Il guarany/Parte Quarta/Capitolo V
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CAPITOLO V.
LA SALA D’ARMI.
Cecilia udendo la voce di suo padre trasalì, come se si fosse ridesta da un sogno.
Attraversò la sala con passo malfermo, e accostatasi a Pery fissò in lui i suoi vaghi occhi azzurri con un’espressione ineffabile.
Eravi in quello sguardo al tempo stesso l’immensa ammirazione cagionatale dall’azione eroica dell’Indiano; il dolor profondo che avea provato per la sua perdita, e un dolce rimprovero per non aver dato retta alle sue preghiere.
L’Indiano non ardiva alzar gli occhi in faccia alla sua signora; non avendo mandato a compimento il suo disegno, considerava adesso come una follìa quanto avea fatto.
Sentivasi reo; e di tutta la sua azione eroica o sublime per gli altri, solo rimaneagli l’affanno di aver offeso Cecilia e causatole inutilmente un dispiacere.
— Pery, disse la fanciulla mestamente, perchè non facesti quanto la tua signora ti chiedeva?...
L’Indiano non sapeva che rispondere; temeva di aver perduto l’affezione di Cecilia, e quell’idea gli amareggiava le ultime ore che gli restavano di vita.
— Cecilia non disse, continuò la fanciulla singhiozzando, che non accetterebbe la sua salvezza col sacrifizio della tua vita?
— Pery già ti chiese di perdonargli! mormorò l’Indiano.
— Oh! se sapessi quanto facesti oggi soffrire la tua signora!... Ma ella ti perdona.
— Ah!... sclamò Pery, la cui fisonomia irradiossi di contento.
— Sì!... Cecilia ti perdona quanto sofferse, e quanto ancor le avanza a soffrire! Ma sarà per poco...
La fanciulla dicea queste parole con un triste sorrìso di sublime rassegnazione; conosceva che non v’era più speranza di salvezza, e quest’idea quasi la consolava.
Non potè terminare; la parola le rimase come impedita sulle labbra, tremola, convulsa; i suoi occhi si fissarono in Pery con un sentimento di terrore e di spavento.
La fisonomia dell’Indiano si era scomposta; i suoi nobili lineamenti alterati da violente contrazioni, le occhiaie incavate, i labbri violacei, i denti che scricchiolavano, i capelli ritti davangli un aspetto spaventevole.
— Il veleno!... gridarono pieni d’orrore gli spettatori di quella scena.
Cecilia fece uno sforzo straordinario, e lanciandosi verso l’Indiano procurò di ravvivarlo.
— Pery!... Pery!... balbettava la fanciulla scaldando fra le sue le mani gelate dell’amico.
— Pery sta per lasciarti per sempre, signora.
— No!... No!... sclamò la fanciulla fuori di sè. Non voglio che tu ci lasci!... Oh! tu sei cattivo! ben cattivo!... Se stimassi la tua signora, non l’abbandoneresti così!...
Le lagrime irroravano le guancie della fanciulla, che nella sua disperazione non sapeva che si dicesse. Erano parole interrotte, senza costrutto; ma che rivelavano la sua angoscia.
— Vuoi che Pery viva? disse l’Indiano con voce commossa.
— Sì!... rispose la fanciulla supplichevolmente. Voglio che tu viva.
— Pery vivrà!
L’Indiano fece uno sforzo supremo, e ridonando un po’ di elasticità alle sue membra intorpidite, lanciossi fuori della porta e disparve.
Tutte le persone presenti lo accompagnarono cogli occhi, e lo videro scendere nella valle e correndo guadagnar la foresta.
L’ultima parola proferita da lui avea per un momento restituita la speranza a don Antonio de Mariz; ma quasi subito il dubbio lo invase, e giudicò che l’Indiano si faceva illusione.
Cecilia però nutrivasi ben più che di speranza; avea quasi la certezza che Pery non s’ingannerebbe; la promessa del suo amico le inspirava somma fiducia.
Giammai Pery aveale detto cosa che non si fosse avverata; ciò che pareva impossibile agli altri, rendeasi agevole alla sua volontà ferma e irrevocabile, al potere sovrumano di cui lo rivestiva la forza e l’intelligenza.
Quando don Antonio de Mariz e la sua famiglia si furono riavuti da questa scena che tanto li avea impressionati, Alvaro, che stava sulla porta dell’armeria, fece un gesto di spavento al fidalgo, e accennò all’oratorio.
La parete in fondo, presta a piombare, oscillava sulla sua base, come un albero agitato dal vento.
Don Antonio sorrise; e ordinando alla sua famiglia di entrare nell’anticamera, trasse la pistola dalla cintola, l’armò e aspettò sulla porta a fianco di Alvaro.
Nel medesimo istante si sentì un gran fracasso, e dal seno di una densa nube di polvere, che si alzò da quel mucchio di rovine, sei uomini si precipitarono nella sala.
Loredano fu il primo: appena toccò il suolo, rizzossi con istraordinaria agilità, e seguito dai suoi compagni, avviossi diritto all’armeria, ove stava raccolta la famiglia.
Ma retrocessero lividi e tremebondi, compresi d’orrore all’aspetto della scena muta e terribile che s’appresentava ai loro sguardi.
Nel mezzo della stanza vedeasi uno di quei grandi vasi vetrificati, opera degli Indiani, che conteneva poco meno di un quintale di polvere.
Da un’apertura che ci avea nel fondo del vase partiva un lungo canale, che andava a terminare nella polveriera, ove tutte si trovavano sepolte le munizioni da guerra del fidalgo.
Due pistole, quella di don Antonio e di Alvaro, non aspettavano che un moto degli avventurieri per gettare la prima favilla in quel vulcano.
Donna Lauriana, Cecilia e Isabella, inginocchiate, oravano immaginando di vedere ad ogni istante avvolti in un turbine tutti gli spettatori di quella scena.
Era questa l’arma terribile, di cui avea parlato poco prima don Antonio, allorchè disse ad Alvaro che Dio aveagli concesso il potere di fulminare tutti i suoi nemici.
Alvaro comprese allora la ragione, per cui il fidalgo avealo obbligato a partire con tutti gli uomini onde salvar Pery, dicendosi forte abbastanza per difendere da solo la propria famiglia.
Quanto agli avventurieri, rammentaronsi del giuro solenne di don Antonio de Mariz; il fidalgo tenea tutte le loro vite nella propria mano, e non gli occorreva che un semplice moto per ridurli in polvere come un vaso d’argilla.
Gettando uno sguardo attonito attorno di sè, i sei delinquenti vollero fuggire, ma non osarono far un passo, e rimasero come inchiodati nel medesimo luogo.
Si udi allora un rumor di voci dalla parte di fuori, e Ayres Gomes, accompagnato dagli avventurieri, appresentossi sulla porta della sala.
Loredano s’accorso che questa volta era perduto irreparabilmente, e risolse di vender cara la sua vita; ma una fatalità pesava sopra di lui.
Due de’ suoi compagni gli caddero ai piedi rattrappiti in convulsioni orribili, e mettendo ululati che facevano compassione.
A principio nessuno indovinava la causa di quella morte subitanea e violenta; ma il fatto del veleno di Pery si presentò tosto alla memoria di alcuni, e spiegò il tutto.
Gli avventurieri, arrivati con alla testa Ayres Gomes, s’impadronirono di Loredano, e confusi e pieni di vergogna vennero ad inginocchiarsi a’ piè di don Antonio de Mariz, chiedendogli perdono del loro fallo.
Il fidalgo avea assistito a tutti questi avvenimenti, che si succedettero con tanta rapidità, senza lasciare la sua prima posizione; sarebbesi detto che sopra tutte quelle passioni umane, che fervevano a’ suoi piedi, libravasi come un genio in atto di vibrare il fulmine celeste.
— Il vostro fallo è di quelli che non si perdonano; disse don Antonio; ma siamo in momenti tali, che Iddio comanda di dimenticare tutte le offese. Alzatevi, e apparecchiamoci tutti a morire da buoni cristiani.
Gli avventurieri si levarono in piedi, e trascinando Loredano fuori della sala ritiraronsi nella loro abitazione colla coscienza alleggerita da un gran peso.
La famiglia potè allora dopo tante emozioni godere un poco di tranquillità e di riposo; non ostante la disperata condizione in cui si trovavano, il ritorno all’obbedienza degli avventurieri in rivolta avea arrecato un debole barlume di speranza.
Solo don Antonio de Mariz non si illudeva, e fin da quella mattina si era accorto, che se gli Aimorè nol vincessero colle armi, lo vincerebbero colla fame.
Tutti i viveri erano consumati, e solo una sortita vigorosa potea salvare la famiglia da quel martirio che la minacciava; martirio assai più crudele di una morte violenta.
Il fidalgo risolse di esaurire tutti i mezzi prima di darsi per vinto; volea morire colla coscienza tranquilla di aver fatto il proprio dovere, e quanto era possibile ad un uomo.
Chiamò Alvaro e s’intrattenne con lui per alcun tempo a voce bassa; concertavano il mezzo di effettuare quel progetto, da cui dipendeva ogni speranza di salvezza.
In questo intervallo gli avventurieri riuniti in consiglio giudicavano frate Angelo, e lo condannavano ad unanimità.
Pronunciata la sentenza, sorsero varie opinioni intorno al supplizio da infliggersi al reo: ciascuno proponeva il genere di morte più crudele; ma l’opinione generale prescelse il fuoco, come il castigo consacrato dall’Inquisizione per punire gli eretici.
Piantarono nel mezzo dello spianato un gran palco, lo circondarono d’una grossa catasta di legna ed altri combustibili; dipoi sopra quella pira legarono il frate, che soffriva ogni maniera di insulti e di oltraggi senza proferire una parola.
Una specie di atonìa si era impossessata di Loredano fin dal momento che gli avventurieri lo trascinarono fuori della sala di don Antonio de Mariz; egli avea la coscienza del suo delitto e la certezza della sua condanna.
Frattanto, nell’atto che lo legavano su quel rogo, un accidente risvegliò d’improvviso la sensibilità di quel corpo abbrutito dall’idea della morte e dalla convinzione che non potea sottrarvisi.
Uno degli avventurieri, uno dei cinque complici dell’ultima cospirazione, accostossi a Loredano, e traendogli il cinturino che gli stringeva la persona, lo mostrò a’ suoi compagni.
Loredano, al vedersi separare dal suo tesoro, provò un dolore assai più forte, che non sarebbe stato quello del fuoco stesso; per lui non ci avea supplizio, non tormento, che si agguagliasse a questo.
Ciò che il consolava nell’ora estrema, era il pensiero che quel secreto da lui posseduto, e di cui non potea giovarsi, morrebbe con sè, e andrebbe perduto per tutti; e nessuno godrebbe del tesoro che gli sfuggiva.
Perciò, non sì tosto l’avventuriere gli trasse il cinturino custode dell’itinerario, mandò fuori un ruggito di collera e di rabbia impotente; i suoi occhi s’iniettarono di sangue, e le sue membra, contraendosi, si lacerarono contro le corde che lo tenevano saldo al palco.
Era orribile a vedersi in quel momento; il suo aspetto avea l’espressione brutale e feroce di un idrofobo; le sue labbra erano sozze di bava, e sibilavano come quelle d’un serpente; i suoi denti minacciavano da lungi i suoi carnefici, come le canne del jaguar.
Gli avventurieri si ridevano della disperazione del frate, e di quel furto del prezioso tesoro, e divertivansi in accrescergli il supplizio, col dire che appena liberi dagli Aimorè farebbero una spedizione alle miniere d’argento.
La rabbia di Loredano raddoppiò, quando l’avventuriere che gli aveva tratto il cinturino se le passò ai propri lombi, e gli disse scherzosamente:
— Ben lo sapete il proverbio: — Uno leva la lepre e l’altro la piglia.