Il festino/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa del Conte.
Il Conte e Balestra.
Mancano i sonatori sul fin del carnovale.
Non se ne trova uno di buona o trista razza;
Sono impegnati in feste sino1 gli orbi di piazza.
Conte. Tant’è, son nell’impegno; stassera io vuò la festa:
Due trombe e due violini trovar solo mi resta.
S’han da trovar, Balestra, s’han da trovar costoro;
Li voglio, s’io credessi di spender un tesoro.
Conte. Come, ti dirò io.
Con dodici zecchini verranno al cenno mio.
Trovali tutti e quattro. Se fossero impegnati,
Di’ loro che con arte si fingano ammalati.
Di notte a casa mia, guidati da Balestra,
Vengano mascherati e suonino in orchestra.
Balestra. Ma se nessun volesse....
Conte. Il denar tutto può.
Non bastan tre zecchini? sei per un ne darò.
Son nell’impegno, e uscirne ad ogni costo io voglio.
Balestra. Creda, signor padrone, vi sarà dell’imbroglio.
Se fosse a un altro giorno l’invito trasportato,
Può darsi che s’avesse l’orchestra a buon mercato.
Perchè.....
Conte. Si perde il tempo; svolgermi in van si spera.
Corso è l’invito, e il ballo dee farsi in questa sera.
Tu sai chi sono; avverti non mi trovar obbietto.
Vuò quattro sonatori; accordali, e ti aspetto.
Basta che non ti veda tornare inutilmente.
Balestra, sai chi sono, si spenda allegramente.
Balestra. Allegramente dunque si spenda e si profonda,
E l’esito felice al genio corrisponda.
Intanto, per far breccia nel cuor dei sonatori,
Mi dia, signor padrone, la borsa con degli ori.
Conte. La borsa ci sarà, ci saran le monete;
So ben che i sonatori son persone discrete.
Essi non temeranno ch’io non mantenga il patto,
Non si usa in casi tali pagare innanzi tratto.
Balestra. Non si usa, e non si paga; ma il caso è differente:
Ci voglion de’ zecchini, se no non farem niente.
Conte. Ne aspetto.
Balestra. Differire si può dunque la festa.
Conte. Non posso differirla. Ti romperei la testa.
Vattene per pietà.
Conte. Dove anderai?
Balestra. Vorrei di questa casa andar lontano assai.
Conte. Vieni qui.
Balestra. Mio signore.
Conte. Impegna quest’anello.
Balestra. (Ecco, i divertimenti fan perdere il cervello). (da sè)
Conte. Prendilo.
Balestra. Sì, signore.
Conte. Per otto giorni al più.
Trova zecchini trenta.
Balestra. (Non lo riscuote più). (da sè)
Conte. Che hai? Questo accidente per me ti reca duolo?
Se son senza denari, Balestra, io non son solo;
E solo non sarò forse in un caso pari,
Ad essere in impegno e non aver denari.
Balestra. È ver; ma fa da piangere, caro signor padrone,
Saper che in men d’un anno andò una possessione;
Saper che alla consorte...
Conte. Basta così, va via.
Balestra. La dote consumata... (camminando)
Conte. Balestra, in cortesia.
Balestra. E per chi... (camminando)
Conte. Ehi! Balestra.
Balestra. Per una cicisbea...
(camminando)
Conte. Balestra, di che parli?
Balestra. Fra me la discorrea.
Conte. Vanne, impegna l’anello, e trova i sonatori,
E taci, ch’io bisogno non ho de’ seccatori.
Balestra. Vi servo, e non vi secco. Madama Doralice
Del vostro borsellino sarà la seccatrice. (parte)
SCENA II.
Il Conte solo.
È un servitore antico che mi riprende in faccia.
So che gli cal non poco l’onor, la gloria mia;
E sa con il decoro unir l’economia.
Così mi prevalessi talor de’ suoi consigli,
Che or non mi troverei fra debiti e perigli.
Oh dura condizione di chi seguir s’impegna
Quel che la moda e l’uso, quel che l’esempio insegna.
Oh quanti sacrifici si fanno all’ambizione!
Questa trionfa in oggi sopra ogni altra passione.
Ah sì, lo provo io stesso, io che servire or bramo2
Donna d’orgoglio piena, che tollero e non amo.
E sol perchè non rida il mondo che mi osserva,
L’impegno vuol per ora ch’io soffra e ch’io la serva.
Ecco mia moglie. Ah, questa merta d’esser servita;
Ma servitù di sposo dopo tre dì è finita. (vuol partire)
SCENA III.
La Contessa e detto.
Conte. Che comandate? (voltandosi)
Contessa. Udite una parola.
Conte. Eccomi.
Contessa. Vuò pregarvi di una finezza sola.
Conte. Dite pure.
Contessa. Vorrei, se la domanda è onesta,
Saper per qual ragione dar vogliate una festa.
Non dico che padrone di darla voi non siate,
Ma l’uso vuol che sieno le mogli consultate3.
Se ho da ricever io, giust’è che ne sia intesa.
Conte. Altra cagion, Contessa, non muove il genio mio,
Che di goder gli amici sollecito desio.
Di feste e di banchetti anch’io son favorito;
Giust’è che in casa mia diasi un ballo e un convito4.
Contessa. Anche la cena?
Conte. A pochi, dagli altri separati.
Contessa. Posso sapere almeno chi sieno i convitati?
Conte. Li sceglierete voi.
Contessa. Ben volentier, signore.
Ad invitar io mando sorella e genitore,
Aspasia mia cugina, la vostra genitrice
Conte. Benissimo, e per quarta madama Doralice.
Contessa. Caro signor consorte, stupire io mi volea
Che in mezzo non ci fosse la vostra cicisbea.
Conte. È dama come le altre, può star d’ogni altra al paro.
Contessa. Sì, sì. Di tutto il resto or son venuta in chiaro.
La festa ed il convito son fatti per Madama.
Per me non aspettate che inviti alcuna dama;
Anzi da mia cugina andar son persuasa.
Madama potrà fare gli onori della casa.
Conte. Contessa, in altro tempo andate ove volete;
Non cerco se ci siete in casa o non ci siete:
Ma vuò che questa sera le dame convitate
Sieno dalla padrona servite ed accettate.
Contessa. Madama Doralice godrà ch’io non ci sia.
Conte. Vergogna è in una dama nutrir tal gelosia.
Contessa. Gelosa non son io del volto peregrino:
Forse sarà Madama la peggio del festino;
Ma son più di sei mesi, che qui non è venuta:
Quando m’incontra, o fugge, o appena mi saluta.
Segno che nel vedermi poco piacer risente,
Che l’amicizia vostra non è tanto innocente.
Se una rival soffrissi ancor sugli occhi miei.
Conte. Che favellare è il vostro? che termini son questi,
Indegni di una dama che ha sentimenti onesti?
Rival d’una consorte dirsi non può colei,
Cui tratto come sogliono trattare i pari miei.
In casa e fuor di casa so fare il mio dovere;
Amar so da consorte, servir da cavaliere.
L’onor d’una famiglia così non si strapazza.
Contessa. Conte, non vi scaldate. Vorrei....
Conte. Siete una pazza, (parte)
SCENA IV.
La Contessa, poi Lesbino.
D’una femmina ingrata sacrifichi te stesso;
Non ho per gelosia perduto il chiaro lume,
D’onesta servitute non spiacemi il costume;
Ma duolmi che si perda miseramente il Conte
Con una che lo paga solo coi scherni e l’onte:
Con una che superba mi sprezza e m’odia a morte,
E cerca screditarmi nel cuor del mio consorte.
Come poteo scordarsi sì presto il caro sposo
Di quell’amor che il fece delle mie nozze ansioso?
Quel nodo che dovrebbe dar alimento al foco,
Farà che anzi si spenga, o almen che duri poco?
Dunque in amor di bene non vi è che un sol momento:
Prima il desio tormenta, e poscia il pentimento.
Ma che farò frattanto, se il ballo ed il convito
Persiste a voler dare il Conte mio marito?
Nol so. Del padre mio giovar potriami un lume;
Ma dell’inquiete donne abborrisco il costume.
Quando sarò forzata, farollo a mio dispetto;
Finchè si può, allo sposo serbisi amor, rispetto.
Ci penserò.
La baronessa Oliva, la marchesa Dogliata.
Contessa. Vengano, son padrone. (Lesbino parte)
Che sì che l’indovino?
Che sì che son venute per causa del festino?
Vengono a visitarmi per essere invitate;
Ma se n’andran, lo giuro, deluse e mal gustate.
SCENA V.
La Marchesa Dogliata, la Baronessa Oliva, la suddetta e Lesbino.
Baronessa. Serva.
Contessa. Signore, a voi m’inchino.
Da seder. (a Lesbino)
Marchesa. (Non si vede principio di festino).
(alla Baronessa, e siedono)
Contessa. Per qual destin felice di tant’onor m’ha resa
Degna la Baronessa e degna la Marchesa?
Baronessa. Nuovo non è per voi, Contessa, il mio rispetto.
Marchesa. Ci amammo da fanciulle; lo stesso è in me l’affetto.
Contessa. All’espression sincera dell’una e l’altra io credo,
Poichè senza alcun merito favorita or mi vedo.
Baronessa. Come vi divertite? (alla Conlessa)
Contessa. Nol so, tutto m’attedia.
Io vado qualche volta soltando alla commedia.
Baronessa. Oh! ne ho veduta una quindici sere sono.
Che cosa scellerata! Mai più gliela perdono.
Marchesa. Di quel Vecchio Bizzarro vorrete dir, m’avveggio.
Baronessa. Ci siete stata? (alla Marchesa)
Marchesa. E come!
Baronessa. Non si può far di peggio.
Voi l’avete veduta? (alla Contessa)
Baronessa. Lo so che dell’autore voi siete protettrice.
Ma affè, che questa volta la protezion non vale
Per un che ha disgustato l’udienza in generale.
Io credo che per lui sarà minor strapazzo
Il dir che questa volta sia diventato pazzo.
Marchesa. Non vi è una scena buona.
Baronessa. Non vi è un bell’accidente.
Marchesa. Il dialogo è cattivo.
Baronessa. In somma non val niente.
Contessa. Vi siete ancor sfogate?
Baronessa. Difenderla vorreste?
Marchesa. Affè! sarebbe bella, che voi la difendeste.
Contessa. Difenderla non voglio, non son di senno priva.
Se tutti la condannano, dirò ch’ella è cattiva.
Anche l’autore istesso, sentito un tal flagello,
Pregò che la mattina levassero il cartello:
Del pubblico i giudizi ha sempre rispettato;
Anch’ei la maledice, ed è mortificato.
Marchesa. Se il pubblico temeva, dovea studiarla bene.
Contessa. A un uom che ha tanto scritto
Baronessa. Da ridere mi viene.
Un uom che ha tanto scritto, Contessa mia diletta,
Che scriva sempre meglio l’universale aspetta.
Contessa. È vero, ed abbiam visto di sue fatiche il frutto;
Ma un uom che scrive assai, bene non può far tutto.
Marchesa. Se non fa bene bene, almeno sia ordinata.
La cosa, che non riesca cotanto scellerata.
Sentito avrete pure il popolo commosso
Cogli urli e con i fischi strillare a più non posso.
Contessa. Amiche, permettete che dica quel ch’io sento,
Non dell’autor per scusa, ma per compatimento.
Quest’ultima commedia dal mondo condannata,
Forse cinqu’anni addietro sarebbesi apprezzata.
Ma il poco non soddisfa a chi assaggiò il migliore;
E l’ho sentito io stessa dir che più degli evviva
Gli scherni a tal commedia del popolo gradiva:
Da ciò per l’avvenire messo in maggiore impegno,
L’udienza delicata mirando a questo segno.
Pronto a sudar più ancora negli anni che verranno,
Contento che in Italia si sparga il disinganno.
Poichè talor gli applausi, talor l’indiscrezione,
Producono col tempo del buon la perfezione.
Baronessa. Faccia commedie buone, e allor sarà lodato.
Marchesa. Se le farà cattive, fia sempre strapazzato.
Contessa. Se ne facesse sei di belle, e due di brutte?
Baronessa. Una cattiva basta per scordarsi di tutte.
Contessa. Povero autor! Compiango lo stato suo infelice.
Marchesa. Di quello che mi annoia, non fo la protettrice.
Contessa. Ma si può bene....
Baronessa. Oimè! La cosa ormai m’attedia.
Per tutto ove si va, si parla di commedia.
Cara Contessa mia, quel poco che ci avanza
Di carnovale, è meglio goderlo nella danza.
Or mando alla commedia le serve ed i bambini,
In questi ultimi giorni mi piacciono i festini.
Marchesa. Anch’io per verità me ne compiaccio assai.
E voi, Contessa?
Contessa. Oh! io, davver, non ballo mai.
Baronessa. Ancor che non si balli, a veder si ha diletto.
Contessa. Anzi che sulla sedia, meglio si dorme in letto.
Marchesa. Con questo freddo in letto sola sola agghiacciata?
Contessa. Perchè sola nel letto? Non son io maritata?
Marchesa. Sì, ma il marito vostro, cara Contessa mia,
La notte si diverte con buona compagnia.
Contessa. Ehi! chi è di là? (non volendo badare a quel che dicono)
Lesbino. Signora.
Contessa. Porta la cioccolata.
(Lesbino parte)
Marchesa. (Son stata assicurata).
Baronessa. Gli altri anni in casa vostra faceasi qualche festa.
Quest’anno... (alla Contessa)
Contessa. Son dei giorni che ho un gran dolor di testa.
Non so da che derivi.
Marchesa. Sarà malinconia.
Baronessa. Il chiacchierar fa peggio. Marchesa, andiamo via.
Marchesa. Spiacemi, Contessina, d’avervi incomodata. (s’alza)
Contessa. Fermatevi, signore; beviam la cioccolata.
(Lesbino con cioccolata, e la bevono tutte)
SCENA VI.
Il Conte e dette.
(s’inchina)
Marchesa. Serva, Conte.
Baronessa. Son serva.
Conte. Vi ha detto la Contessa?...
Baronessa. Che cosa?
Conte. Del festino?
Baronessa. Non siam privilegiate.
Contessa. (Ora son nell’impegno). (da sè)
Conte. Perchè non le invitate?
(alla Contessa)
Contessa. Il festino si fa?
Conte. Si fa, si fa, signora. (alla Contessa)
Contessa. Come? Se i sonatori voi non trovaste ancora?
Conte. Li ho ritrovati. In vero, assai difficilmente.
Signore, la Contessa di ciò non sapea niente.
Temea non si facesse, e non ardia per questo
Pregar di favorirci...
Pregate vi averei5, come vi prego adesso.
(freddamente)
Baronessa. Riceverò gli onori.
Marchesa. Tenuta io mi professo.
Contessa. (Stupisco che si accetti da lor simile invito). (da sè)
Baronessa. (Verrò per suo dispetto). (da sè)
Marchesa. (Verrò per suo marito), (da sè)
Conte. Udite. Se il digiuno talor non vi dà pena,
l’invita la Contessa a parchissima cena.
Baronessa. A cena ancora?
Marchesa. È troppo.
Baronessa. Troppo gentil, Contessa.
Marchesa. Voi siete, per dir vero, la gentilezza istessa. (alla Contessa)
Contessa. Indegna di tai dame sarà la mensa mia.
Baronessa. Bastami il vostro cuore.
Marchesa. La vostra compagnia.
Conte. Si farà preparare in luogo confidente;
Tra i suoni e le bottiglie staremo allegramente.
Marchesa. Vi sarà, mi figuro, madama Doralice.
Baronessa. Si sa; senza di lei la festa far non lice.
Contessa. (Sentite?) (al Conte)
Conte. (E che per questo?) (alla Contessa)
Ci sarà, sì, signora.
Dama non è che possa esser fra l’altre ancora?
Baronessa. Anzi sarà Madama il miglior condimento.
Marchesa. Dove non vi è Madama, non vi è divertimento.
Baronessa. Verremo questa sera al generoso invito.
Marchesa. Godremo, Contessina, la festa ed il convito.
Contessa. 6Compatirete...
Baronessa. Addio.
Marchesa. Addio, Contessa mia.
Baronessa. (Di rabbia si divora). (da sè)
(partono accompagnate da tutti due, ma il Conte le segue)
Contessa. Non so quel che mi faccia, non so se il mio dispetto
Vada a sfogar altrove, o s’io mi ponga in letto.
Vorrei dissimulare, ma estrema è la mia pena;
Resister non mi fido al ballo ed alla cena.
De’ miei dolenti casi inteso è il padre mio;
Da lui prudente e saggio tutto sperar poss’io.
S’ha da trovar rimedio. Un dì s’ha da finire;
Ma intanto la prudenza m’insegna a sofferire.
Farò dei sforzi, e spero di superar l’affanno.
Per una notte al fine... ma torna il mio tiranno.
Barbaro, ti amo ancora. Questo è il mio mal peggiore;
Meglio per me, se meno amassi il traditore. (parte)
SCENA VII.
Il Conte ed il Cuoco.
Difficile non vedo trovarli in questi giorni.
Voglio il pasticcio, e voglio almen sei piatti buoni;
Voglio un fagiano ancora: e tu che mi ragioni?
Cuoco. Tutto si troverà, ma tutto a prezzo caro.
Conte. Trovisi, e che si paghi.
Cuoco. Favorisca il denaro.
Conte. Balestra è ritornato?
Cuoco. Ancor non l’ho veduto.
Conte. Maledetto Balestra! Va a veder s’è venuto.
Cuoco. Passa il tempo, signore, e se ho da far gli estratti...
Conte. Cerca Balestra.
Cuoco. Dove?
Conte. Va a preparare i piatti.
Cuoco. La roba è necessaria...
Conte. La roba ci sarà.
Conte. Va in cucina.
Cuoco. Il tempo passerà.
Conte. Quando verrà Balestra, avverti di far presto;
Se manchi, ti bastono, Bodin, te lo protesto.
Cuoco. (Che lavorare è questo! che vivere arrabbiato!)
Se resto in questa casa, io muoio disperato). (parte)
SCENA VIII.
Il Conte, poi Lesbino.
E a casa non ritorna col resto di quegli ori?
Dovrian venti zecchini bastar per questa cena.
Ma s’egli non si vede? Che diavol fa? Che pena!
Lesbino. Signor.
Conte. Tornò Balestra?
Lesbino. Non è venuto ancora.
È qui di fuori il padre...
Conte. Di chi?
Lesbino. Della signora.
Conte. Mio suocero? Che vuole? Gli hai detto che ci sono?
Lesbino. Sì, signor...
Conte. Maledetto...
Lesbino. Signor, chiedo perdono.
Conte. Dovevi dir... che passi... fermati... gli dirai...
Ma no, digli che venga.
Lesbino. Non l’indovino mai. (parte)
SCENA IX.
Il Conte, poi don Maurizio.
Conte. Signore, a voi m’inchino.
Maurizio. È ver che questa sera preparasi un festino?
Conte. E vero.
Maurizio. E non lo dice al genitor la figlia?
Del suocero si lascia da un canto la famiglia?
Conte. Signor, siete padrone del ballo e della cena.
Maurizio. No, Conte, vi ringrazio. Non vi mettete in pena.
Amante non son io di tai trattenimenti,
E so che in tal incontro si sfuggono i parenti.
Conte. Questo rimbrotto acerbo non so di meritarmi.
In casa mia vietato sarà di soddisfarmi?
Maurizio. Potete in casa vostra sfogar le oneste voglie;
Ma un po’ più di rispetto si deve ad una moglie.
Conte. Ella di me si lagna?
Maurizio. Si lagna, e con ragione.
Io compatisco in tutti l’impegno e la passione;
Ma la ragion insegna, insegna la prudenza,
Che deggia l’onest’uomo salvar la convenienza.
Non portasi in trionfo ad una moglie in faccia
Cosa che le dia pena, oggetto che le spiaccia.
Conte. Come, signore?...
Maurizio. Amico, sfuggite un tal pericolo.
Su ciò dissi abbastanza. Passiamo ad altro articolo.
La Piazza ed il Ridotto di voi si burla e ride;
E il pubblico assai presto degli uomini decide.
Si sa che a braccia quadre spendete e profondete;
Si sa che il patrimonio anche intaccato avete.
E quei che in questa sera da voi piacere avranno,
Per solita mercede di voi si rideranno.
Che bel piacere è il vostro sentir mentita lode,
Allor che la coscienza vi macera e vi rode?
Partiti i commensali, partiti i danzatori,
Succeder nella sala in folla i creditori?
La notte al chiaro lume brillare in lieta danza,
Questo è piacer? Piacere degli uomini bennati
È il viver con decoro, è8 l’esser rispettati.
Nè basta il van rispetto dei falsi adulatori,
Che aiutano lo stolto a struggere i tesori;
Ma il cavaliere onesto si venera e si acclama,
Che innalza il proprio nome sull’ali della fama,
Che accresce alla famiglia il pregio degli onori,
Che render sa giustizia al sangue dei maggiori,
E che nel proprio cuore serbar con egual zelo
Sa i doveri dell’uomo, e rispettare il cielo.
Conte. Signor... (vedendo Balestra, si ferma di parlare)
SCENA X.
Balestra e detti.
Conte. Il sono.
Maurizio. Posso sperar che voi...
Conte. Signor, chiedo perdono.
Veggo il mio servo, e seco grave dover mi vuole.
Maurizio. Con voi gettasi invano il tempo e le parole.
Conte. No, no, vedrete, il giuro... (Hai tu il denar portato?)
(a Balestra)
Balestra. Sì, signor.
Conte. Permettete... Prendo per or commiato.
Ci rivedremo. (a don Maurizio)
Maurizio. Ah Conte, veggo il vostro periglio.
Conte. Ci rivedrem.
Maurizio. Stassera?
Conte. Signor, non vi consiglio.
(parte con Balestra)
Maurizio. Misero! sei perduto. Il vizio in cuor ti regna.
Il vizio sulla fronte spiega l’audace insegna.
E sotto al suo consiglio si asconde una minaccia.
In braccio al tuo destino ti lascio e ti abbandono;
Ma della sposa oppressa tenero padre io sono.
Finchè si può, si salvi l’onor di tua famiglia;
Soffra disagi ed onte la virtù della figlia,
Ma quando il vizio eccede, anche natura insegna
A scuotere dal fianco una catena indegna:
Che se della tua fama, stolido, a te non cale,
Che val la sofferenza, il non parlar che vale?
Il mondo che mal pensa, che sa dei tristi ogni arte,
Dirà ch’è l’innocente de’ tuoi deliri a parte.
Onde se nulla giova virtù, costanza, amore,
A lei renda giustizia il cielo e il genitore. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
- ↑ Ed. Zatta: perfin.
- ↑ Guibert-Orgeas e Zatta: io che di servir bramo.
- ↑ Così l’ed. Zatta. Nelle edd. Pitteri e Guibert-Orgeas leggesi: Ma vuol che sian le mogli l’uso in ciò consigliate.
- ↑ Nell’ed. Zatta si legge: Giust’e che dia in mia casa un ballo ed un convito.
- ↑ Zatta: Prima vi avrei pregate ecc.
- ↑ Nell’ed. Pitteri: il Conte.
- ↑ Guibert-Orgeas e Zatta: Verrà qui don Maurizio ecc.
- ↑ Guibert-Orgeas e Zatta: e.