliarsi, senza altri fastidii. Don Liborio saltava in aria al sentir parlare d’impiego, diceva che era un avvilirsi, per un avvocato, il quale aveva la stoffa di ministro, lo stesso che diventare un rodicarte, un servitore del pubblico. Piuttosto avrebbe voluto fare del genero un deputato, un consigliere provinciale. Elena non apriva bocca in quelle discussioni di famiglia, ma si ribellava in cuor suo all’idea di presentarsi in un salone accompagnata da uno scribaccino di tribunale, o da un impiegatuccio dell’Agenzia delle tasse; si accasciava anche lei sul divano, colle braccia in croce sui ginocchi, cogli occhi fissi che splendevano di luce nera. Adesso non gli domandava più nulla. Lo aspettava sul terrazzino, lo vedeva venire a testa bassa, col cappello all’indietro, il vestito sbottonato, le scarpe polverose, strascinando i passi; andava ad aprirgli l’uscio, e tornavano a sedere sul balcone, senza dire una parola, colle braccia inerti, sino a tarda sera.
Ormai amava anch’essa la solitudine della via Piliero, il mormorìo del mare, il silenzio della notte stellata, tutte quelle cose che almeno la lasciavano fantasticare come voleva. Allora prestava l’orecchio al rumore di un passo noto, sotto le sue finestre, perseverante, che sembrava recarle l’omaggio di un cortigiano fedele nella sventura, e le rammentava il lusso in cui era vissuta, le feste splendide, l’ossequio universale alla sua bellezza.
La sua bellezza! cosa valeva? a che serviva adesso? A vedersi sempre fra i piedi un marito che non osava amarla, tanto era avvilito. A stare accanto a lui, la sera, nel buio del terrazzino, quando avrebbe voluto star sola, ad udir quel passo, a guardar quell’ombra che passeggiava là davanti la cancellata del molo. E la presenza del marito richiamava ruvidamente ad un guardingo esame di sè stesso il pensiero di lei, il quale scorazzava tra fantasie che non avrebbe confessato a sè stessa.
Dio solo può sapere quali idee passassero in mente a quel marito e a quella moglie, seduti tanto vicini sul medesimo balcone.