Il fiore di maggio/Le Cure domestiche

Le Cure domestiche

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Harriet Beecher Stowe - Il fiore di maggio (1843)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1853)
Le Cure domestiche
La Cucitrice La Rosa

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LE CURE DOMESTICHE.



“Puh! disse uno degli avventurati di questo mondo, levandosi di bocca lo zigaro, e facendolo rotolar dolcemente fra il pollice e l’indice; quanto romore menano le donne a proposito di queste parole: “guidare una casa!„ Non saprei trovare nulla di straordinario in simile faccenda; poichè alla fin fine non si tratta che di tre pasti da servire, o sparecchiare; e quelle operazioni sembrano bastevoli ad assorbire tutto il loro tempo dalla mattina alla sera. Saprei ben io governare una casa, senza tanto strepito.„

Ebbene, fratel mio, sì saputo in affari domestici, state attento alla mia istoria. Erami recata, è appunto un anno, a visitar le provincie dell’ovest, tanto rinomate pei loro lumi e per la loro civiltà ed aveva preso comodo alloggio in una casa di campagna ad una mezza lega dalla città. Non eran che tre mesi che avevo contratto matrimonio. La mia famiglia componevasi di me, di mio marito e d’una signora fra le nostre amiche che venne a passare qualche tempo con [p. 243 modifica]noi, e due cognati che avevano un interesse nelle nostre faccende. Per non diffondermi in particolari sorpasso ai due o tre primi giorni che si passarono a ficcar chiodi nel muro, ad aprire le nostre valigie, le casse d’ogni dimensione e larghezza, a rompere stoviglie, a scernere vetri e cristalli dagli utensili di cucina, a sbarazzare in fine un caos di oggetti eterogenei, frammisti e confusi insieme in modo da indurre quasi in noi l’impossibilità di poter restituir a ciascuno di loro la propria individualità separata e distinta. Sono tali i prolegomeni necessarii all’imprendere il governo d’una casa. Come d’ordinario, il tappeto vien cucito disteso, e posto in opera; mille cose sono riformate, trasformate e difformate, finchè ne nasca almeno un’apparenza d’ordine. Ma ora prendiamo a trattare il punto principale. Ne’ primi giorni di quella confusione, abbiamo apparecchiati e presi i nostri passi alla rinfusa ed in modo affatto pastorale, ora sul coperchio d’una botte, ora su di un’asse attraverso a due sedie; bevendo chi nelle sottocoppe, chi nella salziera, chi in vasi od in recipienti abbastanza grandi da annegarvisi. Quanto al dormire ci stendevamo sopra sofà, matterazzi posti attraverso le stanze, dove v’aveva luogo per collocarli. Ma alla fine tutte quelle barbarie avevano finito; la casa ripigliava un’aria ordinata. Tondi e vasellame eran collocate al loro posto. Tre pasti regolari dovevano essere serviti ciascun dì nella forma regolare e civilizzata de’ giorni nostri. Si assestavano letti, si pulivano e scopavano le camere, si levava la polvere dai mobili. Il vassellame era terso, i coltelli puliti, ecc. Ma, come dice madama Trollope, ci era [p. 244 modifica]allora mestieri di ausiliarii. La questione era di sapere in qual luogo, ed in qual maniera procurarci simili ausiliari. Noi conoscevamo pochissime persone nella città. Come fare? Alla fine ci si parla d’un officio di indizii. Nel corso d’una settimana mio marito vi fu registrato regolarmente tutti i giorni, mentre io mi ammazzava ogni giorno dall’eccessiva fatica che mi davano le cure domestiche.

Una sera, era affatto spossata, quando mio marito entrò nella camera, dicendomi “Finalmente, Margherita, ho ritrovati due domestici, una cuoca ed una cameriera.„ In così dire introdusse una piccola vecchia che aveva il naso ingombro di tabacco, ed una grande donzella olandese, dallo sguardo spaventato, e che stavasene colla bocca aperta. Aveva in capo un cappel verde con nastri rossi. Pure, dirizzai loro qualche parola di incoraggiamento, cominciando a richiederle de’ loro nomi, quando la vecchia prese a parlar nel naso, ed asciugarsi il viso con un lembo d’un vecchio foulard di seta, il tutto a modo di preambolo; mentre la giovane spalancava maggiormente la bocca, e gittava gli occhi attorno alla stanza, con aria spaventata, come se volgesse in animo di scapparsene. Dopo qualche preliminare, seppi che la vecchia era la signora Tibbins, e la mia Ebe chiamavasi Kotterin; seppi del pari che ella parlava meglio l’olandese che l’inglese, ma che in monte non sapeva parlar bene nè l’una nè l’altra lingua. La vecchia era cuciniera. Chieste alcune informazioni, le dissi:

“Avete già altre volte servito come cuoca?

— Sì, signora, certamente„ e nominò due o tre [p. 245 modifica]case della città. Tacqui per allora e risolsi d’aspettar l’indomane. La colazione senza dubbio non fe’ molto onore ai talenti della mia cuciniera, ma era la prima volta ed il posto erale nuovo. Finita la colazione, diedi gli ordini pel pranzo che consisteva semplicemente in un pezzo di vitello allo spiedo. L’abile cuoca mi guardò con aria stupefatta. Lo spiedo è là, le dissi io segnandole a dita quell’utensilio di cucina.

Si avvicinò allora all’oggetto designato con aria di dubbio e di inquietudine, come fosse stato una batteria elettrica, e volse attorno uno sguardo di così profonda ignoranza, che ne fui tocca fino all’anima.

“Non ho mai visto una cosa come questa, diss’ella.

— Non avete mai veduto uno spiedo? sclamai io. M’avevate pur detto d’aver servito in due o tre famiglie.

— Ma essi non avevano di simili apparati„ rispose la vecchia.

M’accorsi allora che altro non mi restava che porre in ordine io stessa il pezzo di vitello, e dopo aver lasciato gli ordini i più precisi, salii al piano superiore per sorvegliare Kotterin, a cui aveva affidato di porre in ordine la stanza. Fino allora io non aveva mai supposto che vi potessero essere due maniere per fare un letto, e non aveva nemmeno immaginato che si fosse potuto pervenire, disponendo i cucini, i materazzi, le preponte e le coperte, a dare al letto l’aspetto senza nome, che m’offrì il mio, quando entrai nella stanza. Kotterin vide la mia sorpresa senza farne le meraviglie.

In quel mentre si suonò alla porta verso strada. [p. 246 modifica]

“Si suona, Kotterin, diss’io accorrete e introducete nella sala d’aspetto„ Kotterin corse premurosamente ma ad un tratto si ferma gittando volta a volta su tutte le porte dell’anticamera e su di me uno sguardo pieno di tristezza e d’imbarazzo.

“Alla porta verso strada„ le diss’io, segnandole la strada. Ma Kotterin in mezzo a molte porte, esitava, cercando di comprendere forse, in qual modo un campanello poteva suonare da sè solo. Senza aspettare che ella fosse venuta alla soluzione del problema, accorsi alla porta, ed aprii io stessa.

Avvicinandosi l’ora del pranzo, mandai ad avvisare in cucina che si preparasse a servirci: ma ad un tratto rissovenendomi con quali persone aveva a che fare per l’esecuzione de’ miei ordini, vi andai io stessa. Lo spettacolo che allora si offerse al mio sguardo confuse la mia immaginazione. Trovai lo spiedo in mezzo della cucina, e la cuoca gravemente seduta alla turca rimpetto, contemplando l’arrosto con aria così confusa come aveva l’istessa mattina. Io le spiegai di nuovo tutti i misteri intorno al modo di liberare l’arrosto infilzato, e l’aiutai a farlo scorrere in un gran tondo, il tutto senza disgrazie: solo, la vivanda era un po’ meno calda ch’io avrei bramato, a cagione della sventurata contemplazione della vecchia. Finalmente ci ponemmo a tavola, quando s’udì novellamente suonare alla porta della strada. Questa fiata Kotterin, che non aveva dimenticato la lezione testè avuta, risolse di distinguersi. Traversa una gran stanza che precedeva la cucina, corre alla porta, l’apre e ritornandosene colle persone che avevano suonato (erano tre o quattro [p. 247 modifica]signore assai eleganti) le condusse innanzi l’uscio della cucina ed apertala, disse, additandomi graziosamente alle signore che chiedevano di me: “Eccola!„

Quelle signore abitavan la città vicina, ed erano le prime che fossero venute a farci visita. L’introduzione di Kotterin non mi parve perfettamente d’accordo colla loro cortesia. La loro presenza fece su di me l’effetto che avrebbe prodotto la testa di Medusa. Al loro grazioso inchino risposi macchinalmente scuotendo lo spiedo che teneva ancora fra le mani mentre la povera Tibbins, confusa più di me, tossiva, soffiava, prendeva tabacco, e guardavasi d’attorno cogli occhi fissi dell’ebete. Uscì alla fine dallo stupore, cavandosi di tasca il vecchio fazzoletto per asciugarsi in volto. Fu quello il colpo di grazia. La discrezione di quelle signore era al colmo.

Uno scoppio di risa stava per salutare la nostra pantomima, quando io ricuperai, proprio a tempo, abbastanza sangue freddo per presentar loro le mie scuse, e condurle nelle sale di ricevimento.

Dal fin qui detto, si può fare un’idea delle quattro mortali settimane che passai co’ miei ausiliari. In quel frattempo io faceva, con maggior pena, quasi altrettanto lavoro come quando non aveva alcuno, ed ogni cosa andava di traverso. Era così che i nostri giovani si lamentavano de’ loro collari male amidati, e di striscie nere come il carbone che variegavano lo sparato delle loro camicie. Accade pure, nella più nefasta di tutte quelle quattro settimane, tutti i fazzoletti da tasca erano incollati così fortemente, che le tasche sembravano imbottite di carta grigia. [p. 248 modifica]

Riguardo al servizio di tavola, i bicchieri e le bottiglie sembravano sempre sucide, i tondi non erano mai nè ben lavati, nè bene asciutti, a meno che non vi mettessi mano io stessa. Quanto al mangiare ed al bere noi passammo in mezzo a prove immaginabili.

Finalmente la vecchia Tibbins, sparve dalla scena. Fu rimpiazzata da una giovane capace, attiva, intelligente, con un umore pieghevole come l’acciajo. Stette da noi una settimana e poscia sparì in un accesso di collera. A quell’amazzone tenne dietro un’altra figlia della rosea tinta, con naturale buono, ed un’indole gaja. Nella sua gioja infantile rompeva bicchieri, tondi, ecc., faceva buchi nella biancheria nello stirarla: rovesciava sossopra ciò che le capitava tra piedi ne’ suoi andirivieni, conservando sempre un’inalterabile serenità. Una sera, scesa in cantina, dimenticò di mettere la spina ad un barile di melassa, e risalì le scale cantando, in modo che la melassa essendosi durante la notte versata, il barile si trovò alla mattina in uno stato d’universale emancipazione. Dopo così bel colpo ebbe la sventura di lasciar cadere un piatto, su cui stava un magnifico servizio di porcellana. Allora senza dubbio s’accorse che la sua campagna era finita, ed andò a piantare più lungi i suoi quartieri d’inverno. Un compenso a tante prove m’era alla fine serbato. Un bel mattino un’avvenente ed amabile persona, perfettamente al fatto del servizio, ed esperta nel fare pasticci e manicaretti d’ogni specie, venne a propormisi per domestica. “Ora, dissi fra me e me, potrò alla fine riposarmi da tante fatiche.„

In fatti non appena quella brava persona prese [p. 249 modifica]possesso della direzione delle domestiche faccende, tutto cammino in buon ordine, e tutto all’intorno a noi assunse un’aria di eleganza, e di proprietà che ci in cantava. Ma ahimè! quel periodo avventurato fu tosto interrotto. Cominciai a sospettare d’un bello ed appariscente giovinotto, che ogni sabbato a sera s’introduceva nella cucina, e già stava per chiederne conto a Maria, quand’ella medesima venne a dirmi, con aria mezzo ridente, e mezzo imbarazzata che le era mestieri abbandonarci fra quindici giorni “Perchè, Maria, le dissi un po’ corucciata, non state bene qui presso di noi?

— Oh! sì signora.

— Allora perchè abbandonare la casa nostra per un’altra?

— Io non entro in un’altra casa.

— Volete forse accudire ad un’altra professione?

— No, signora.

— Adunque che cosa avete in animo di fare?

— Ho pensato di metter casa, io stessa, signora, disse ridendo e confusa ad un tempo.

— Oh! oh! diss’io, benissimo.

Ed allora, in capo a due settimane io perdetti la più amabile persona al mondo. Pace alla sua memoria!

Dal giorno della partenza di quella stella la nomenclatura de’ nostri domestici divenne così poco interessante che io non la cito per formalità. Ebbimo dapprima una vecchia, che ci lasciò a cagione del suo male ai denti; una figlia un po’ leggera che si diede alla fuga, e prese marito: un cuoco che venuto la [p. 250 modifica]sera, era già svanito co’ primi raggi dell’aurora del giorno seguente un’altra ragazza intelligente ma pigra, che stette da noi un mese e se ne andò in seguito, perchè sua madre era caduta ammalata; un’altra ancora, che si fermò sei settimane e poi la colse la febbre. E in tutto questo tempo chi può dire i danni, le perdite cagionate, i guasti ai mobili che passavano da questa sequela di mani sinistre, avide, noncuranti o sventurate?

Ma che fare? Convien forse lasciare deserte le case, abbandonare alla ventura i mobili, e metterci allegramente sulle spalle un sacco di farina, una marmitta, un bastone, e, nomadi d’un paese incivilito, piantare la nostra tenda, come i beduini, in aperta campagna? Che fare?