Il guarany/Parte Quarta/Capitolo VI
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CAPITOLO VI.
LA PARTENZA.
Erano le otto di sera.
Gli avventurieri, seduti sullo spianato all’ingiro di un piccolo fuoco, aspettavano tristamente che cuocessero alcuni legumi destinati a una magra cena.
La penuria era succeduta all’abbondanza d’altra volta; non potendo provvedersi di cacciagione, loro alimento ordinario, erano ridotti a pochi vegetali.
I vini e le bevande fermentate, di cui facevano largo uso, erano stati attossicati da Pery; e furono obbligati a gettarli via, ben lieti di non esserne rimasti vittima.
Loredano, col chiudere la porta della cucina, era stato quegli che li avea salvati; solo due degli avventurieri che l’aveano accompagnato toccarono quelle bevande, e però poche ore dopo caddero morti, come vedemmo, nell’occasione che andarono per assaltare don Antonio de Mariz.
Del resto le scene di lutto e il frangente in cui si trovavano non eran la causa, che infondeva nei loro animi sempre tanto ilari e gioviali quella tristezza insolita.
Morire colle armi alla mano, combattendo contro l’inimico, era per loro cosa naturale, un pensiero cui li avea avvezzi quella vita piena di avventure e di pericoli.
Ciò che realmente li contristava si era il non aver una buona cena e un’anfora di vino davanti; era il loro stomaco che si contraeva per manco d’alimento, e loro toglieva ogni voglia di ridere e di esilararsi.
La fiamma vermiglia del focolare alle volte oscillava all’alito del vento, e stendendosi sullo spianato andava ad illuminare ad alcuna distanza col suo pallido chiarore il corpo di Loredano legato alla catasta di legna
Gli avventurieri avean risolto di indugiare il supplizio, e dar tempo al frate di pentirsi dei suoi delitti e apparecchiarsi a morire da cristiano, umile e penitente; perciò gli lasciarono tutta quella notte a riflettere.
In questa risoluzione forse ci entrava anche un po’ di malvagità e di vendetta; stimando il frate la vera causa della condizione, cui erano ridotti, l’odiavano e prendevano diletto a prolungarne i patimenti: come un riparo al malfatto.
Perciò di tratto in tratto alcuno di loro si alzava e accostandosi al frate gli rimproverava la sua perversità, e lo caricava di contumelie e di oltraggi; e Loredano si contorceva di rabbia, ma non proferiva una parola, perchè i suoi carnefici aveanlo minacciato di tagliargli la lingua.
Ayres Gomes venne a chiamare gli avventurieri da parte di don Antonio de Mariz; tutti si affrettarono ad obbedire, e poco dopo entrarono nella sala ov’era raccolta la famiglia.
Trattavasi di una sortita, onde procacciar viveri per gli abitatori della casa, finchè don Diego avesse tempo di giungere col soccorso, di cui era andato in cerca.
Don Antonio non si tenne che dieci uomini per propria difesa; gli altri partirono con Alvaro: se riuscivano, ci era ancora una speranza di salvezza, se fallivano, gli uni e gli altri, quanti e quali fossero, morrebbero da cristiani e da Portoghesi.
Fu subito apparecchiata la spedizione, e favoriti dal silenzio della notte partirono e internaronsi nella foresta; doveano allontanarsi senza esser visti dagli Aimorè, e procacciarsi nelle vicinanze un’ampia provvigione di viveri.
Durante la prima ora che seguì alla partenza, i rimasti, coll’occhio teso, ascoltavano colla tema di udire ad ogni istante lo strepito delle armi, nunzio di un combattimento fra gli avventurieri e gli Indiani.
Tutto rimase in silenzio, e una speranza, benchè vaga e tenue, venne a posarsi su quei cuori affranti da tanti patimenti e da tante angustie.
La notte passò tranquilla; nulla indicava che la casa fosse accerchiata da un nemico sì terribile come gli Aimorè.
Don Antonio maravigliavasi che i selvaggi, dopo l’assalto del mattino, si tenessero cheti nel loro campo, e non avessero investito una sola volta la casa.
Gli passò per la mente l’idea che si fossero ritirati per la perdita di alcuno de’ loro principali guerrieri; ma già da molto tempo conosceva lo spirito vendicativo e la tenacità di quella razza, per far buona una simile supposizione.
Cecilia adagiossi sur un sofà, e affranta dalla fatica riuscì a velare gli occhi, malgrado i tristi pensieri e l’ansietà cui era in preda.
Isabella, col cuore chiuso da un terribile presentimento, pensava ad Alvaro, e l’accompagnava da lungi nella sua pericolosa spedizione, mescolando le preci alle parole ardenti del suo amore.
Di tal modo scorse questa notte; la prima, dopo tre giorni, che la famiglia di don Antorio de Mariz potè godere di alcuni momenti di quiete.
Di quando in quando il fidalgo, facendosi alla finestra, vedea da lungi, vicino al fiume, splendere i fuochi degli Aimorè; ma una calma profonda regnava per tutta quella pianura.
Neppur udivasi l’eco tramortito di alcuna di quelle canzoni monotone, con cui i selvaggi usano di notte accompagnare l’ondeggiamento delle loro amache di paglia; sentivasi soltanto il susurrare del vento tra le foglie, il percuotere dell’acqua sopra i massi e lo stridere del gufo.
Contemplando siffatta solitudine, il fidalgo facea insensibilmente ritorno a quella speranza che poc’anzi gli avea sorriso, e che il suo spirito avea rigettata come una mera illusione.
Tutto infatti pareva indicare che i selvaggi avessero abbandonato il loro campo, lasciandovi soltanto i fuochi che avean servito a rischiarare gli apparecchi di partenza.
Per chiunque conoscesse, come don Antonio, i costumi di quei popoli barbari, e sapesse quanto era attiva, agitata, rumorosa quella vita nomade, il silenzio che regnava sulla sponda del fiume era un segnale certo che gli Aimorè più non istavano colà.
Tuttavia il fidalgo, soverchiamente prudente per fidarsi ad apparenze, avea raccomandato alla sua gente di raddoppiar di vigilanza per evitare qualsivoglia sorpresa.
Non fosse per avventura quella quiete e quella serenità altro che alcuna di quelle calme sinistre, che prenunziano le grandi tempeste, e durante le quali gli elementi paiono concentrare tutte le loro forze per entrare in quella lotta spaventosa che ha per campo di battaglia lo spazio e l’infinito.
Le ore scorrevano silenziose; l’usignuolo cantò per la prima volta; e gli albori del mattino sorsero ad impallidire le ombre della notte.
Poco a poco il dì venne spuntando; l’aurora disegnossi sull’orizzonte, tingendo le nuvole di tutti i colori del prisma.
Il primo raggio di sole, spigliandosi da quei tenui e diafani vapori, guizzò per l’azzurro del cielo, e andò ad indorare le vette dei monti.
L’astro del giorno comparve, e torrenti di luce inondarono la foresta, natante come in un mar di oro tempestato di brillanti, che scintillavano in ciascuna delle goccie di rugiada sospese alle foglie degli alberi.
Gli abitatori della casa, svegliatisi, contemplavano quel magnifico spettacolo del nascere del giorno, che dopo tante tribolazioni e tante angustie parea loro interamente nuovo.
Una notte di quiete e tranquillità li avea come restituiti alla vita; giammai quei verdi campi, quel fiume puro e limpido, quegli alberi fiorenti, quegli aperti orizzonti eransi mostrati a’ loro occhi sì vaghi, sì ridenti come in quel mattino.
La ragione si è che il piacere e il dolore abbisognano di contrasto; in lotta perpetua e continua si crogiolano l’un l’altro e si purificano; sol chi conobbe la sventura può gustare la vera felicità.
Cecilia colla freschezza mattutina erasi ravvivata come un fiore del campo; le sue guancie si colorarono di nuovo, come se un raggio di sole baciandole avesse impresso sopra di loro il suo riflesso rosato; gli occhi scintillavano; e le labbra aprendosi alquanto per respirare l’aria pura e balsamica del mattino, pareano atteggiarsi ad un grazioso sorriso.
La speranza, quest’angelo invisibile, questa dolce amica dei soffrenti, era venuta a posarsi nel suo cuore, e mormoravate all’udito parole confuse, canti misteriosi che non comprendea, ma la consolavano versando nella sua anima un balsamo soave.
Tutte le persone della casa provavano un non so che di insolito, un ravvivamento, un principio di ben essere che rivelava una grande trasformazione operatasi nella condizione della sera; era più che speranza, benchè meno che certezza.
Solo Isabella non partecipava a quella impressione generale; come sua cugina, essa pure era venuta a contemplare quell’irradiamento del giorno; ma per interrogar la natura e chiedere al sole, alla luce, al cielo, se le immagini lugubri che le passarono e ripassarono dinanzi nella sua lunga veglia, erano una realtà o una visione.
Cosa singolare! Quel sole sì brillante, quella luce splendida, quel cielo azzurro, che aveano rallegrato gli altri e doveano ispirare a Isabella gli stessi sentimenti, le parvero all’opposto un’amara derisione.
Confrontò la scena sfolgorante, che si appresentava a’ suoi occhi, col quadro che si pingeva nella sua anima; nell’atto che la natura sorrideva, il suo cuore lagrimava. Nel mezzo di quella splendida festa del sorgere del giorno, il suo dolore, solo, isolato, non trovava ove posarsi, e ripulsato dalla creazione tornava a ripremersi nel suo seno.
La giovane chinò il capo sulla spalla di sua cugina, e ascose il volto per non turbare la dolce serenità che spandevasi sul sembiante di lei.
Frattanto don Antonio volle verificare se i suoi sospetti della sera eran reali, e accertossi che i selvaggi aveano abbandonato il campo.
Ayres Gomes, accompagnato da mastro Nunes, osò perfino uscire di casa, e si accostò con cautela al luogo ove la sera innanzi gli Aimorè festeggiavano il sacrifizio di Pery.
Tutto era deserto e non vedeansi più nel campo quelle anfore di terra cotta, quei capi di venagione sospesi ai rami degli alberi, e quelle amache grossolane che indicavano la sosta di un’orda selvaggia.
Non ci avea dubbio; gli Aimorè eran partiti fin dalla sera innanzi, dopo sepolti i loro morti.
Lo scudiero tornò recando questa notizia al fidalgo, che raccolse meno favorevolmente di quello si aspettava; ignorava la causa di quella partenza repentina e ne diffidava.
In ciò non v’era di che maravigliarsi; don Antonio era uomo prudente e scôrto; la sua esperienza di quarant’anni l’avea reso sospettoso, e per cosa qualsiasi non volea dar a’ suoi una speranza che poscia fosse per isvanire.